testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa
La disciplina del collocamento mirato, introdotta con la l. n. 68/1999 e rafforzata dagli interventi normativi del 2015, ha segnato il superamento dell’impianto categoriale e centralistico delineato dalla l. n. 482/1968 , introducendo un modello più attento alla personalizzazione degli interventi e alla valorizzazione della capacità lavorativa residua secondo un’impostazione dichiaratamente funzionale e non meramente assistenziale .
Questo mutamento si è inserito in un processo più ampio di progressiva adesione dell’ordinamento italiano ai principi affermati a livello europeo e internazionale. Già la direttiva 2000/78/CE aveva sancito il principio di parità di trattamento e l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli nei luoghi di lavoro; principi ulteriormente consolidati nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006 (l. 3 marzo 2009, n. 18), che ha sollecitato il superamento del paradigma medico-legale in favore del modello bio-psico-sociale secondo cui la disabilità non è più la condizione soggettiva (individuale) della persona, vincolata necessariamente a valutazioni mediche che richiedono terapie riabilitative, ma è il prodotto dell’interazione tra condizioni di salute e barriere ambientali, sociali e culturali , potendosi ricomprendere al suo interno anche la malattia cronica o di lunga durata se e in quanto effettivamente comprometta la partecipazione del soggetto alla vita sociale e professionale, in modo duraturo .
La legge n. 68/1999 ha anticipato, almeno in parte, tali impostazioni, delineando un sistema che, pur mantenendo una base vincolistica , incorpora elementi promozionali e dispositivi di flessibilità in grado di sostenere la persona con disabilità nel progetto di inserimento lavorativo , al fine di superare ogni residuo formalismo (art.2) .
A dispetto della coerenza del disegno normativo, l’attuazione concreta della l. n. 68/1999 ha incontrato sin dalla sua introduzione, ostacoli di natura amministrativa, organizzativa e culturale, che ne hanno compromesso l’efficacia sostanziale come attestato dalle Relazioni biennali al Parlamento, previste dall’art. 21 della legge, che documentano con chiarezza la profonda disomogeneità territoriale nell’applicazione della normativa e la persistente resistenza dei datori di lavoro al reclutamento di quelle persone che versano in una condizione di (incolpevole) vulnerabilità .
La l. n. 68/1999 si presenta, pertanto, come un corpus normativo di elevata sofisticazione teorica, la cui concreta attuazione rimane subordinata alla capacità dell’ordinamento e degli attori coinvolti di assicurare un contesto sistemico in grado di tradurre l’enunciato programmatico dell’inclusione lavorativa in un diritto concretamente esigibile.
Alla luce di queste premesse, il presente contributo si propone di ricostruire l’evoluzione normativa dell’attuale sistema del collocamento mirato, mettendone in luce le principali disfunzioni applicative e interrogandosi, alla luce delle recenti innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 62/2024, sulle prospettive di un suo possibile ripensamento strutturale.

2. I soggetti tutelati tra discontinuità sistemica e nuove prospettive di inclusione
La l. n. 68/1999 ha innovato il perimetro soggettivo della tutela superando l’impostazione rigidamente categoriale che aveva contrassegnato la l. n. 482/1968 . Quest’ultima fondava la riserva di posti su percentuali distinte per ciascuna “categoria protetta”, ancorate all’eziologia della menomazione (invalidità civile, di guerra, per servizio, cecità, sordità), consentendo peraltro il soddisfacimento degli obblighi anche attraverso l’assunzione di soggetti normodotati ritenuti socialmente meritevoli di protezione. Ne derivava un sistema frammentato e improntato a logiche prevalentemente risarcitorie e assistenziali.
L’attuale disciplina ha invece optato, almeno sul piano concettuale, per un approccio tendenzialmente unitario, fondato sul criterio funzionale della riduzione della capacità lavorativa.
