Testo integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza

1). IL LICENZIAMENTO PER INIDONEITÀ FISICA ALLA MANSIONE. LE FONTI NAZIONALI.

Il tema del licenziamento per inidoneità fisica alla mansione è sempre stato espressione del concreto bilanciamento tra l’interesse imprenditoriale a cessare il rapporto di fronte alla impossibilità del lavoratore di rendere la propria prestazione, e l’interesse del lavoratore alla salvaguardia dell’occupazione ed al pieno sviluppo della propria personalità, pur in presenza di una ridotta capacità lavorativa.
Non si tratta soltanto di una vicenda inerente al corretto svolgimento del sinallagma contrattuale, ma anche di una questione di civiltà giuridica e solidarietà sociale, che attiene alla realizzazione della personalità individuale ed alla salvaguardia della dignità sociale del lavoratore afflitto da una infermità che incide sulla sua capacità lavorativa.
Libertà di organizzazione dell’impresa ed interesse alla tutela della personalità e dignità del lavoratore disabile costituiscono banco di prova del grado di civiltà giuridica dell’ordinamento, nella ricerca di un adeguato equilibrio che non incida in modo sproporzionato sulla posizione giuridica di ciascuna delle parti .
La Cassazione sin dalla fine degli anni novanta aveva individuato, nell’ambito del ripescaggio, un obbligo di offrire mansioni anche inferiori in presenza di un licenziamento collegato all’inidoneità del lavoratore .
Il comma 4 dell’art. 4 della legge 68/1999 prevede espressamente che i lavoratori divenuti inabili nello svolgimento delle proprie mansioni a causa di infortunio o malattia, non possono essere computati nella quota di riserva ai fini delle assunzioni obbligatorie, se hanno subito una riduzione della capacità lavorativa inferiore al 60% o comunque se sono divenuti inabili a causa di inadempimenti del datore di lavoro alle norme in materia di sicurezza e igiene del lavoro, accertati giudizialmente.
Per questi lavoratori l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui possano essere adibiti a mansioni equivalenti o, in mancanza, a mansioni inferiori (conservando in tal caso il trattamento retributivo più favorevole delle mansioni di provenienza).
Nella stessa legge è previsto, di fronte all’aggravamento delle condizioni del disabile, che il rapporto possa essere risolto “ … nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la predetta Commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda” .
A sua volta il decreto legislativo 81/2008 in materia di tutela e sicurezza sul luogo di lavoro, in caso di inidoneità alla mansione specifica, prevede l’obbligo del datore di lavoro di adibire “ … il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti, o in difetto, a mansioni inferiori”, garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza (art. 42 D.Lgs 81/2008).
Il D.Lgs 216/2003 ha sottolineato la necessità di una tutela giurisdizionale a sostegno del principio di parità di trattamento in favore dei soggetti portatori di handicap e, a sua volta, il DL 28/6/2013 n. 76 convertito in legge 9/8/2013 n. 99, all’art. 9 comma 4 ter, ha inserito il comma 3 bis all’interno dell’art. 3 del D.Lgs 216/2003, stabilendo che “al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3/3/2009 n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena uguaglianza con gli altri lavoratori..”
In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo consistente nella inidoneità fisica e psichica del lavoratore, ritenuto illegittimo, l’art. 18, comma 7, della legge 300/1970, come modificato dalla legge 28.6.2012 n. 92 (Legge Fornero) prevede la misura della reintegrazione “debole”.
A sua volta l’art. 2 del decreto legislativo n. 23/2015 (c.d. Tutele Crescenti) prevede nello stesso caso la reintegrazione “forte”, con piena assimilazione al licenziamento discriminatorio.
Il licenziamento per impossibilità della prestazione per inidoneità fisica, costituisce una ipotesi di giustificato motivo oggettivo in collegamento con quanto previsto dagli artt. 1463 e 1464 c.c. .
La Cassazione, con la recentissima sentenza del 9.3.2021 n. 6947, ha offerto una ricostruzione organica della disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo collegato alla sopravvenuta impossibilità della prestazione per disabilità fisica o psichica, ripercorrendo anche l’evoluzione della legislazione nazionale (già sopra riassunta), unitamente a quella sovranazionale.
Ed in effetti la legislazione e giurisprudenza sovranazionale costituiscono riferimenti imprescindibili nella valutazione della fattispecie.

 

 

2).LE FONTI INTERNAZIONALI.

