testo integrale con note e bibliografia
1. La costruzione giuridica della disabilità: nozioni e modelli comparati
Nel lessico giuridico la formula della disabilità ha progressivamente modificato il proprio significato, muovendo da una considerazione prettamente medica a una categoria giuridica ben più complessa, fortemente influenzata dai mutamenti culturali, sociali e normativi. La svolta più significativa, in ambito sovranazionale, si è realizzata con l’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (di seguito CRPD) del 13 dicembre 2006, ratificata dall’Italia con la legge n. 18 del 2009 e approvata altresì dall’Unione Europea con decisione del Consiglio del 26 novembre 2006. Si tratta di un testo normativo che rappresenta un punto di rottura con gli approcci tradizionali e destinato a proporre un modello pienamente fondato sui diritti umani, in grado di incidere profondamente anche sulle nozioni di capacità, uguaglianza e autonomia.
La corretta identificazione della nozione di disabilità assume peraltro una rilevanza centrale, non solamente a livello teorico-descrittivo, ma anche nella elaborazione di molte discipline di dettaglio, elaborate a livello nazionale, nonché quale criterio guida utilizzato dalla giurisprudenza in numerose occasioni (in ambito giuslavoristico, si veda recentemente il caso deciso da Cass. civ., sez. lav., 31.5.2024, 15282, in tema di comporto per malattia del lavoratore disabile). Appare dunque di una certa utilità l’approfondimento sistematico della nozione di disabilità, che si inserisca nella logica della protezione offerta dal sistema multilivello, ma anche in un orizzonte comparatistico; nelle indagini sulla tutela delle persone con disabilità è infatti ormai generalmente riconosciuta l’esigenza di osservare le discipline in una prospettiva di integrazione tra fonti interne, convenzionali, sovranazionali ed internazionali, guardando all’effettiva modalità di tutela che si sviluppa in action nei vari ordinamenti considerati.
A differenza delle definizioni normative statiche, com’è noto, la CRPD adotta un concetto relazionale e dinamico di disabilità. Già nel preambolo, al considerando (e), si riconosce che “la disabilità è un concetto in evoluzione” e che essa “risulta dall’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”. Tale impostazione si riflette successivamente nell’art. 1, destinato a descrivere il perimetro soggettivo della Convenzione: “le persone con disabilità comprendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”.
Con tutta evidenza, si tratta di formulazione che non è certamente neutra con riferimento al perimetro della disabilità: essa rifiuta l’approccio medico-diagnostico, ancora dominante in molti ordinamenti, e sposta l’accento sulle condizioni sociali e ambientali che producono esclusione, facendo della disabilità non una qualità personale ma un effetto delle barriere che la società frappone al completo dispiegamento della personalità. La disabilità, dunque, non è intrinseca alla persona (secondo la prospettiva “statica”), ma si manifesta “tra” la persona e il contesto sociale di riferimento. Da ciò discende una riconsiderazione radicale dei presupposti della protezione giuridica: il problema che l’ordinamento è chiamato a risolvere non sta dunque nel proteggere la persona in condizione di debolezza, quanto nel rimuovere gli ostacoli alla partecipazione e garantire l’eguaglianza sostanziale.
In tale quadro, assume particolare rilievo – soprattutto nelle indagini della civilistica – l’articolo 12 CRPD, che afferma l’eguale riconoscimento di tutte le persone con disabilità come soggetti titolari di “capacità giuridica” in ogni ambito della vita. Con una certa ambiguità lessicale, che dipende da una non condivisione del lessico internazionale sull’incapacità, tale disposizione stabilisce che gli Stati contraenti devono “riconoscere che le persone con disabilità hanno capacità giuridica su base di uguaglianza con gli altri in tutti gli aspetti della vita”, e che devono “adottare misure appropriate per fornire accesso al sostegno necessario” all’esercizio di tale capacità. L’interpretazione di questa disposizione ha generato un intenso dibattito, che investe direttamente le nozioni di incapacità, tutela, rappresentanza e autodeterminazione, e che ha effetti trasversali sul diritto civile e sul diritto del lavoro.