Tale tensione unificatrice, tuttavia, non ha determinato un superamento completo delle categorie preesistenti. La l. n. 68/1999 — in una scelta di continuità con l’impianto antecedente — ancòra l’individuazione dei beneficiari della tutela alle cause della riduzione della capacità lavorativa .
L’art. 1 differenzia le condizioni di disabilità sulla base della tipologia di invalidità (civile, per cause di lavoro, di guerra o per servizio), nonché in relazione allo status di non vedenti e sordomuti, facendo riferimento non solo all’origine eziologica della menomazione, ma anche ai distinti iter di accertamento, ai soggetti competenti e alle misure assistenziali e previdenziali connesse .
Un rilevante elemento di modernizzazione è rappresentato dall’estensione della tutela agli invalidi affetti da disabilità psichica, fino ad allora integralmente esclusi dal sistema previgente. Per questi soggetti, l’avviamento al lavoro è subordinato a un percorso personalizzato, fondato su convenzioni con i servizi competenti. Tale innovazione trova fondamento nella sentenza n. 50 del 1990 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità della normativa allora vigente, nella parte in cui escludeva dal collocamento mirato gli invalidi civili con minorazioni psichiche compatibili con lo svolgimento di un’attività lavorativa adeguata .
Accanto a tale ambito primario di tutela, l’art. 18, co. 2, l. n. 68/1999 prevede una riserva aggiuntiva dell’1%, gravante unicamente sui datori di lavoro con oltre cinquanta dipendenti, in favore dei soggetti normodotati in condizioni di particolare vulnerabilità (orfani e coniugi superstiti di lavoratori deceduti o divenuti grandi invalidi per cause di lavoro, guerra o servizio, nonché profughi italiani rimpatriati). Tale categoria è stata progressivamente ampliata dal legislatore in risposta a eventi emergenziali e a mutate sensibilità sociali: sono stati, infatti, inclusi le vittime del terrorismo e della criminalità organizzata di cui alla l. 407/1998 (disciplina estesa anche alle vittime di eventi dannosi, derivanti da cedimenti totali o parziali di infrastrutture stradali o autostradali di rilevanza nazionale e ai relativi superstiti), gli orfani di crimini domestici; coloro che, al compimento della maggiore età, vivono fuori della famiglia di origine sulla base di un provvedimento dell’autorità giudiziaria (c.d. care leavers), le vittime del dovere, i testimoni di giustizia, gli orfani delle vittime del sisma della Regione Abruzzo, inclusi quelli di Rigopiano e, più di recente, i medici, gli operatori sanitari, gli infermieri, gli operatori socio-sanitari e gli altri lavoratori nelle strutture sanitarie e socio-sanitarie vittime del contagio da Covid-19.
Con tale scelta, il legislatore ha inteso contrastare pratiche elusive che, sotto la vigenza della l. n. 482/1968, avevano reso possibile l’adempimento degli obblighi di assunzione attraverso l’impiego sostitutivo di soggetti normodotati, svuotando così la portata inclusiva della tutela riservata ai disabili .
Nonostante l’ambizione di ricomporre in senso unitario la categoria della disabilità, l’attuale perimetrazione dei soggetti protetti restituisce un quadro ancora disarticolato e selettivo che rischia di contraddire l’impianto teleologico della legge , riproponendo un sistema di classificazione tipologica delle diverse situazioni di vulnerabilità . Il legislatore ha confermato, infatti, di voler tutelare mediante un’apposita disciplina solo una parte delle persone con disabilità, seppur estendendo l’ambito di applicazione fino a ricomprendere anche le persone in condizioni di maggiore gravità, mantenendo, e anzi aumentando, la forbice degli esclusi in presenza di patologie meno gravi. È sufficiente considerare che risultano tuttora esclusi dalla tutela specifica alcuni soggetti disabili in età lavorativa le cui condizioni di salute non raggiungono le soglie richieste, demandandone l’inserimento lavorativo alla disciplina generale applicabile a tutti i lavoratori normodotati, sulla base di un presupposto di adeguata capacità di collocazione autonoma nel mercato (si pensi anche ai malati cronici la cui tutela è garantita prevalentemente ex post, attraverso sanzioni, anziché ex ante, mediante una gestione “preventiva” del rapporto di lavoro) .