Tra le fonti internazionali costituisce immediato punto di riferimento la Convezione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13.12.2006, approvata dal Consiglio dell’Unione Europea con decisione del 26.11.2009, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 27.01.2010, e ratificata dall’Italia con legge 3 marzo 2009 n. 18.
Per la Convenzione “per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri“ (art. 1, comma 2), riconoscendo altresì (punto h) del preambolo) “… che la discriminazione contro qualsiasi persona sulla base della disabilità costituisce una violazione della dignità e del valore connaturati alla persona umana”.
In questa prospettiva “per “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole” (art. 2, punto 3).
Ed ancora “per “accomodamento ragionevole” si intendono le modifiche e gli adattamenti necessari e appropriati che non impongono un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia necessità, in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (art. 2, comma 4).
Il concetto di accomodamento ragionevole è richiamato nell’art. 5, comma 3, al fine di promuovere l’uguaglianza ed eliminare discriminazioni, all’art. 13, comma 1, relativo all’accesso alla giustizia, all’art. 14, comma 2, relativo alla libertà e sicurezza, all’art. 24, comma 5, relativo all’educazione e all’art. 27, che si occupa di lavoro e occupazione.
In particolare l’art. 27 prevede al comma 1 che “Gli Stati Parti riconoscono il diritto al lavoro delle persone con disabilità su base di uguaglianza con gli altri”, favorendo l’inclusione e l’accessibilità all’ambiente lavorativo, e il diritto al lavoro deve essere garantito e favorito anche per coloro che hanno subito una disabilità durante l’impiego.
Devono essere assunte misure legislative al fine di “a) vietare la discriminazione fondata sulla disabilità per tutto ciò che concerne il lavoro in ogni forma di occupazione, in particolare per quanto riguarda le condizioni di reclutamento, assunzione e impiego, la continuità dell’impiego, l’avanzamento di carriera e le condizioni di sicurezza e igiene sul lavoro”, nonché al fine di “i) garantire che alle persone con disabilità siano forniti accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro”.
È previsto altresì un sistema di monitoraggio sulle legislazioni nazionali “…per valutare l’adempimento degli obblighi contratti dagli Stati Parti alla presente Convenzione e per identificare e rimuovere le barriere che le persone con disabilità affrontano nell’esercizio dei propri diritti” (art. 31, comma 2).
Già antecedentemente alla Convenzione, la Direttiva 2000/78/CE dell’Unione Europea, relativa alla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro (preceduta dalla Direttiva 76/207/CEE del Consiglio del 9 febbraio 1976 centrata sulla parità di trattamento tra uomo e donna) ha posto quale obiettivo centrale l’uguaglianza e la parità di trattamento, contrastando ogni discriminazione sotto diversi profili, già trattati in altre direttive , tra cui la disabilità.
Il divieto di discriminazione nei confronti dei disabili era stato richiamato anche negli Orientamenti in Materia di Occupazione per il 2000 approvati dal Consiglio Europeo a Helsinki il 10 e 11 dicembre 1999, indicando la necessità di promuovere un mercato del lavoro che ne agevoli l’inserimento sociale, e prima ancora con la definizione nel 1996 della strategia della Comunità Europea sulla disabilità, rinnovata nel 2010 .
La stessa Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, all’art. 21 prevede il divieto di discriminazione anche in collegamento con la disabilità, e all’art. 26 dispone che “l’Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità” .
Si tratta di una prospettiva strategica in quanto “La discriminazione basata su religione, convinzioni personali, handicap, età e tendenze personali può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del trattato CE, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera circolazione delle persone” (punto 11 del considerando della Direttiva 2000/78/CE).
Sempre all’interno dei considerando si è rilevato come “la messa a punto di misure per tener conto dei bisogni dei disabili sul luogo di lavoro ha un ruolo importante nella lotta alla discriminazione fondata sull’handicap” (considerando n. 16), anche se si è precisato che “la presente Direttiva non prescrive l’assunzione, la promozione o il mantenimento dell’occupazione né prevede la formazione di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni del lavoro in questione, fermo restando l’obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili” (considerando n. 17).
La lotta ad ogni discriminazione diretta o indiretta basata su handicap è l’obiettivo del quadro generale disposto dalla Direttiva (art. 1) che identifica quindi le nozioni di discriminazione diretta o indiretta, basata anche sulla condizione di handicap (art. 2).
Con riferimento specifico “…Nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona od organizzazione a cui si applica la presente Direttiva…” deve essere obbligato “…dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’art. 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi” (art. 2 lettera ii della Direttiva).
E l’art. 5, a sua volta, prevede che “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello stato membro a favore dei disabili”.
A sua volta il considerando numero 21, stabilisce che “per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”.
Le misure appropriate (ragionevoli) sono quelle “ … efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali, o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti, o fornendo mezzi di formazione o inquadramento” (Direttiva 2000/78/CE considerando n. 20).
La Direttiva indica interventi sinergici di datori di lavoro e stati per la piena attuazione della parità di trattamento dei lavoratori disabili.
Si può dire che il disabile non può essere lasciato solo di fronte alle barriere che impediscono la piena attuazione del diritto alla realizzazione della sua personalità, e quindi il datore di lavoro deve farsi carico (nei limiti della ragionevolezza e proporzione) di questo dovere di solidarietà sociale, ma nello stesso tempo il datore di lavoro non può essere lasciato solo, e lo Stato deve porre in essere tutte le misure di sostegno che permettano i migliori adattamenti necessari per consentire la realizzazione lavorativa del disabile .

3). LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA.

Alla luce del rapporto tra fonti internazionali ed interne è pacifico che la nozione di handicap si ricavi dalle prime e dalla giurisprudenza dell’Unione, con l’obbligo di interpretare il diritto interno alla luce della Direttiva e della Convenzione.
Si tratta di un principio generale ribadito nella sentenza della Grande Sezione del 5 ottobre 2004 nei procedimenti riuniti da C-397/01 e C-403/01 in materia di orario, secondo cui “…il giudice nazionale deve interpretare il diritto nazionale per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della Direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima…” (punto 113 della sentenza), non limitandosi alle sole norme interne introdotte per recepire la Direttiva, ma valutando tutto il diritto nazionale (punto 115 della sentenza) .
La stessa Direttiva 2000/78 deve essere a sua volta oggetto, per quanto possibile, di una interpretazione conforme alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle persone con disabilità, approvata dall’Unione con decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009 .
Conseguentemente “…la nozione di “handicap” di cui alla Direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata….” (punto 47 della sentenza 11/4/2013 in C. 335-11 e 337/11)
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Dall’esame della Convenzione e della Direttiva UE, nonché della giurisprudenza della Corte di Giustizia, emerge una tutela ampia, estesa ad ogni area della società civile, con numerosi richiami al concetto di accomodamento ragionevole.
Si deve quindi escludere che un accomodamento ragionevole possa consistere esclusivamente in un fatto meramente negativo, quale l’assenza di posti di lavoro disponibili in mansioni equivalenti o anche inferiori, come invece accade nella valutazione generale dell’obbligo di ripescaggio nell’ambito del giustificato motivo oggettivo.
Proprio perché l’obiettivo è la piena integrazione del disabile nella società civile, anche sotto il profilo lavorativo, e si tratta di un obiettivo che costituisce espressione di un principio generale di solidarietà ed uguaglianza, ai datori di lavoro è richiesto il massimo sforzo ragionevolmente possibile in un contesto dato, per promuovere gli adattamenti necessari, a condizione che non si tratti di attività sproporzionate ed eccessive.
Una volta ricavato dall’analisi delle fonti come sia richiesto un ragionevole intervento organizzativo per realizzare l’obiettivo che si propongono legge, Convenzione e Direttiva UE, e che quindi non sia sufficiente una condotta passiva, seppur giustificata attraverso il richiamo alla struttura organizzativa in essere, l’attenzione deve essere posta su un concetto di per sé non agevolmente definibile, quale quello di ragionevoli adattamenti non sproporzionati.
La Cassazione, sulla base dei suoi stessi precedenti, nella sentenza 6497/2021 cerca di individuare criteri generali che possano orientare le parti sociali ed il giudice di merito, che sia chiamato eventualmente a valutare il rispetto della normativa.
Si tratta di uno sforzo argomentativo notevole, dal momento che è proteso a definire concetti che presuppongono valutazioni ampiamente discrezionali.
Provocatoriamente si potrebbe dire che la Cassazione cerca di definire l’indefinibile.

4). LA GIURISPRUDENZA NAZIONALE

La Corte di legittimità, con la sentenza n. 6947/2021, offre una ricostruzione organica di tutte le problematiche connesse al licenziamento per inidoneità alla mansione, ripercorrendo la normativa interna, le fonti di diritto internazionale, la giurisprudenza della Corte di Giustizia e la giurisprudenza interna.
Si tratta di una di quelle sentenze che, come la sentenza del 7 dicembre 2016 n. 25201, sui presupposti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ha in sé la struttura e l’autorevolezza di una pronuncia che tende a porre dei punti fermi e dare indicazioni interpretative cui dovrebbero attenersi i giudici di merito e la stessa Cassazione.
Dopo aver offerto una ricostruzione ragionata delle fonti, la Cassazione richiama i propri precedenti univoci in ordine alla nozione di handicap che “non è ricavabile dal diritto interno ma unicamente dal diritto dell’Unione Europea” .
Si è già ricordato come la nozione di riferimento sia quella contenuta nell’art 1 comma 2 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 31 dicembre 2006, approvata dal Consiglio dell’Unione Europea con decisione del 26 novembre 2009.
Il riferimento a questa nozione è giustificato dal richiamo della Corte di Giustizia alla Convenzione stessa, nella interpretazione della direttiva Europea 2000/78/CE.
In questa prospettiva la Corte di Cassazione aveva già in precedenza respinto la prospettazione che ravvisava una erronea qualificazione della fattispecie in caso di assimilazione tra inidoneità alle mansioni lavorative e nozione di disabilità .
In particolare la giurisprudenza di legittimità richiama l’ampia nozione di limitazione conseguente a menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, anche in relazione a barriere di diversa natura, possano ostacolare la effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori .
Non si tratta solo di handicap congeniti o derivati da incidenti, ma possono essere anche conseguenti ad una malattia.
In tal caso, a prescindere dal fatto che si tratti di una malattia curabile o incurabile, ciò che rileva è che sussistano le limitazioni sopra ricordate .
Siamo in presenza di una nozione ampia che ricomprende anche ipotesi di inidoneità sopravvenuta alle mansioni.