In prospettiva comparata, emerge una notevole eterogeneità nel modo in cui gli ordinamenti recepiscono e interpretano la nozione di disabilità alla luce della CRPD. Alcuni ordinamenti – come quello spagnolo, con la Ley 8/2021 – hanno rivisto in profondità le categorie civilistiche al fine di dare piena attuazione all’art. 12, abbandonando il paradigma dell’interdizione e della rappresentanza in favore di modelli di sostegno all’autodeterminazione (supported decision-making). Altri – come l’Italia – com’è noto mantengono in vigore istituti di incapacità che risultano per nulla (interdizione e inabilitazione) o solo parzialmente (amministrazione di sostegno) compatibili con l’approccio della CRPD.
La tensione tra modelli normativi diversi si coglie anche nei sistemi extraeuropei. Negli Stati Uniti, il riferimento centrale è l’Americans with Disabilities Act (ADA) del 1990, legge federale che adotta una definizione di “disabilità” come limitazione sostanziale di una o più attività fondamentali della vita quotidiana (a physical or mental impairment that substantially limits one or more major life activities of such individual). Tale approccio, pur meno orientato alla costruzione relazionale su cui è costruita la CRPD, ha avuto un impatto significativo in ambito lavoristico, con l’introduzione dell’obbligo di “accomodamento ragionevole”. In America Latina, invece, la CRPD ha esercitato un’influenza trasformativa più diretta: la Colombia e il Perù, ad esempio, hanno introdotto riforme che riconoscono la capacità giuridica universale e prevedono sistemi di sostegno personalizzato per l’esercizio dei diritti, in linea con l’articolo 12.
Infine, non si può ignorare l’impatto della CRPD sulle giurisdizioni sovranazionali, in particolare la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di giustizia dell’Unione europea, che hanno progressivamente assunto la prospettiva inclusiva della Convenzione nel valutare la legittimità delle restrizioni fondate su condizioni di salute o menomazioni. Anche in tali contesti, la disabilità è sempre più letta come categoria giuridica dinamica, che richiede misure proattive e personalizzate, piuttosto che meccanismi di esclusione o protezione eterodiretta. Al riguardo è sufficiente richiamare il noto precedente di Corte di Giustizia UE 11.4.2013, cause riunite C-335/11 e C-337/11, HK Danmark, in cui si legge esplicitamente che “se una malattia, curabile o incurabile, comporta una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata, una siffatta malattia può ricadere nella nozione di ‘handicap’ ai sensi della direttiva 2000/78” (nozione poi accolta anche dalla giurisprudenza italiana).
In conclusione, la nozione giuridica di disabilità non è univoca né neutrale, ma risulta dall’interazione tra diritto, cultura e politiche sociali. L’articolo 12 della CRPD impone agli ordinamenti un ripensamento profondo delle tradizionali categorie giuridiche, orientando l’interprete verso un modello fondato sulla eguaglianza sostanziale, l’autonomia e il diritto al supporto, e costituendo così il perno attorno al quale si articolano, nei diversi sistemi, le discipline civilistiche e lavoristiche in materia.
2. L’evoluzione della nozione di disabilità e il suo fondamento valoriale
Nella accennata rivisitazione che taluni ordinamenti nazionali stanno compiendo rispetto alla disciplina civilistica della disabilità, il valore su cui si fondano le riforme sembra essere sintesi di dignità ed autonomia attribuite a ciascuna persona, al di là di qualsiasi condizione di debolezza fisica o psichica. Questo orizzonte valoriale è peraltro necessitato, in questi movimenti riformatori, dall’obiettivo di adeguare il tessuto normativo alla CRPD che, al suo articolo 3, menziona quali primi principi ispiratori la “dignità intrinseca” e “l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte”. In realtà, proprio l’abbinamento tra dignità e autonomia (oltre che indipendenza) suggerisce i criteri di interpretazione che dovrebbero spiegare il nuovo modello di protezione delle persone, non più incapaci, ma disabili.
