testo integrale con note e bibliografia
1.Premessa. Un quadro complesso e articolato. - 2. Sul concetto di attività assistenziale e rilevanza delle esigenze personali. - 3. Quando l’uso diventa abuso nella recente giurisprudenza di legittimità. - 4. Le questioni aperte.
1. La cornice legislativa, in cui sono inquadrati i permessi e i congedi, regolati dagli articoli 33, l. 104/92, e 42, d.lgs. 151/01, che perseguono l’ interesse primario «di assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza della persona con disabilità in modo da condurla a una «piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società» (art. 1, comma 1, lett. a), l. n. 104/1992), ma anche quello di favorire la conciliazione tra vita lavorativa ed esigenze familiari, non appare di facile lettura, a causa dei continui aggiustamenti intervenuti, in materia, e dell’assenza di coordinamento tra le varie disposizioni .
Non è possibile, in questa sede, tenere conto di tutte le modifiche che si sono succedute nel corso del tempo, né dell’ampio contenzioso e delle problematiche che la disciplina ha sollevato, anche se pare opportuno richiamare i recenti interventi normativi, avendo particolare attenzione alla posizione dei “lavoratori di cura” nei confronti delle persone con disabilità non minori.
Da un punto di vista operativo, le due fattispecie, dei permessi e dei congedi, presentano numerosi punti di contatto: in primis, un comune requisito di carattere sanitario, ovvero la condizione di disabilità “con necessità di sostegno intensivo”, come novellata dal d.lgs. n. 62 del 2024 (su cui v.infra).
Analogo è anche il novero dei soggetti che possono usufruirne, secondo una regola di esclusività, pur con alcune differenze. Al riguardo, è opportuno ricordare che il d.lgs. 30 giugno 2022, n.105, di attuazione della direttiva 2019/1158, espressamente intitolata all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, ha esteso la platea dei beneficiari dei permessi per assistenza e cura espressamente anche ai partner dell’unione civile e ai conviventi di fatto, anche se, per i primi, al medesimo riconoscimento si giungeva già grazie al comma 20, art. 1, l. n. 76/16, che ha esteso ai partner di unione civile le disposizioni che si riferiscono ai coniugi, mentre per i partner di una convivenza di fatto il diritto era già stato riconosciuto dalla Corte costituzionale n. 213/2016 . Ed invero, le specifiche modifiche apportate all’art. 33 co. 3, hanno mantenuto il requisito di parentela o affinità per i prestatori di assistenza diversi dal coniuge/partner/convivente, lasciando così la questione dubbia e rinviando alla giurisprudenza il compito di interpretare estensivamente la disposizione .
L’innovazione più importante è comunque costituita dal ritorno alla possibilità di riconoscere i permessi a più prestatori di assistenza, che ne possono usufruire in maniera alternativa, ovviamente sempre nel limite di tre giorni complessivi per la persona con disabilità, il che determina il superamento della figura del referente unico, introdotta ai tempi della riforma Brunetta (l. n. 183/10 e d.lgs. 119/2011). Si tratta di una novità di apprezzabile rilievo, dal momento che la possibilità di fruizione alternativa dei tre giorni di permesso è funzionale a scongiurare il carattere potenzialmente discriminatorio del divieto di condivisione del beneficio; per altro verso, siffatta previsione consente di consolidare il rapporto fiduciario tra il familiare con disabilità ed i suoi caregiver, diversificando l’assistenza individuale sulla base delle rispettive esigenze di conciliazione .
È tuttavia da osservare che il superamento della regola del referente unico non implica anche il completo abbandono dell’ordine gerarchico nell’accesso al diritto: rimane ancora, nella formulazione attuale della norma, il limite consistente nell’alternatività della fruizione dei permessi solo tra parenti e affini entro il secondo grado, restando la possibilità di assistenza da parte di parenti e affini entro il terzo grado subordinata a mancanza, decesso, situazioni invalidanti o compimento dei 65 anni di età di parenti e affini entro il secondo. Resta inoltre invariata la regola che stabilisce l’ordine prioritario, basato sul grado di parentela, stabilito per il caso in cui sia necessario che lo stesso lavoratore assista più persone con disabilità grave .