5). GLI “ACCOMODAMENTI”

Sia nella Convenzione delle Nazioni Unite sia nella Direttiva n. 2000/78/CE si fa riferimento ad accomodamenti ragionevoli e non sproporzionati.
In sostanza si tratta di adeguamenti tesi ad eliminare le diverse barriere che incontra il disabile, nell’ambito di un bilanciamento con il diritto del datore di lavoro di organizzare l’impresa senza incorrere in oneri eccessivi e sproporzionati .
Dall’esame del considerando 20 della Direttiva 2000/78/CE emerge come le misure devono essere correlate allo specifico handicap e possono consistere in interventi sugli immobili (sistemazione dei locali) o sui beni mobili utilizzati dall’impresa (adattamento delle attrezzature), ma possono anche ricomprendere misure organizzative dell’attività, quali ritmi del lavoro e ripartizione dei compiti, od ancora misure inerenti alla formazione del lavoratore .
È stato considerato un possibile adattamento ragionevole la riduzione dell’orario di lavoro, anche se poi è stato precisato che spetta al giudice nazionale valutare se la riduzione dell’orario di lavoro, quale provvedimento di adattamento, rappresenti un onere sproporzionato per il datore di lavoro .

6). LA SPROPORZIONE

La Direttiva fornisce indicazioni anche sulla eventuale sproporzione degli oneri, facendo riferimento ai costi finanziari correlati alle dimensioni e alle risorse dell’organizzazione o dell’impresa ed alla stessa possibilità di ottenere sovvenzioni pubbliche (considerando n. 21).
Al di là delle indicazioni che si ricavano dalle fonti, la intrinseca indeterminatezza degli aggettivi ragionevoli e non sproporzionati, può determinare delle valutazioni differenziate da parte dei giudici di merito, il cui giudizio non è sindacabile in Cassazione se non per vizio di motivazione che, nell’attuale formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., è difficilmente ipotizzabile .

7). SPROPORZIONE E RAGIONEVOLEZZA. LA DIFFICOLTÀ DI DEFINIRE CRITERI UNIFORMI DI VALUTAZIONE.

7.a). Ancora sulla sproporzione nella impostazione della Cassazione

Nella sentenza 6497/2021 la Cassazione porta l’attenzione sui concetti di sproporzione e ragionevolezza dell’accomodamento ritenendo che abbiano una distinta ed autonoma rilevanza “ … atteso che se l’unica ragione per esonerare il datore di lavoro da porre in essere l’adattamento fosse l’onere “sproporzionato”, allora non sarebbe stato necessario aggiungere il “ragionevole”” .
In particolare, nella ricostruzione della Cassazione, il costo sproporzionato si identifica con quello eccessivo rispetto alle dimensioni e alle risorse finanziare delle imprese, che in tal caso è irragionevole, ma “ … non è necessariamente vero il contrario, perché non può escludersi che, anche in presenza di un costo sostenibile, circostanze di fatto rendano la modifica organizzativa priva di ragionevolezza, avuto riguardo, ad esempio, all’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti” .
In effetti la giurisprudenza di legittimità, già in precedenza, aveva affermato come possano essere considerate appropriate e non necessariamente sproporzionate misure relative all’assegnazione di una determinata postazione di lavoro al lavoratore disabile, con alcuni (anche) piccoli accorgimenti organizzativi .
Si è affermato che “Il diritto del lavoratore disabile all’adozione di accorgimenti che consentano l’espletamento della prestazione lavorativa trova un limite all’interno dell’organizzazione dell’impresa, ed in particolare negli equilibri finanziari dell’impresa stessa … nonché nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l’esperienza e la professionalità acquisita” .
Nel valutare la ragionevolezza degli adeguamenti ritenuti necessari, la Suprema Corte nella sentenza n. 6497/2021 individua, quale manifestazione di irragionevolezza, la violazione dell’interesse di altri lavoratori coinvolti e si concentra poi sul controllo di razionalità, attraverso i canoni di correttezza e buona fede ex art. 1175 e 1375 c.c. .

7.b). La ragionevolezza nell’impostazione della Corte di Legittimità.