L’argomento della dignità, del resto, non è mai univoco o unidirezionale, ma può condurre a esiti interpretativi opposti: da un lato può concorrere ad un’espansione della sfera di sviluppo della personalità (come nelle questioni attinenti al corpo e alla salute), ma dall’altro potrebbe condurre ad interpretazioni che si collocano nella prospettiva di una limitazione della libertà individuale, proprio con l’obiettivo di proteggere la dignità della persona. L’abbinamento all’autonomia individuale è però qui esplicito e sembra orientare in maniera chiara l’interprete, nel senso di riconoscere per quanto possibile che le persone in condizioni di vulnerabilità o di disagio psichico debbano vedersi riconosciuto ogni spazio di possibile autonomia, quand’anche si riveli potenzialmente in contrasto con i loro interessi, ma corrispondente ai loro desideri e preferenze.
Si tratta, come detto, di una prospettiva che giunge dopo anni di evoluzione del pensiero sulla condizione di vulnerabilità delle persone, dovuta anche al superamento della concezione kantiana che richiedeva la possibilità di un “giudizio morale”, attributo che solo era in grado di umanizzare il soggetto. Inserito in questa traiettoria di sviluppo delle idee, il sistema di protezione delle persone disabili – in questo senza distinzioni nei paesi occidentali – è segnato dal ribaltamento dell’impostazione che imponeva l’isolamento sul versante pubblicistico nonché la sottrazione della capacità di agire su quello privatistico.
I segnali che giungono dagli ordinamenti che “prendono sul serio” la CRPD, e in primis dal legislatore spagnolo, rispondono dunque ad una logica che è certamente inclusiva, nella quale si stimola la partecipazione della persona disabile alla vita civile e le si assicura il pieno godimento dei diritti, ma è anche proattiva, in quanto il nuovo disegno degli strumenti di protezione tende a promuovere l’autonomia e la libertà della persona disabile rispetto alla realizzazione delle proprie scelte . In questo senso, non può sfuggire all’osservatore l’obiettivo di valorizzazione dell’identità personale; questa valorizzazione sembra all’opposto porre nell’ombra un problema che spesso, in passato, aveva ostacolato il rinnovamento della prospettiva generale, ossia il problema della sicurezza: sicurezza dei traffici giuridici, della posizione dei terzi, del patrimonio della persona da proteggere, dell’ordinamento in generale. È, in fondo, il problema che oggi la dottrina spagnola sembra identificare nell’interrogativo se esista un “derecho a equivocarse”: in una certa linea di pensiero più radicale, una piena attuazione dell’art. 12 CRPD implicherebbe infatti anche il riconoscimento del diritto della persona disabile a compiere scelte rischiose o non ottimali, posto che l’idea di ‘autonomia presidiata’ confligge con l’autonomia decisionale, rischiando di degenerare in controllo preventivo.
Anche quello della sicurezza (e della connessa protezione da se stessi) è in fondo un valore, che può essere inteso in senso oppositivo rispetto a quelli della autonomia e della dignità e che, peraltro, pare frapporsi quale ostacolo rispetto ad alcune opzioni che sarebbero invece più efficaci. Del resto, in Italia, prima dell’introduzione dell’amministrazione di sostegno, la stessa alternativa secca capacità / incapacità rispondeva ad un bisogno di certezza, che si manifestava proprio nell’assenza di zone grigie. Vi è dunque l’impressione che il contesto generale segnali la presenza attuale di un terreno fertile per il definitivo abbandono di una visione escludente della disabilità, pur con le difficoltà di sistema che ciò presenta. Sono difficoltà evidenti da un punto di vista storico-culturale, con la necessità di un superamento radicale del paradigma individualista, ma anche teorico-generale, stante il permanere di incrostazioni inconsce di logiche geometriche e strettamente positiviste che rifuggono da un opportuno ragionamento, anche simbolico, per principi e per valori incentrato attorno ai diritti fondamentali delle persone.