La persistenza di soglie differenziate, percorsi di accertamento eterogenei e categorizzazioni non univoche della condizione di disabilità continua, perciò, a ostacolare una lettura pienamente funzionale della capacità lavorativa residua quale parametro centrale della tutela, alimentando una tensione irrisolta tra l’intento dichiarato del legislatore e l’efficacia concreta delle misure protettive .
Tali nodi strutturali si ripropongono oggi con tratti di rinnovata criticità alla luce del d.lgs. n. 62/2024 che introduce formalmente nell’ordinamento interno un paradigma definitorio della disabilità espressamente ancorato alla dimensione relazionale e ambientale, in linea con il modello bio-psico-sociale di matrice sovranazionale.
L’adozione di questo nuovo impianto concettuale acuisce la distanza rispetto a una disciplina del collocamento mirato ancora imperniata su parametri medico-legali e su soglie valutative predefinite, ormai inadeguati a cogliere la complessità delle interazioni tra persona, contesto e barriere ambientali.
In tale prospettiva, l’esigenza di un adeguamento strutturale dell’intero impianto normativo era già stata avvertita dal legislatore con il d.lgs. n. 151/2015, il quale, all’art. 1, lett. c), aveva demandato alle Linee guida in materia di collocamento mirato, adottate solo dopo diversi anni con decreto MLPS dell’11 marzo 2022, l’individuazione di modalità di valutazione bio-psico-sociale della disabilità, la definizione dei criteri per la predisposizione dei progetti di inserimento lavorativo basati anche sulla rilevazione di barriere e facilitatori ambientali, nonché l’indicazione di indirizzi per gli uffici competenti funzionali alla valutazione e progettazione dell’inserimento lavorativo in tale ottica.
Attraverso tale documento si è dunque tentato di anticipare, sul piano delle prassi e della regolazione secondaria, alcuni dei principi oggi formalmente recepiti dal d.lgs. n. 62/2024. Tuttavia, in assenza di un’effettiva integrazione con la disciplina primaria e con le procedure di accertamento, l’impatto concreto delle Linee guida sul sistema del collocamento mirato è rimasto marginale, segnato da una persistente frammentarietà applicativa e da significative disomogeneità territoriali.
Il d.lgs. n. 62/2024 interviene ora direttamente su questo scenario introducendo un obbligo giuridico di riallineamento sistemico, sia sul piano definitorio che su quello procedurale . Non si tratta tanto di una coesistenza di “sistemi valutativi” della disabilità, quanto di una divergenza fra due assetti definitori e procedurali destinati a interagire in modo problematico, rischiando di generare sovrapposizioni e contraddizioni sul piano applicativo, laddove il collocamento mirato continua formalmente a richiedere requisiti tipizzati che il nuovo sistema non necessariamente presuppone .
L’incidenza più rilevante del d.lgs. n. 62/2024 sul sistema delineato dalla l. n. 68/1999 si coglie, in particolare, con riferimento alle nuove modalità di accertamento della condizione di disabilità e alla progettazione individualizzata dei percorsi di inclusione.
Sotto il primo profilo, l’art. 5 del decreto introduce la “valutazione di base”, attivabile su richiesta dell’interessato, configurandola come un «procedimento unitario volto al riconoscimento della condizione di disabilità definita dall’articolo 2, comma 1, lettera a)», comprensivo di ogni accertamento dell’invalidità civile previsto dalla normativa vigente e, in particolare, ai sensi della lettera f), dell’«accertamento della condizione di disabilità ai fini dell’inclusione lavorativa, ai sensi della legge 12 marzo 1999, n. 68» .