Il controllo di correttezza e buona fede nella esecuzione del rapporto viene così ad essere lo strumento attraverso cui si può esprimere una valutazione di ragionevolezza.
Nella prospettiva indicata dalla Corte di legittimità, questo tipo di controllo implica una comparazione tra l’interesse del datore di lavoro al libero svolgimento dell’iniziativa economica e l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, che costituisce modalità di realizzazione della propria personalità.
Si tratta di un controllo sulla congruità causale degli atti del datore di lavoro che, secondo la Cassazione, pur non potendo costituire un criterio generale di valutazione degli atti datoriali, assume un’autonoma rilevanza quando il legislatore, come nel caso di specie, richiama il canone della ragionevolezza nella valutazione delle scelte datoriali, in relazione agli adeguati accomodamenti.
Pur consapevoli della indeterminatezza del concetto di ragionevolezza, che trova una sua valorizzazione soltanto delle circostanze del caso concreto, i giudici di legittimità ritengono che comunque dal riferimento alla ragionevolezza, collegata alla correttezza e buona fede, si possano trarre dal punto di vista metodologico delle indicazione utili alla individuazione del comportamento dovuto e alla sua eventuale valutazione giudiziale.
In particolare non si può prescindere dalla buona fede oggettiva, che implica l’obbligo di preservare gli interessi dall’altra parte, purché ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse della parte.
Il contemperamento degli interessi, attraverso una adeguata valutazione di quelli dell’altra parte, deve tradursi in un comportamento attivo del datore di lavoro nella ricerca degli accomodamenti che consentano comunque di preservare l’utilità della prestazione lavorativa, senza pregiudicare le situazioni soggettive degli altri lavoratori.
Questo giudizio dovrebbe essere condotto secondo parametri collegati alla “comune valutazione sociale”.
Spetta al datore provare di aver cercato di trovare questi adattamenti, che potrebbero non essere realizzabili senza un eccessivo sacrificio dell’interesse datoriale.
Deve essere data la prova di uno sforzo “ … diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata, che scongiurasse il licenziamento, avuto riguardo ad ogni circostanza rilevante nel caso concreto” .
Questa prova non può esaurirsi in quella che non sono presenti in azienda posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore.

7.c). Alcune considerazioni sulla ragionevolezza.

L’applicazione del criterio di valutazione della ragionevolezza può far sorgere dubbi sulla certezza del diritto, ma è un dato di fatto che sia richiamato con grande frequenza dalla Corte di Cassazione e dalla giurisprudenza di merito, così come dalla stessa Corte Costituzionale nell’ambito del giudizio di legittimità sulle leggi , dove viene utilizzato congiuntamente a quello di proporzionalità, senza alcuna distinzione, pur avendo in realtà entrambi una loro autonomia concettuale, attraverso la tecnica del bilanciamento dei diritti . Frequenti sono i richiami alla ragionevolezza nei principi di diritto contrattuale europeo (PECL) e nel DCFR (Draft Common Frame of Reference) del 2009 . Il parametro o lo standard di reasonableness è costantemente utilizzato negli ordinamenti di common law. Nell’ambito di una riflessione globale sulle prospettive del diritto del lavoro, tra gli standards da utilizzare per il raggiungimento degli obiettivi più avanzati , oltre alla buona fede ed alle prerogative manageriali, è stata individuata la proporzionalità , posta in stretta relazione con la ragionevolezza, intesa come razionalità della decisione (..there must be a rational relation between the means and the goals…) .
Certamente l’applicazione di concetti indeterminati, quali la ragionevolezza, determina uno spostamento del potere normativo dal legislatore al giudice . Da qui l’esigenza di individuare criteri astratti che possano contribuire a dare prevedibilità alle decisioni, quantomeno sul piano metodologico, limitando gli spazi di assoluta discrezionalità. Con la consapevolezza che resta comunque un ambito insondabile di valutazione del caso concreto affidato alla sensibilità culturale di chi giudica ed espresso nella motivazione e nella sua capacità persuasiva, strumento imprescindibile di controllo democratico sull’operato del giudice.
Peraltro la ragionevolezza puo’essere richiamata in contesti interpretativi diversi. Per un verso assume una connotazione immanente al sistema, visto che “il diritto…..non può non considerarsi fondato sulla ragione e deve quindi essere “ragionevole” . Al di là di questa incontestabile constatazione, la ragionevolezza viene spesso accostatata alle clausole generali, quali correttezza e buona fede, ed anche la Cassazione procede in questa direzione . Tuttavia questo accostamento risulta pertinente nella misura in cui la ragionevolezza assuma, come le clausole generali, la veste di norma in bianco, riempita di contenuto nel momento in cui si applica al caso concreto , ma potrebbe assumere una valenza parzialmente diversa ove la parola “ragionevole” sia affiancata ad espressioni che comunque delimitano l’indagine . E’ proprio il caso di specie dove si parla di “ragionevoli accomodamenti “ non sproporzionati, con alcune esemplificazioni.
Il dato normativo individua in primo luogo degli “accomodamenti”, che devono essere ragionevoli. E la misura della ragionevolezza è data dalla “non sproporzione”. La ragionevolezza funge così da criterio di valutazione del comportamento del datore di lavoro nel realizzare (o non poter realizzare) accomodamenti.
La norma pone un collegamento immediato tra ragionevolezza e proporzionalità. La Corte di Cassazione afferma che il giudizio di ragionevolezza si aggiunge a quello di proporzionalità, e potrebbero esservi casi in cui sia possibile un accomodamento proporzionato, ma che appare irragionevole perché, ad es., va ad incidere sulla posizione di altri lavoratori. La distinzione è apprezzabile , ma si pone su un crinale molto sottile, perchè in fondo si potrebbe dire che quando l’adeguamento incide sulla posizione di altri lavoratori, in sostanza incide in modo sproporzionato sull’organizzazione aziendale, e di nuovo emerge il legame profondo tra ragionevolezza e proporzionalità.
Se la proporzionalità permea il giudizio di ragionevolezza, si tratta allora di verificare se sia possibile indirizzarlo in canoni metodologici che ne consentano una valutazione condivisa. Si pone cosi’ il tema della utilizzabilità di test di proporzionalità. Si tratta di un metodo usato dalle Corti Superiori nell’ambito della verifica di legittimità delle leggi,ma anche dalla Corte di Giustizia e dalla CEDU, talvolta esteso dai giudici nazionali al controllo dell’uso dei poteri imprenditoriali. In particolare; 1) la verifica di un collegamento razionale tra mezzi e scopi, con i secondi effettivamente implementati dai primi, 2) una valutazione di minor impatto possibile, così che la realizzazione di un diritto avvenga nel modo che garantisca la minor lesione o compressione possibile del diritto altrui, 3) la lesione subita da un diritto deve essere proporzionale ai benefici che derivano da quella azione.
Questi test, normalmente richiamati nella prospettiva di limitare le prerogative manageriali, possono essere usati per identificare i limiti agli adattamenti richiesti al datore di lavoro. Nell’ambito di queste valutazioni assumono certamente grande rilevanza le dimensioni e le risorse finanziarie dell’azienda, in una prospettiva di bilanciamento di interessi.