In questa cornice sembra allora collocarsi il dibattito sulla limitazione di capacità, che secondo taluni interpreti pare incompatibile, in linea generale, con l’articolo 12 CRPD e il cui rifiuto sembra connotare le più recenti riforme nazionali al riguardo. Queste ultime necessitano ora di un periodo di assestamento al fine di verificarne la tenuta di fronte a problemi pratici di protezione della persona con disabilità. Il fatto che la lettera della Convenzione possa suggerire una riflessione sull’idea di capacità è però comunque un dato di partenza evidente in questo dibattito, e sembra peraltro inserirsi felicemente nella riflessione di una parte della dottrina italiana. Non è un caso che, ben prima dell’introduzione della legge sull’ads del 2004, Paolo Zatti abbia pubblicato un saggio dal titolo “Oltre la capacità”, nel quale – con una intuizione sulle traiettorie future e lontane, riferite agli aspetti personali di tutela – tratteggia i caratteri di un nuovo paradigma nella cura delle persone con disabilità, individuando 4 linee direttrici: il nuovo paradigma dovrebbe fondarsi sull’interdipendenza tra singoli e tra singoli e gruppo (è l’aspetto dinamico della disabilità); dovrebbe guardare all’esperienza psichica delle persone come ad una continuità di stati (non si transita all’improvviso dalla capacità all’incapacità); dovrebbe guardare alle decisioni non come atti, ma come processi, in cui domina l’interazione tra i protagonisti e il contesto; dovrebbe guardare al modo in cui la decisione si comunica con una sapienza ermeneutica ricca ed aperta, capace di considerare l’intero linguaggio della persona, dalle parole agli atteggiamenti, anche espressi prima del sopraggiungere delle maggiori difficoltà espressive.
Si tratta dunque di riflessioni che hanno anticipato l’evoluzione dei modelli di protezione delle persone con disabilità, rispetto ai quali la centralità della nozione stessa di disabilità, quale condizione che si frappone ad una “piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri” (art. 1, comma 2, CRPD), comporta una rivisitazione della stessa contrapposizione tra capacità giuridica e di agire. È questo l’orizzonte in cui sembra accogliersi la preferenza per un sistema di sostegno collaborativo, sempre incentrato sull’interesse preferito della persona con disabilità.
3. La protezione civilistica: dalla rappresentanza all’autodeterminazione con supporto
Alla luce di quanto si è visto, secondo un orientamento che sembra destinato ad ottenere una progressiva estensione, il riconoscimento della capacità giuridica delle persone con disabilità, affermato dall’articolo 12 della CRPD, potrebbe dover imporre una revisione profonda degli istituti civilistici tradizionali che, in molti ordinamenti, presuppongono l’incapacità legale o di fatto del soggetto come base per interventi di protezione. La tensione tra il modello sostitutivo, storicamente dominante e largamente presente anche nel diritto italiano (almeno fino all’introduzione dell’amministrazione di sostegno), e il modello di supporto all’autonomia decisionale si manifesta con particolare evidenza.
Nella prospettiva della CRPD, la mera esistenza di una disabilità non può mai giustificare automaticamente la sostituzione del volere della persona. Per averne una conferma, è sufficiente leggere quanto affermato da Antonio Pau, presidente della Sección Primera de la Comisión General de Codificación spagnola: “Hay que olvidar la idea de incapacitación. La capacidad no se toca ya. Ni se priva de ella ni se gradúa. Cada persona con discapacidad tiene plena capacidad jurídica, y su ejercicio requerirá un apoyo menor o mayor en cada caso, pero un apoyo que se base en la voluntad autónoma de todas y cada una de ellas”. È evidente che, se l’idea stessa di incapacitazione viene meno, inevitabilmente si impone un ripensamento del regime di validità degli atti compiuti dalle persone (non più qualificabili come incapaci) in condizione di disabilità anche psichica. Nello stesso senso il Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità, nelle Osservazioni generali n. 1 del 2014 sull’articolo 12, ha chiarito che tutti gli individui, a prescindere dal livello di disabilità, devono poter esercitare i propri diritti in prima persona, con sostegni adeguati, e che i regimi giuridici fondati sulla sostituzione di volontà sono, in quanto tali, incompatibili con la Convenzione. Questo orientamento ha implicazioni rilevanti per gli ordinamenti nazionali, i quali sembrano così chiamati a predisporre sistemi che offrano strumenti flessibili e proporzionati, capaci di rispettare le preferenze e la volontà del soggetto interessato.