Diversamente, per il congedo straordinario, è prevista una gradazione gerarchica tra i beneficiari, dato che può farne richiesta in prima battuta solo il coniuge convivente, mentre gli altri soggetti (padre e madre anche adottivi, figli, fratelli o sorelle, il parente o l'affine entro il terzo grado) ne fruiranno solo nel caso di mancanza, decesso o patologie invalidanti delle categorie precedenti . È richiesto inoltre, in questo caso, il requisito della convivenza, inteso però dalla giurisprudenza in senso non coincidente alla coabitazione .
Ed invero, il legislatore del 2022 non ha ritenuto di intervenire sul rigoroso ordine gerarchico di accesso al diritto già stabilito dalla norma secondo la linea coniuge-genitore - figlio/a - fratello/sorella, a cui però si aggiunge in fondo il parente o l’affine entro il terzo grado, anche se appare poco comprensibile il superamento, ancorchè parziale, del principio gerarchico con riferimento ai permessi ma non per i congedi, che pure, proprio per le loro caratteristiche, implicano un rapporto tra prestatore e assistito ben più stretto .
In entrambe le ipotesi è prevista l’erogazione di un’indennità a carico dell’INPS, anticipata dal datore di lavoro e coperta da contribuzione figurativa accreditata su domanda di parte. Possono usufruirne unicamente i lavoratori dipendenti del settore pubblico e privato, mentre nulla è previsto in favore dei lavoratori autonomi anche se l’identità del bene protetto, cioè la cura e l’integrazione della persona con disabilità, solleva dubbi di illegittimità costituzionale in relazione all’art. 3 Cost. I permessi vengono concessi per tre giorni al mese, in maniera frazionata anche ad ore o continuativa e concorrono alla maturazione delle ferie . Il congedo straordinario può essere anch’esso fruito in modo continuativo o frazionato e ha una durata massima di due anni.
Il quadro summenzionato è stato da ultimo modificato dal d.lg.s.n.62 del 2024, che rappresenta l’autentico cuore della riforma della disabilità e che sembra rivestire una portata storica perché, oltre che compiere una operazione di correzione terminologica , ne compie anche una definitoria, andando a modificare l’articolo 3 della legge 104/1992 (comma 1), ora rubricato “Persona con disabilità avente diritto ai sostegni”.
Al comma 1 dell’art. 3, in modo apprezzabile, è data la nuova definizione di persona con disabilità secondo cui: “E’ persona con disabilità chi presenta durature compromissioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri, accertate all'esito della valutazione di base”, mentre nei commi successivi 2 e 3, si ammette il diritto alle prestazioni assistenziali in relazione alla necessità del sostegno, che può essere “non intensivo” (lieve o medio) e “intensivo” (elevato e molto elevato), fermo restando che quest’ultimo determina priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici “qualora la compromissione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”.
Appare dunque in evidenza, come già detto in altra sede , che la nuova definizione adottata, in funzione di adeguamento alle previsioni della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità del 2006, finisce col recepire il “modello bio-psico-sociale” della disabilità, attraverso l’adozione di una visione ampia nella quale l’idea dell’inclusione universale e della partecipazione attiva viene promossa e valorizzata anche ai fini dell’accesso alle prestazioni assistenziali. Ed infatti, la gradazione della tutela non risulta più basata, come in precedenza, sulla gravità della menomazione, ma sul livello di sostegno necessario per consentire alla persona con disabilità di realizzare un progetto di vita, individuale, personalizzato e partecipato su base di uguaglianza con gli altri, nel quadro di protezione accordata dagli artt. 2, 32 e 38 c. 1 Cost.
A tal fine, vanno altresì ricordate le innovazioni che riguardano il procedimento attraverso il quale vengono individuate le necessità di sostegno della persona con disabilità, cioè la predisposizione di una procedura valutativa unica che realizza in un solo procedimento tutte le valutazioni di base relative all’accertamento della disabilità. I cambiamenti più significativi potrebbero infatti derivare indirettamente dalle modifiche generali previste per l’accertamento dell’invalidità, che dovranno basarsi sui criteri di valutazione dell’ International Classification of Functioning, Disability and Health (Icf) e della Internationl Classification of Diseases (Icd) adottate dall’O.M.S., ma che non paiono di semplice utilizzo .