7.d). Le diverse letture del bilanciamento nel G.M.O.

Sintetizzati i passaggi essenziali della recente sentenza della Cassazione ed esposte alcune considerazioni di carattere generale sul giudizio di ragionevolezza, si può evidenziare, già dal punto di vista teorico, una diversa valutazione da parte della Corte di legittimità tra il bilanciamento di interessi nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo collegato a situazione di handicap che determina una inidoneità alle mansioni e altre ipotesi di licenziamento per GMO.
In generale, con la sentenza 25201/2016 , la Cassazione ha precisato che il bilanciamento è già contenuto all’interno della norma ed in particolare nell’art. 3 della legge 604/1996, in contrasto con quell’indirizzo interpretativo che richiedeva sempre e comunque un bilanciamento in concreto nel singolo caso tra esigenza di stabilità nel rapporto di lavoro e libertà di iniziativa imprenditoriale, con il corollario che la stabilità del lavoro poteva essere sacrificata solo a fronte di serie ragioni di “utile gestione dell’azienda” che si traducessero in situazioni sfavorevoli (crisi aziendale, notevoli spese di carattere straordinario etc …) .
Viceversa, essendo il bilanciamento già all’interno della norma, la modifica organizzativa che determina il licenziamento può avere qualsiasi obiettivo, compreso un incremento del profitto o una riduzione dei costi.
Al contrario, nel caso del licenziamento collegato ad inidoneità per handicap, avendo il legislatore richiesto un ragionevole accomodamento, il bilanciamento deve essere operato in concreto, in ogni singolo caso, valutando il necessario sforzo richiesto al datore di lavoro e limiti proporzionali.