Come detto, la Spagna ha elaborato una riforma, con la Ley 8/2021, che pare orientata ad un accoglimento completo della CRPD, abrogando gli strumenti sostitutivi tradizionali (interdizione e curatela sostitutiva), introducendo un sistema unitario di misure di sostegno all’esercizio della capacità giuridica, attivabili solo quando necessarie, proporzionali al bisogno e sempre rispettose della volontà della persona. Il giudice spagnolo, senza poter emettere provvedimenti di incapacitazione, ha ora il compito di disporre strumenti di accompagnamento decisionale, in un quadro che valorizza l’autonomia personale come espressione della dignità. Del resto, uno degli aspetti più significativi della riforma spagnola consiste nella piena rilevanza giuridica accordata al sostegno di fatto, circostanza destinata ad un processo di de-giurisdizionalizzazione delle misure di protezione, attuata in particolare attraverso la valorizzazione della guarda de hecho.
L’esempio spagnolo trova alcuni precedenti in America Latina, dove si registrano tendenze analoghe, sebbene con esiti eterogenei. In Colombia, la riforma del Codice civile operata con la Ley 1996/2019 ha eliminato le categorie di interdizione e inabilitazione, riconoscendo in ogni adulto, anche con disabilità, un soggetto capace per il diritto, cui può essere garantito un sostegno volontario o giudiziale per l’esercizio dei diritti. In Perù, la Ley 1384/2018 ha seguito un’impostazione simile, affermando che la disabilità non può mai determinare la perdita della capacità giuridica.
Viceversa, altri ordinamenti hanno adottato soluzioni più caute o ibride, che mantengono istituti di limitazione della capacità, seppure reinterpretati alla luce dei principi convenzionali. In Italia, l’introduzione dell’amministrazione di sostegno ha rappresentato un passo verso una maggiore flessibilità rispetto a interdizione e inabilitazione, ma non ha superato l’idea di una rappresentanza, che spesso si manifesta in formule standardizzate. Se, in ambito pubblicistico e assistenziale, il cambio di paradigma si è determinato recentemente grazie al d. legis. 3 maggio 2024, n. 62, con l’accoglimento di una nozione “relazionale” di disabilità, sul fronte privatistico ancora appare difficile sostenere la piena conformità del modello italiano a quello della CRPD, anche alla luce di una nota vicenda processuale, che ha dato luogo alla condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (Calvi and G.C. c. Italia del 6.7.2023).
Una situazione simile si riscontra in Francia, dove si riscontrano ancora tre categorie di protezione – sauvegarde de justice, curatelle e tutelle – che si differenziano per grado di invasività, ma che, pur prevedendo forme di coinvolgimento della persona, non escludono la sostituzione della volontà. Recenti riforme hanno tentato di valorizzare la “progettazione anticipata” e la volontà espressa ex ante, ma il superamento del paradigma rappresentativo non è ancora pienamente realizzato.
Infine, in Germania, la legge sulla Betreuung (assistenza legale) è stata recentemente riformata (2023), con l’obiettivo esplicito di adeguarsi alla CRPD: il nuovo sistema sottolinea il ruolo dell’assistente come facilitatore e non come sostituto, e stabilisce che ogni misura deve rispettare la volontà attuale o presunta della persona assistita. Tuttavia, il dibattito giuridico resta acceso sul punto se il mantenimento di un intervento giudiziario in sé non sia già in contrasto con l’art. 12.
Nel complesso, i sistemi giuridici si collocano lungo una traiettoria che va da modelli fortemente paternalistici a regimi fondati sul rispetto dell’autonomia con supporto. L’articolo 12 CRPD agisce come criterio assiologico di valutazione delle riforme: non basta che esistano misure di protezione, è necessario che esse siano non discriminatorie, proporzionate, limitate nel tempo e orientate alla volontà della persona.