Non sorprende dunque che il decreto preveda una procedura di sperimentazione, al fine di applicare provvisoriamente e a campione, le norme riguardanti la valutazione di base, la valutazione multidimensionale e il progetto di vita, che è stata recentemente prolungata, e che sia stata differita l’entrata in vigore della riforma al 1° gennaio 2027 .
Resta il fatto che la nuova nozione delineata dall’art. 3, l. n. 104/1992 produce un impatto su tutte le disposizioni dell’ordinamento che ad essa fanno riferimento per riconoscere diritti e attribuire tutele specifiche in connessione alla condizione soggettiva della persona con disabilità, dunque, sulla materia dei permessi, in oggetto, e sugli altri istituti del diritto del lavoro – come i congedi, il lavoro notturno o i diritti di scelta della sede di lavoro, di priorità nell’accesso al lavoro agile e di rifiutare il trasferimento – che rinviano (con l’eccezione dell’art. 11 D. Lgs. n. 66/2003 che, per il lavoro notturno, rinvia alla generale nozione di disabilità) all’art. 3, co. 3 per accordare specifiche tutele al lavoratore .
E, d’altra parte, è questa la sola norma di riferimento, ai nostri fini, perché qualifica come sostegno intensivo alla persona con disabilità quelle situazioni in cui sia necessario un intervento “assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”. Al contrario, l’art.33, comma 3 della legge n. 104 del 1992 non definisce regole dettagliate riguardo alle modalità di utilizzo dei permessi, limitandosi a riconoscere al lavoratore il diritto di “assistere una persona con disabilità”. Resta in ogni caso fermo che il datore di lavoro, salvo diverso accordo tra le parti sociali, non può sindacare la scelta dei giorni in cui fruire di tali permessi, rimessa esclusivamente al lavoratore e soggetta solo ad obbligo di comunicazione, né può contestare la prestazione dell’assistenza in orari non integralmente coincidenti con il turno di lavoro, la quale pertanto non costituisce “abuso del diritto”.
2. Alla luce delle considerazioni che precedono da cui si evince che il testo della legge n. 104/1992 è privo di una definizione dell’attività assistenziale, il compito dei giudici è stato quello di sopperire alle lacune del testo normativo, anche se i soli riferimenti su quale tipo di intervento possa essere rivolto alla persona con disabilità sono quelli contraddistinti dalle caratteristiche della permanenza, della globalità e della continuità dell’attività stessa, come già detto.
Sennonché, le decisioni giurisprudenziali che si sono occupate di individuare le modalità di assistenza della persona con disabilità non sono state sempre uniformi, tant’è che si è parlato di “parabola dei permessi” , oltre che legislativa, anche giurisprudenziale che, peraltro, ha evidenziato alcune anomalie, anche al tempo dell’emergenza .
E’ bene infatti rilevare che, in una prima fase, l’interpretazione fornita dai giudici di legittimità risulta basata sul concetto di assistenza totale , quindi si rivela molto rigida dei modi e dei tempi impiegati per prestare assistenza alla persona con disabilità, comportando però un rischio, di natura opposta a quello odierno, ossia una limitazione dell’attività assistenziale e dei diritti fondamentali della persona con condizione di disabilità, e un eccessivo ampliamento della fattispecie dell’abuso del diritto, possibile causa di licenziamenti “pretestuosi”.
La seconda fase invece sembra rappresentata dall’orientamento oggi consolidato, incentrato sul fattore tempo, quale elemento direttamente legato al carattere assistenziale della prestazione , ma rivolto verso la soddisfazione dei bisogni della persona con condizione di disabilità. Del resto, la legge n. 104/1992 disciplina permessi giornalieri su base mensile, e non su base oraria, sicché non risulta necessaria la sovrapposizione tra l’orario di lavoro del richiedente il permesso e l’attività volta alla prestazione dell’assistenza .