Con tale intervento, il legislatore adotta un impianto procedurale integrato, orientato a considerare congiuntamente le diverse dimensioni rilevanti, nell’ottica di ridurre la frammentazione degli adempimenti e di promuovere una maggiore sinergia tra settori tradizionalmente disallineati . La valutazione così strutturata consente di rilevare in che misura e con quali modalità le limitazioni funzionali e strutturali impattino concretamente sulla quotidianità della persona, sia sotto il profilo dell’attività – ossia delle azioni che la persona è in grado di compiere – sia sotto quello della partecipazione – intesa come effettivo coinvolgimento nei contesti sociali, lavorativi e familiari .
Si tratta, dunque, di una valutazione multidimensionale, fondata sulla classificazione ICF, che segna un deciso superamento dell’impostazione medico-legale assunta dalla l. n. 68/1999.
Da ciò discende un’evidente tensione con gli artt. 1 e 2 della l. n. 68/1999, che continuano a richiamare una nozione statica di “capacità lavorativa”, difficilmente compatibile con l’approccio dinamico e relazionale oggi introdotto.
A questa innovazione si affianca la rilevante modifica procedurale introdotta dall’art. 9, co. 1, del d.lgs. n. 62/2024, che, a partire dal 1° gennaio 2027, assegna in via esclusiva all’INPS la competenza per l’accertamento della condizione di disabilità. Da tale data, dunque, sarà superata l’attuale doppia fase procedurale — caratterizzata da un primo accertamento svolto dalle commissioni integrate ASL-INPS e da una successiva validazione da parte di una commissione separata dell’INPS — a favore di un processo unificato, interamente affidato all’Istituto, che assumerà la responsabilità completa della gestione dell’intero procedimento per la valutazione di base . Questo passaggio trascende il mero profilo organizzativo, dispiegando significative conseguenze sul piano sostanziale, considerato che il nuovo accertamento operato dall’INPS sarà basato sulla certificazione multidimensionale di cui all’art. 6, con conseguente superamento delle attuali logiche di certificazione meramente percentualistica.
Sicché il raccordo fra questa nuova certificazione e i requisiti per l’iscrizione agli elenchi ex art. 8 l. n. 68/1999 costituirà un nodo interpretativo e applicativo di grande rilievo, destinato a incidere concretamente sull’attuazione del collocamento mirato.
Sul piano della progettazione individuale, il d.lgs. n. 62/2024 riscopre e dà valore al progetto di vita già previsto dalla l. n. 328/2000 , delineandone il contenuto essenziale e gli obiettivi nonché identificando quale debba essere l’ambito di eventuali interventi e quali le risorse . L’articolazione del progetto di vita nel d.lgs. n. 62/2024 introduce una nuova metodologia di intervento, personalizzata e partecipata, che si concretizza in una pianificazione integrata «nei diversi ambiti di vita, compresi quelli scolastici, della formazione superiore, abitativi, lavorativi e sociali» al fine di superare la frammentazione tipica del sistema precedente .
Sebbene il progetto non sia esclusivamente orientato alla dimensione lavorativa, potrà ricomprendere, d’intesa con la persona e i servizi competenti, interventi specificamente finalizzati all’inclusione lavorativa, quali misure di accompagnamento, percorsi formativi, accomodamenti ragionevoli, strumenti di sostegno personalizzati e atipici che si collocano al di fuori delle azioni esistenti (art.26) . D’altra parte, che anche questo sia un ambito sul quale il progetto di vita può intervenire risulta chiaro dalla stessa composizione dell’unità di valutazione multidimensionale di cui all’art. 24 che prevede, ove necessario, il coinvolgimento di «un rappresentante dei servizi per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità di cui all’articolo 6 della legge 12 marzo 1999, n. 68, nei casi di cui all’articolo 1, comma 1, della medesima legge» e, su richiesta della persona disabile, anche di «un rappresentante di associazione, fondazione, agenzia o altro ente con specifica competenza nella costruzione di progetti di vita anche del terzo settore».