4. Nozione di disabilità e premesse per un discorso giuslavoristico. Conclusioni
La nozione di disabilità accolta nella CRPD e, in particolare, l’affermazione dell’eguale riconoscimento della capacità giuridica di tutte le persone con disabilità (art. 12), trovano un’importante declinazione nel contesto del diritto del lavoro. Sebbene l’articolo 12 non si riferisca espressamente alla dimensione lavorativa, la sua incidenza si proietta su ogni ambito in cui la persona eserciti diritti e assuma obbligazioni in prima persona (dunque anche sul rapporto di lavoro, che rappresenta uno degli snodi fondamentali dell’autonomia individuale).
La Convenzione dedica l’articolo 27 al diritto al lavoro, che viene riconosciuto in termini di parità con gli altri, e che comprende non solo l’accesso, ma anche la permanenza e il progresso professionale, su base di uguaglianza. Il lavoro non è pensato come mera occupazione, ma come espressione della personalità e strumento di inclusione sociale, in linea con la prospettiva della piena partecipazione alla vita della comunità, propria dell’intero impianto convenzionale.
In questo senso, la disabilità non deve mai tradursi in una presunzione di incapacità lavorativa, né tantomeno in una marginalizzazione sistemica, circostanza che evidenzia già un perfetto parallelismo con gli esiti interpretativi accennati con riguardo all’art. 12 ed elaborati dagli studiosi di diritto civile. Al contrario, l’ordinamento deve predisporre strumenti giuridici e organizzativi idonei a consentire alla persona con disabilità di scegliere e svolgere un’attività lavorativa, secondo le sue preferenze e inclinazioni, garantendo un eventuale sostegno ragionevole per l’esercizio della propria capacità.
Anche la logica dell’accomodamento ragionevole, pur enunciata in modo esplicito già all’art. 2 della CRPD, è pienamente in continuità con l’art. 12: essa presuppone che il lavoratore con disabilità sia pienamente capace di autodeterminarsi e, quindi, di chiedere, negoziare, eventualmente contestare, le misure idonee a rimuovere gli ostacoli derivanti dall’ambiente fisico o organizzativo. Non sfugge all’osservatore che la compatibilità del modello convenzionale con l’assetto generale del diritto del lavoro richieda uno sforzo di affinamento dei concetti e delle applicazioni pratiche particolarmente delicato, in ragione dei diversi interessi in gioco.
I principi ora menzionati trovano eco e attuazione anche nel diritto dell’Unione europea, in particolare nella direttiva 2000/78/CE, che vieta ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità in ambito lavorativo. L’art. 5 della direttiva sancisce espressamente l’obbligo per il datore di lavoro di adottare “accomodamenti ragionevoli”, a meno che tali misure non comportino un onere sproporzionato. Anche tale disposizione viene oggi letta alla luce della CRPD, di cui – come si è detto all’inizio di queste pagine – l’Unione è parte, con effetti interpretativi rilevanti per il giudice nazionale e per la giurisprudenza della Corte di giustizia.
In questo quadro, si coglie una complementarità tra tutela antidiscriminatoria e riconoscimento della capacità giuridica. Laddove il diritto del lavoro tendeva in passato a “proteggere” la persona disabile in quanto soggetto debole, il nuovo paradigma richiede di riconoscerne la soggettività piena: il lavoratore con disabilità non è un beneficiario passivo di tutele, ma un soggetto attivo, capace di contrattare, scegliere, contestare e partecipare a pieno titolo al mondo del lavoro.