7.e). La valutazione della ragionevolezza e sproporzione nei singoli casi
Al di là di questa distinzione, cui consegue un allargamento degli obblighi posti in capo al datore di lavoro, oltre i confini del ripescaggio, inevitabilmente, nell’esame dei singoli casi concreti, emergono diverse sensibilità, che possono portare a sfumature che determinano poi una diversa valutazione dei comportamenti datoriali.
Così nel caso deciso da Cass. 27243/2018 , pur affermandosi la necessità di effettuare adattamenti organizzativi se non eccessivamente gravosi, si è ritenuto corretto il giudizio della Corte territoriale che aveva considerato assolto l’obbligo di tutela del lavoratore disabile in considerazione della accertata insussistenza di mansioni equivalenti o inferiori da affidare al lavoratore stesso.
In particolare, in quel caso, l’istruttoria si era concentrata su una serie di mansioni ritenute dal lavoratore compatibili con la condizione di disabilità e che viceversa si erano dimostrate incompatibili (erano state esaminate le mansioni di addetto alla reception, centralino, addetto ai resi, addetto alla mensa, addetto alle fotocopie, o ad altri uffici).
In sostanza la inesistenza di accorgimenti pratici idonei, era stata verificata soprattutto attraverso l’esclusione della possibilità di essere adibito alle stesse mansioni considerate dal lavoratore come compatibili.
Secondo la Corte territoriale, confermata nel giudizio di legittimità, ogni altra misura avrebbe inciso negativamente sulle mansioni e sulle condizioni di lavoro degli altri lavoratori.
Per la Corte di Cassazione, quindi, il diritto all’adozione di accorgimenti trova un limite nell’organizzazione interna dell’impresa e nel mantenimento degli equilibri finanziari della stessa, nonché nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate.
Sembra che, in quel caso, molto abbia pesato l’analisi delle mansioni che in concreto sembravano costituire valide alternative, ma che poi si sono rivelate incompatibili con l’inabilità del lavoratore e la posizione di altri dipendenti, e da ciò si è ricavata l’impossibilità di adottare adeguamenti.
La ricostruzione teorica è la stessa, ma la valutazione della prova nel singolo caso può portare a risultati contrastanti rispetto alla posizione di chi ritiene che comunque debba essere offerto un principio di prova relativo al tentativo di effettuare adeguamenti concreti (oltre la ricerca di mansioni compatibili).
In altro caso, è stata considerata corretta la decisione della Corte di Appello che aveva ritenuto legittimo un licenziamento per inidoneità a svolgere le mansioni nei reparti di montaggio, stampaggio metallico, rifilatura flessibile ed integrale, schiumatura flessibile ed integrale in sito, mentre il lavoratore era stato ritenuto idoneo a svolgere alcune attività del reparto stampaggio, che avrebbero però richiesto una diversa organizzazione del lavoro nel reparto, in funzione delle patologie e limitazioni da cui era affetto.
La Corte di merito aveva affermato che questa necessità di una diversa organizzazione avrebbe costituito un’indebita ingerenza nelle valutazioni di carattere organizzativo rimesse al datore di lavoro e tutelate dall’art. 41 della Costituzione. Era stato anche evidenziato che questa interferenza organizzativa avrebbe aggravato la posizione del gruppo dei lavoratori addetti allo stampaggio di termoplastici.
La Corte di Cassazione, nel confermare la valutazione dei giudici di merito, ribadisce l’obbligo di verificare la possibilità di adattamenti organizzativi, ma ritiene corretta e ben motivata la valutazione della Corte di Appello sulle difficoltà organizzative e i rischi per gli altri lavoratori del reparto.
Ancora una volta si tratta di sfumature che fanno la differenza, perché gli adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro vengono in sostanza collegati alla singola posizione del lavoratore, mentre, se implicano una modifica dell’organizzazione aziendale al di là della singola posizione, appaiono eccessivi e sproporzionati.
In altro caso , la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la sentenza della Corte di Appello che aveva considerato legittimo il licenziamento di un lavoratore che, a causa di un linfoma contratto, avrebbe potuto essere adibito solo ad una pompa di carburante self, che però non costituiva un profilo professionale autonomo, trattandosi di attività che veniva svolta, unitamente ad altre, anche dagli altri lavoratori. L’adibizione del lavoratore solo all’attività della pompa self avrebbe determinato una modifica organizzativa ritenuta non esigibile, incidendo anche sulla posizione dei colleghi.
La Corte di Cassazione sottolinea in questo caso come l’obbligo di adeguamenti ragionevoli non può comunque implicare modifiche organizzative imposte, in pregiudizio anche di altri lavoratori, con alterazione della qualità dell’organigramma aziendale.
Sembra che anche in questo caso il confine tra adeguamento e modifica dell’organizzazione aziendale sia netto e l’adeguamento possa riguardare solo ed esclusivamente processi di adattamenti della singola postazione di lavoro e della singola prestazione del soggetto interessato.
Non sembrano diversi dai piccoli adeguamenti richiamati dalla giurisprudenza statunitense e del Regno Unito.
In un altro caso , il lavoratore, magazziniere, era stato ritenuto inidoneo all’attività di movimentazione merci e caricamento di pesi e chiedeva di poter essere assegnato al solo compito di gestire i dati del palmare, ma non esistendo nell’organigramma dell’azienda un posto di addetto al palmare, era stato licenziato, non potendosi ritenere esigibile una modifica organizzativa con la creazione di tale postazione, che avrebbe inciso anche sulle mansioni di altri lavoratori.
Ancora una volta l’adattamento incontra, nell’interpretazione dei giudici, il limite dato dal divieto di alterare forzatamente l’organizzazione produttiva del datore di lavoro.
Viceversa non si ha una alterazione irragionevole dell’organizzazione produttiva allorché il datore di lavoro possa adibire il lavoratore (nel caso di specie afflitto da broncopneumopatia e dermatite da contatto) a svolgere le mansioni affidategli in un altro ambiente non caratterizzato dalle presenza di polvere, nel caso di specie un’ officina, distante dalla sede principale (cementeria) circa 200 metri. In questo caso l’organizzazione produttiva non veniva alterata irragionevolmente, perché vi era soltanto uno spostamento del lavoratore, e l’ulteriore prescrizione di spolverare le parti meccaniche provenienti dalla cementeria non era particolarmente gravosa per l’azienda .
Stesse conclusioni in un caso in cui di fatto erano state individuate in precedenza mansioni alternative all’attività di autista (aiuto meccanico presso l’officina aziendale). Il successivo rifiuto del lavoratore di accettare il ruolo di addetto alle pulizie, non giustificava il licenziamento per inidoneità, visto che da tempo il lavoratore non svolgeva più le mansioni di autista , ed il comportamento del datore di lavoro appariva illogico e contraddittorio.
Anche in questo caso non vi era alcuna modifica imposta all’organizzazione aziendale, pertanto il licenziamento era stato ritenuto illegittimo.