Letto in collegamento con l’art. 2 della l. n. 68/1999, il progetto individuale potrebbe rappresentare, se adeguatamente valorizzato, uno strumento di rafforzamento della dimensione personalizzata dell’inserimento lavorativo. Resta da comprendere se il datore di lavoro possa essere coinvolto nella predisposizione del progetto di vita e, ove quest’ultimo preveda l’adozione di accomodamenti ragionevoli in ambito lavorativo, ne risulti vincolato.
Sul punto il d.lgs. n. 62/2024 non prevede un coinvolgimento diretto della parte datoriale nella predisposizione del progetto di vita; tuttavia, trattandosi di un istituto la cui attivazione è rimessa all’iniziativa della persona con disabilità che ricompre un ruolo attivo nella costruzione del proprio progetto di vita, a quest’ultima viene concessa dall’art. 22 la facoltà di farsi assistere da una persona che faciliti l’espressione delle sue scelte e l’acquisizione della piena comprensione delle misure e dei sostegni attivabili la quale diventa componente dell’unità di valutazione multidimensionale [art. 23, lett.c)].
Sulla base degli esiti della valutazione multidimensionale, i soggetti che hanno preso parte al relativo procedimento predispongono il progetto di vita che individua i sostegni, il budget di progetto e gli accomodamenti ragionevoli che garantiscono l’effettivo godimento dei diritti e delle libertà fondamentali.
Si potrebbe, perciò, ipotizzare che la persona con disabilità possa coinvolgere il proprio datore di lavoro, anche per il tramite del medico competente, nella predisposizione del progetto di vita affinché in quella sede vengano concordati con gli altri componenti dell’unità di valutazione gli accomodamenti (e i relativi costi) necessari per il suo valido inserimento lavorativo.
In alternativa la persona con disabilità può presentare una propria proposta di progetto di vita, sia in fase di richiesta del progetto, sia successivamente all’avvio del procedimento la cui adeguatezza viene verificata dall’unità di valutazione. In siffatte ipotesi il datore di lavoro potrebbe essere coinvolto dall’interessato prima della presentazione dell’istanza.
Il vantaggio per il datore di lavoro sarebbe quello di predeterminare a monte il perimetro dei suoi obblighi (oggi notevolmente rafforzati) nei confronti della persona con disabilità onde evitare un’eterodeterminazione ex post (da parte della magistratura) dei possibili accomodamenti ragionevoli. Per il soggetto disabile tale opzione interpretativa perseguirebbe il fine di realizzare il suo collocamento “mirato” direttamente concordato con il datore di lavoro e integrato nel contesto aziendale, ferma restando la possibilità di aggiornare il progetto di vita in caso di cambiamento di alcune condizioni o previe verifiche periodiche dei tempi e degli interventi precedentemente pianificati.
In conclusione, l’effettiva implementazione del d.lgs. n. 62/2024 comporterà una revisione sostanziale dei meccanismi di accesso e di valutazione nell’ambito del collocamento mirato, con l’obiettivo di superare definitivamente ogni residuo criterio selettivo rigido in favore di una valutazione personalizzata e dinamica dell’occupabilità e dei fattori che la condizionano . In attesa, tuttavia, della completa attuazione del d.lgs. n. 62/2024 permane nel nostro ordinamento una nozione di disabilità di cui alla l. n. 68/1999 che trova applicazione a particolari categorie di persone con disabilità e una nozione di disabilità “ordinaria” che si applica a tutto il resto dei casi.

3. I soggetti obbligati e la flessibilità del collocamento mirato
La legge n. 68/1999 ha ridefinito in senso più ampio e articolato anche l’area soggettiva dell’obbligo di assunzione, riducendo (ovvero dimezzando) le quote di riserva e ampliando la platea dei datori di lavoro nell’intento di superare le rigidità e le disfunzioni che avevano segnato l’esperienza applicativa della disciplina precedente .