Non mancano tuttavia tensioni tra i diversi livelli normativi e applicativi. Alcuni ordinamenti, come quello italiano, hanno recepito la direttiva 2000/78/CE (con il d.lgs. 216/2003), ma senza elaborare un sistema organico di accomodamenti ragionevoli, lasciando spesso il tema alla discrezionalità datoriale o a interpretazioni giurisprudenziali non sempre coerenti. Inoltre, strumenti di collocamento mirato e categorie protette (come quelli previsti dalla legge n. 68/1999) continuano a riflettere un approccio parzialmente segregativo, centrato più sull’appartenenza a categorie che sulla valorizzazione della soggettività lavorativa. Il concetto di disabilità sotteso a tale ultima legge si collega infatti ad una nozione di carattere medico, che si può definire “statica”, mentre all’opposto il concetto che è utilizzato nella prospettiva antidiscriminatoria (nel campo di applicazione dei ragionevoli accomodamenti) si richiama ad una nozione dinamica e psico-sociale, quale quella elaborata in ambito sovrannazionale, con problemi di coordinamento che la giurisprudenza è stata chiamata anche di recente a risolvere (ad es. in Cass. civ., sez. lav., 26.2.2024, n. 5048).
In definitiva, l’articolo 12 della CRPD invita a ripensare le categorie fondanti della vulnerabilità, nei vari settori in cui l’ordinamento si articolo, anche incidendo sul diritto del lavoro come spazio di attuazione dell’autonomia personale in presenza di disabilità. L’inclusione lavorativa non è solo una misura sociale, ma un’espressione giuridica della pari dignità e della capacità della persona di orientare la propria esistenza attraverso il lavoro, eventualmente con l’aiuto necessario, ma senza sostituzioni o automatismi escludenti.
L’analisi comparata della nozione di disabilità e dei modelli di tutela nei diversi ordinamenti – qui solamente accennata – mostra chiaramente quanto tale categoria non sia una mera etichetta diagnostica, bensì una costruzione giuridico-sociale complessa, il cui significato si definisce nel confronto tra sistemi, culture e paradigmi normativi. In questa prospettiva, l’articolo 12 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità costituisce un punto di osservazione privilegiato: affermando il pieno riconoscimento della capacità giuridica delle persone con disabilità, esso mette in discussione non solo istituti civilistici che nel tempo hanno sedimentato le loro categorie epistemologiche, ma anche le premesse filosofiche su cui tali istituti si sono storicamente fondati.
Il confronto tra ordinamenti evidenzia un passaggio, non ancora compiuto ovunque, dal paradigma della rappresentanza a quello del sostegno, dalla protezione passiva alla partecipazione attiva. Tale transizione implica una ridefinizione della disabilità come condizione di vulnerabilità relazionale, che interpella il diritto non in termini di eccezione o deviazione, ma come occasione per ripensare nozioni centrali quali autonomia, capacità, uguaglianza, responsabilità.
In questa luce, la disabilità non va ridotta a categoria “debole” né assimilata a una mera deviazione dalla norma, bensì riconosciuta come rivelatrice della vulnerabilità intrinseca della condizione umana, ovvero della nostra comune esposizione alla dipendenza, all’interazione e al bisogno di cura. Se intesa in questa direzione, la vulnerabilità smette di essere un deficit e diventa criterio positivo di organizzazione del diritto, sollecitando istituzioni capaci di ascolto, adattamento e dialogo. Peraltro, sebbene vulnerabilità e disabilità condividano tratti comuni (con la disabilità quale indice rivelatore della vulnerabilità stessa), è bene, per una più meditata consapevolezza lessicale, mantenerne chiare le differenze, considerando che l’una è condizione esistenziale universale, mentre l’altra appare espressione situata di una limitazione contestuale (del resto, la disabilità, nella prospettiva della CRPD, non si esaurisce nella vulnerabilità, ma si configura come categoria giuridica relazionale, normativamente riconosciuta, che reclama misure specifiche).
Alla luce di quanto fin qui emerso, la questione della disabilità sembra interpellare il diritto in tutti i suoi aspetti, perché mette in crisi già l’idea di soggetto giuridico come individuo autosufficiente e invulnerabile (adottando la nozione di vulnerabilità generale, ormai entrata a pieno titolo da anni nel lessico della civilistica italiana). Sottolineare questa finzione antropologica consente di rafforzare la grammatica dei diritti, rileggendoli come strumenti per l’emancipazione di soggetti concretamente situati, spesso marginalizzati non per natura ma per effetto di costruzioni culturali e barriere normative.