8). CRITERI DI VALUTAZIONE DELLA RAGIONEVOLEZZA TRA INDICAZIONI DI METODO E SFUMATURE INTERPRETATIVE.

Nonostante lo sforzo ricostruttivo per cercare di avere una metodologia uniforme nella valutazione degli adattamenti proporzionati e ragionevoli, quando i principi espressi vengono applicati nei casi concreti sembra inevitabile che, all’apparente uniformità metodologica, si accompagni una possibile varietà di decisioni in presenza di fattispecie simili.
Ma ciò è inevitabilmente correlato alla valutazione di ragionevolezza, collegata ai criteri di correttezza e buona fede, in quanto la comparazione di diritti e interessi può condurre a valutazioni differenziate in casi apparentemente analoghi.
Nel bilanciato contemperamento di interessi, piccole variazioni nella valutazione sulla esigibilità di un mutamento dell’organizzazione aziendale, o relativamente all’incidenza su altre posizioni lavorative, incidenza che volendo è sempre presente, possono determinare esiti differenziati, nonostante il grande sforzo di affinamento metodologico perseguito dalla Corte di legittimità.
Abbiamo visto come il giudizio di ragionevolezza sia strettamente collegato a quello di proporzionalità, ed in questo ambito possa farsi ricorso ad alcuni test spesso recepiti in altri ordinamenti. Il giudizio di ragionevolezza può così essere orientato sotto il profilo metodologico.
Sotto questo profilo si può aggiungere che i criteri di valutazione della ragionevolezza ed esigibilità di un adeguamento possono essere collegati anche a giudizi analoghi a quelli presenti nella giurisdizione amministrativa, che si sta spostando sempre più dal piano dell’interesse legittimo alle clausole generali di correttezza e buona fede e dal piano dell’atto a quello del rapporto .
Così il travisamento dei presupposti, la manifesta illogicità e incoerenza del comportamento datoriale, la contraddittorietà, possono costituire elementi utili di valutazione, nell’ambito del controllo del potere-dovere del datore di lavoro di predisporre ragionevoli adattamenti, traducendosi in una valutazione di logicità che ben integra, unitamente alla proporzionalità, il metro della ragionevolezza
Di fronte alle indicazioni legislative sulla necessità e sul limite degli adeguamenti, la ragionevolezza si collega ad una valutazione di proporzionalità, che una parte minoritaria della dottrina ritiene di estendere ad ogni atto unilaterale del datore di lavoro , e ad una valutazione di coerenza logica dei comportamenti rispetto ai fini. Proporzionalità e coerenza logica si traducono (in) ed esprimono un comportamento di buona fede
In questa prospettiva la buona fede assume le caratteristiche sia di fonte integrativa sia di strumento di interpretazione e verifica della correttezza dell’adempimento .
Il giudizio sulla ragionevolezza e proporzionalità dell’adeguamento richiesto al datore di lavoro, può trovare qualche analogia con il giudizio di effettività e non pretestuosità che la Cassazione, anche nella sentenza 25201/2016, ritiene strumento di controllo sui presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, unitamente a quello sul nesso causale tra ragione dichiarata e licenziamento intimato in termini di “riferibilità” e “coerenza” rispetto all’operata ristrutturazione .
In tutti questi casi siamo di fronte a valutazioni di coerenza logica, non contraddittorietà e consequenzialità, che possono evidenziare la pretestuosità della scelta imprenditoriale di procedere comunque al licenziamento, sostenendo l’impossibilità di ragionevoli adeguamenti.
Ove la verifica di ragionevolezza e sproporzione non sia superata, si può sostenere che il potere di recesso viene esercitato non solo in assenza dei presupposti, ma anche per un fine diverso rispetto a quello per cui il potere è stato concesso, con violazione dell’obbligo di buona fede in executivis e sproporzione del pregiudizio subito dal lavoratore.
Sono tutti indici sintomatici di una figura discussa, ma talvolta richiamata dalla giurisprudenza di Cassazione, quale l’abuso del diritto, che può presentarsi a sua volta come illecito secondario o come tecnica di interpretazione della fattispecie .
E proprio in questa seconda funzione che l’abuso del diritto (di recesso) potrebbe essere richiamato nell’ambito del controllo sul corretto adempimento all’obbligo di predisporre ragionevoli accomodamenti.

 

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