L’obbligo di assunzione non si configura come un vincolo assoluto e indifferenziato, ma si declina in termini proporzionati rispetto alla dimensione aziendale e alle caratteristiche organizzative dell’impresa, in modo da preservare un ragionevole equilibrio tra finalità solidaristiche e tutela della libertà di iniziativa economica, a salvaguardia della piccola imprenditorialità .
L’obbligo insorge, infatti, per i datori di lavoro pubblici e privati che occupano almeno quindici dipendenti, soglia oltre la quale la legge introduce una quota di riserva modulata: il 7% dei lavoratori occupati nelle aziende con oltre cinquanta dipendenti, ovvero un lavoratore nelle imprese con personale compreso fra quindici e trentacinque unità, e due per quelle tra trentasei e cinquanta. A questa quota si aggiunge, per i soli datori con più di cinquanta dipendenti, un ulteriore 1% riservato ai soggetti normodotati appartenenti alle categorie protette di cui all’art. 18 della legge (§ par.2).
L’estensione dell’obbligo di assunzione anche ai datori di lavoro con un organico compreso tra quindici e trentacinque dipendenti costituisce una delle innovazioni più rilevanti rispetto alla disciplina previgente. In origine, per questa fascia dimensionale, l’obbligo era subordinato alla realizzazione di una nuova assunzione , condizione che veniva tuttavia a configurarsi come aleatoria e potenzialmente dilatoria. Tale vincolo è stato definitivamente eliminato a decorrere dal 1° gennaio 2017, per effetto dell’art. 3, co. 1, del d.lgs. n. 151/2015, che ha abrogato l’art. 3, co. 2, della legge n. 68/1999 . Da quel momento, l’obbligo è divenuto pienamente operativo anche per le imprese medio-piccole, senza più alcuna condizione legata alla dinamica occupazionale, superando così un meccanismo che rischiava di ritardare indefinitamente — o addirittura vanificare — l’effettiva attuazione dell’inclusione lavorativa .
Sebbene il principio di proporzionalità si presenti, almeno sul piano teorico, quale strumento idoneo a bilanciare le esigenze di inclusione con quelle di sostenibilità economico-organizzativa, l’individuazione concreta della base occupazionale su cui calcolare la quota di riserva si è rivelata, nella prassi applicativa, uno degli snodi più problematici dell’intero sistema, tanto da richiedere ripetuti interventi correttivi da parte del legislatore .
Non di rado, infatti, la composizione dell’organico aziendale viene strategicamente modulata al fine di incidere indirettamente sull’entità dell’obbligo, sfruttando le categorie di lavoratori escluse dal computo. A conferma di tale dinamica, è sufficiente consultare i dati contenuti nella Relazione al Parlamento 2024 sull’attuazione della legge n. 68/1999, che evidenziano un crescente scarto tra la forza lavoro effettivamente impiegata e quella rilevante ai fini del calcolo della quota d’obbligo.
L’art. 4, co. 1, l. n. 68/1999 come modificato dall’art. 4, co. 27, lett. a), della l. n. 92/2012, prevede che il computo debba includere tutti i lavoratori subordinati a tempo indeterminato. Tuttavia, da tale base vanno esclusi – oltre ai soggetti già collocati ai sensi della medesima legge – anche i lavoratori con contratto a tempo determinato di durata non superiore a sei mesi , i dirigenti, i soci di cooperative di produzione e lavoro, i lavoratori impiegati temporaneamente all’estero, quelli a domicilio, i lavoratori somministrati presso utilizzatori , i soggetti coinvolti in attività socialmente utili (oggi riferibili a quelle di pubblica utilità ex art. 26 del d.lgs. n. 150/2015), i lavoratori aderenti a programmi di emersione dal lavoro nero (art. 1, co. 4-bis, l. n. 383/2001), nonché i lavoratori ammessi al telelavoro (strutturato) .