Relativamente alle modalità in cui il lavoratore abbia svolto l’attività di assistenza e alle attività che possono rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104/1992, considerata l’assenza di prestazioni assistenziali “tipiche” nel testo normativo, ciò che rileva è piuttosto la presenza di un diretto nesso causale tra la fruizione del permesso e l’assistenza alla persona con condizione di disabilità. Va però precisato che il nesso non deve essere interpretato in modo tale che il dipendente arrivi a sacrificare le proprie necessità personali o familiari per lo svolgimento dell’attività oggetto di permesso.
In particolare, il lavoratore dovrebbe garantire un intervento assistenziale , che deve avere carattere permanente e globale nella sfera individuale e di relazione della persona con disabilità, dunque, può usare i permessi previsti dalla legge anche per svolgere attività di natura amministrativa, pratica o di altro tipo, purché queste attività siano nell’interesse del familiare che si sta assistendo ,tenuto altresì conto dei valori di rilievo costituzionale coinvolti dalla disciplina in esame che postulano una peculiare e rafforzata tutela degli interessi regolati .
In buona sostanza, ciò che rileva, secondo la Cassazione, è che durante l’orario coperto dal permesso venga di fatto svolto il compito assistenziale che comprende anche la possibilità di momenti di ripresa personale psico-fisica a fronte del gravoso onere di cura verso un familiare in condizione di disabilità e non autosufficienza, potendo, dunque, il lavoratore, durante la vigenza del permesso, dedicare un periodo di tempo alle proprie esigenze personali di vita .
Le novità introdotte dal d.lgs. n. 62 del 2024, citato, in particolare, quelle riguardanti la stesura del progetto di vita, sembrano in grado di condizionare direttamente la fruizione dei permessi e, come conseguenza, le interpretazioni in uso elaborate dalla giurisprudenza sull’attività di carattere assistenziale. Il che equivale ad intendere che il rapporto tra l’attività di assistenza e le esigenze personali di vita del soggetto che presta assistenza potrebbe diventare ancora più indeterminato e di difficile riconoscimento. Si può affermare, quindi, che alla personalizzazione del progetto di vita segua la personalizzazione dell’attività di assistenza alla persona con disabilità, il che potrebbe segnare, anche se in lontananza, l’apertura di una “terza fase della giurisprudenza”.
3. Ciò che emerge nell’interpretazione giurisprudenziale, specie quella più recente, è invero, l’attenzione alla nozione correlata di “abuso del diritto” al permesso per l’assistenza al familiare in condizione di disabilità.
Ben può dirsi, sul piano sistematico e ordinamentale che, sotto il profilo oggettivo, il concetto di “abuso del diritto” implica uno sviamento funzionale, ossia un esercizio del diritto solo apparente, privo di qualunque legame ed utilità rispetto allo scopo per il quale quel diritto è riconosciuto dal legislatore .
Sul piano soggettivo è necessario un elemento psicologico, di natura intenzionale o dolosa, che parimenti deve essere accertato, sia pure mediante presunzioni semplici, dalle quali sia possibile individuare la finalità di pregiudicare interessi altrui . Entrambi gli elementi sono necessari, sicché l'assenza (o il mancato accertamento) di uno dei due impedisce la configurabilità di un "abuso del diritto".
Le recenti sentenze della Corte di Cassazione forniscono importanti chiarimenti sul concetto di abuso del diritto al permesso, evidenziando un profilo non soltanto quantitativo, bensì anche - e soprattutto - qualitativo. Sotto il primo profilo va tenuto conto non soltanto delle prestazioni di assistenza diretta alla persona disabile, ma anche di tutte le attività complementari ed accessorie, comunque necessarie per rendere l'assistenza fruttuosa ed utile, nel prevalente interesse della persona in condizione di disabilità, avuto di mira dal legislatore . Ciò equivale a significare che non ci si può “limitare e fermare ad un accertamento meramente quantitativo in termini di percentuale del tempo giornaliero dedicato all’assistenza della persona con disabilità”, essendo necessario verificare se nella fattispecie sussistano tutti gli altri elementi necessari per sussumere la fattispecie concreta in quella astratta del diritto ai permessi.