Tra le questioni più controverse emerse in merito alla determinazione della base di computo v’è quella relativa agli apprendisti . Questi ultimi, infatti, non figurano espressamente tra le categorie escluse ai sensi dell’art. 4, co. 1, l. n. 68/1999, ma sono qualificati come non computabili dall’art. 3, co. 1, del regolamento attuativo (d.p.r. n. 333/2000). Né l’inserimento di una clausola di salvaguardia nello stesso art. 4, che fa salve le esclusioni previste da normative settoriali, né i chiarimenti ministeriali sono stati sufficienti a dirimere la questione . Sul punto è, infine, intervenuta la Corte di cassazione che ha accolto l’impostazione – minoritaria in dottrina – che ritiene gli apprendisti soggetti computabili ai fini della determinazione della quota d’obbligo, valorizzando il carattere tassativo dell’elenco delle esclusioni contenuto nell’art. 4 e rilevando l’assenza, al suo interno, di un’esplicita menzione degli apprendisti .
Quanto ai lavoratori a tempo parziale, essi si computano in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno, mentre i lavoratori intermittenti sono computati nell’organico dell’impresa in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascuno semestre
Incide sulla base di calcolo della quota d’obbligo anche la disciplina relativa alla computabilità degli invalidi interni ovvero di coloro invalidatisi in costanza di rapporto o, dopo la modifica apportata dall’art. 4 d.lgs. n. 151/2015, degli invalidi già tali prima della costituzione del rapporto, ma assunti non per il tramite del collocamento mirato.
I primi sono computabili solo se la riduzione della capacità lavorativa è superiore al sessanta per cento in conseguenza di malattia o infortunio oppure quando sono divenuti inabili non per inadempimento datoriale in materia di sicurezza, accertato in sede giurisdizionale .
I lavoratori già disabili al momento dell’assunzione, invece, sono computati purché la riduzione della loro capacità lavorativa sia pari o superiore al 60%, a seguito di visita di accertamento dello stato invalidante, o siano presenti minorazioni ascritte dalla I alla VI categoria di cui alle tabelle annesse al d.p.r. n. 915/1978, o infine siano persone con disabilità intellettiva e psichica con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45% accertata dagli organi competenti .
La finalità sottesa a tali previsioni è quella di promuovere la continuità occupazionale delle persone con disabilità, valorizzando la permanenza nel lavoro anche in caso di sopravvenuta condizione invalidante o di aggravamento di una disabilità preesistente . Si tratta, in effetti, di un correttivo sistemico che affianca all’obbligo di assunzione una parallela responsabilità di mantenimento del rapporto, contribuendo a una lettura evolutiva e integrata della funzione del collocamento mirato . In questa prospettiva, il computo degli invalidi interni assume una funzione non meramente compensativa ma strutturale, giacché opera come strumento di razionalizzazione del vincolo occupazionale secondo un paradigma non più esclusivamente impositivo, bensì fondato su una responsabilità condivisa tra datore di lavoro e sistema pubblico.
Al contempo, a temperare la rigidità degli obblighi legislativi concorre un sistema composito di strumenti — in parte già presenti nella l. n. 482/1968 e successivamente rielaborati, in parte introdotti ex novo dalla l. n. 68/1999 — pensato per contrastare derive elusive e distorsioni applicative emerse in passato. Questo assetto rappresenta uno degli elementi qualificanti della flessibilità propria del collocamento mirato, che consente un’adeguata modulazione degli obblighi in funzione delle caratteristiche del datore di lavoro e del contesto organizzativo in cui opera, rappresentando un ulteriore tassello nella mediazione tra doveri di solidarietà sociale verso i soggetti svantaggiati e libertà di iniziativa economica privata .
Il primo istituto che rileva a tal fine è quello delle esclusioni dagli obblighi assunzionali di alcune categorie di datori di lavoro o di specifiche attività, in ragione della peculiare natura delle lavorazioni o delle condizioni organizzative che renderebbero impraticabile un’effettiva integrazione lavorativa dei soggetti tutelati .