Sotto il secondo profilo vanno valutate portata e finalità dell'intervento assistenziale (da parte del dipendente) in favore del familiare con disabilità, tenuto conto del complessivo contesto, anche relazionale, rispetto ad eventuali strutture sanitarie, pubbliche o private, presso le quali sia necessario espletare accertamenti o effettuare ricoveri.
Ne consegue pertanto che il c.d. abuso del diritto potrà configurarsi soltanto quando l’assistenza alla persona con disabilità sia completamente assente oppure se viene prestata per tempi così brevi da essere irrilevante, o ancora se le modalità di assistenza sono così marginali da vanificare lo scopo della norma .
D’altra parte, la necessità che il nesso causale, di cui si è detto, sia valutato non soltanto in termini quantitativi, ma anche qualitativi e complessivamente in modo relativo, ossia tenendo conto del contesto e di tutte le circostanze del caso concreto, è stata da tempo affermata da questa Corte in materia di congedo straordinario retribuito ai sensi dell'art. 42, co. 5, D.Lgs. n. 151/2001 e ha indotto a ritenere che il c.d. abuso del diritto sussista soltanto se quel nesso causale venga a mancare "del tutto".
In ragione della centralità del profilo qualitativo, pare, dunque, opportuno riflettere sul concetto di assistenza parziale, con attenzione al ruolo che ricoprono le personali esigenze di vita. Da un lato, si tratta di sindacare l’attività assistenziale, e verificare se siano presenti i caratteri della permanenza, della continuità e della globalità; dall’altro, di accertare che l’ulteriore attività del lavoratore, realizzata durante i vari intervalli di tempo della giornata, sia rivolta alla soddisfazione delle esigenze personali di vita.
Di conseguenza, qualora il dipendente utilizzi i permessi per scopi differenti da quelli per cui sono stati previsti dalla normativa, in base a consolidata giurisprudenza di legittimità , il comportamento viola il principio di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro – che viene indebitamente privato della prestazione del lavoratore e sopporta comunque una lesione (la cui gravità va valutata in concreto)– che nei confronti dell’Inps a cui carico è l’onere economico della prestazione assistenziale , integrando la fattispecie di abuso del diritto con rilevanza anche ai fini disciplinari .
In particolare, secondo la Cassazione, tale comportamento del dipendente-ledendo irrimediabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro- dà origine a un valido motivo per interrompere in tronco il rapporto di lavoro; basta, peraltro, anche un solo episodio per giustificare il licenziamento, non essendo necessario un comportamento reiterato .
E spetta al giudice di merito accertare, caso per caso, se l’utilizzo del permesso sia conforme alla sua ratio e quindi se il lavoratore abbia comunque preservato le finalità primarie dell'intervento assistenziale voluto dal legislatore, perché in tal caso il fatto contestato in termini di "uso distorto" o di "abuso del diritto" si rivelerebbe insussistente.
Quanto alla legittimità degli strumenti di indagine del datore di lavoro, è stato affermato che l’onere probatorio grava sul datore di lavoro, il quale può anche avvalersi di investigatori privati o ad altri strumenti di controllo per verificare comportamenti illeciti del lavoratore che esulano l’adempimento dell’obbligazione lavorativa . Il che non esclude, tuttavia, che grava anche sul lavoratore l’onere di provare l’insussistenza della giusta causa di licenziamento .
4. Quella dei permessi è dunque una fattispecie, i cui requisiti sono stati resi sempre meno restrittivi, anche dalla legge , il che spiega i frequenti episodi di utilizzo distorto, e anzi fraudolento, che emergono dall’elaborazione giurisprudenziale. L’abuso dei permessi andrebbe invece affrontato cercando di circoscrivere il campo di applicazione oggettivo dell’art. 33 della legge n. 104, stabilendo, ad esempio, che il permesso possa essere concesso solo per esigenze davvero meritevoli di essere tutelate dall’ordinamento e che non potrebbero essere soddisfatte in altro modo, se non assentandosi dal lavoro.
Anche il congedo straordinario, benché fosse originariamente concepito come strumento di tutela rafforzata della maternità in caso di figli portatori di handicap grave e sia tuttora inserito in un testo normativo dedicato alla tutela e al sostegno della maternità e della paternità (come recita il titolo del D.Lgs. n. 151 del 2001), ha assunto col passare del tempo una portata sempre più ampia in armonia con l’esigenza di salvaguardare «la cura del disabile nell’àmbito della famiglia e della comunità di vita cui appartiene», così da «tutelarne nel modo più efficace la salute, di preservarne la continuità delle relazioni e di promuoverne una piena integrazione» .
Ciò spiega la progressiva estensione del complesso dei soggetti aventi titolo a richiedere il congedo, operata dal giudice delle leggi, all’insegna dei principi di ragionevolezza e solidarietà, che ne ha dilatato l’ambito di applicazione oltre i rapporti genitoriali, per ricomprendere anche le relazioni tra figli e genitori disabili, e ancora, in altra direzione, i rapporti tra coniugi o tra fratelli. In buona sostanza, i ripetuti interventi della Consulta tendono ad evidenziare come la chiave per superare lo stato di diseguaglianza di chi si viene a trovare in una condizione di disabilità siano gli inderogabili doveri di solidarietà, ai quali la Repubblica e tutti i suoi cittadini sono vincolati, al fine di contribuire – in maniera solidale, appunto – ad eliminare, o almeno a ridurre fortemente le difficoltà di tali soggetti più deboli. Il congedo straordinario è, pertanto, al pari dei permessi, espressione dello Stato sociale che si realizza, piuttosto che con i più noti strumenti dell’erogazione diretta di prestazioni assistenziali o di benefici economici, tramite facilitazioni e incentivi alle manifestazioni di solidarietà fra congiunti.
D’altra parte, se, come si legge nel Preambolo, lett. x), della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, «la famiglia (…) è il naturale e fondamentale nucleo della società e merita la protezione da parte della società e dello Stato, (…) le persone con disabilità ed i membri delle loro famiglie dovrebbero ricevere la necessaria protezione ed assistenza per permettere alle famiglie di contribuire al pieno ed eguale godimento dei diritti delle persone con disabilità». Di conseguenza, se conta il peso delle parole, deve prestarsi attenzione e rispetto per il destinatario di esse così da consentire un concreto sostegno agli interventi di supporto alla domiciliarità e ai programmi di accrescimento della consapevolezza, di abilitazione e di sviluppo delle competenze per l’organizzazione della vita quotidiana e per il raggiungimento del maggior livello di autonomia possibile delle persone con disabilità.
Sennonchè, rimangono ancora molteplici le questioni aperte, irrisolte, nonostante la Riforma, il cui slittamento reca con sè una serie di implicazioni pratiche . Ciò che appare in tutta evidenza è soprattutto la mancata attenzione al ruolo dei caregiver, la cui disciplina fatica ancora a uscire allo scoperto , procrastinandosi l’assenza di tutela sul piano nazionale e di riconoscimento del lavoro di “chi quotidianamente si prende cura di un familiare bisognoso” . Insomma, come attentamente rilevato, “paradossalmente non ci si prende cura proprio di coloro che assicurano cura, lavoratori essenziali sui quali si scaricano molte delle tensioni, economiche e logistiche, dei sistemi di welfare societario e familiare” .
Al tempo stesso, non si può trascurare che sono innumerevoli le disposizioni tra di loro non convergenti e a volte contrastanti, che andrebbero riordinate e ridotte ad unità dal Codice Unico che, a quanto pare, sembra uscito di scena. Appare, invece, necessario un aggiornamento della legge quadro n. 104/92, sia alla luce del mutato riparto di competenze tra Stato e regioni, sia rispetto ai numerosi interventi giurisprudenziali, di cui si è dato conto, in modo da ripensare una struttura organizzativa al passo coi tempi, capace di stroncare la diffusione di abusi e concentrare le risorse sulle situazioni effettivamente meritevoli.
Questi sono solo alcuni degli scogli su cui si infrange l’onda “straordinaria” di una riforma (segnata in modo particolare dal d. lgs. 62/2024), che stenta ancora a decollare, per le stesse logiche di contenimento della spesa che hanno caratterizzato gli interventi di assistenza sanitaria degli ultimi anni.