Accanto alle esclusioni, la normativa (artt. 3, co. 5, l. n. 68/1999 e 4 del d.p.r. n. 333/2000) contempla l’ipotesi di sospensione temporanea degli obblighi di assunzione nei confronti delle imprese che versino in situazioni di eccedenza di personale, che ex se sono incompatibili con l’assunzione di ulteriori lavoratori in adempimento delle prescrizioni in materia . In tale prospettiva, è prevista la sospensione degli obblighi nei casi di ricorso alla CIGS , per tutta la durata dell’ammortizzatore sociale, relativamente all’ambito provinciale sul quale insiste l’unità produttiva interessata e con una modulazione proporzionale all’effettiva riduzione dell’attività lavorativa .
Tale disciplina va oggi letta anche alla luce della riforma degli ammortizzatori sociali contenuta nel d.lgs. n. 148/2015 come modificata dalla legge di bilancio 2022 (l. n. 234/2021) che ha ridefinito i requisiti di accesso alla CIGS (art. 21) e ne ha ulteriormente ampliato il perimetro, tanto oggettivo quanto soggettivo, nell’ottica di una progressiva universalizzazione delle tutele .
Più incisivo è il regime applicabile in caso di procedura di riduzione del personale disciplinata dagli artt. 4 e 24 della l. n. 223/1991. In tal caso, la sospensione, a differenza di ciò che succede per gli ammortizzatori sociali, non è soltanto in ambito provinciale nell’unità produttiva interessata ma, se l’azienda possiede più articolazioni sul territorio nazionale, la sospensione che è totale e non in proporzione rispetto ai lavoratori interessati, riguarda l’impresa nel suo complesso. Se al termine della procedura si registrano almeno cinque licenziamenti, l’avviamento dei lavoratori disabili resta sospeso fino a quando viene meno il suo diritto di precedenza alla riassunzione oggi regolato dall’art. 15, co. 6, l. n. 264/1949, per effetto dell’abrogazione dell’art. 8 l. n. 223/1991 ad opera della l. n. 92/2012 .
In quest’ipotesi è ben possibile che l’attivazione di una procedura di licenziamento collettivo che riguardi solo un’unità produttiva possa “congelare” l’intero obbligo assunzionale del datore di lavoro.
Un ulteriore strumento di modulazione ex lege dell’obbligo di assunzione è rappresentato dall’esonero parziale disciplinato dall’art. 5, co. 3, della l. n. 68/1999, il quale consente — al ricorrere di peculiari condizioni inerenti all’attività produttiva — un adempimento alternativo mediante la corresponsione di un contributo economico . Rispetto alla normativa precedente, fortemente esposta a utilizzi distorsivi, il legislatore del 1999 ha ristretto significativamente l’ambito applicativo dell’istituto, superando quelle prassi che permettevano di eludere l’obbligo riferito alle persone con disabilità mediante l’assunzione di soggetti normodotati appartenenti a categorie protette.
Nella configurazione attuale, l’esonero non si traduce più in un meccanismo sostitutivo, ma attribuisce ai datori di lavoro privati e agli enti pubblici economici — con esclusione delle pubbliche amministrazioni, per le quali il legislatore ha ritenuto incompatibile sia l’onerosità sia i presupposti applicativi dell’istituto — la facoltà di versare al Fondo regionale per l’occupazione dei disabili un contributo finanziario calcolato su base giornaliera, in una logica di compensazione solidaristica . Il datore di lavoro, pur non potendo procedere all’assunzione diretta, partecipa così al finanziamento delle politiche attive per l’inclusione lavorativa, contribuendo a un sistema di compensazione che, se efficacemente implementato, rafforza l’effettività degli obiettivi di integrazione occupazionale perseguiti dalla legge .
Proprio su questo piano si concentrano, però, le principali criticità. Una parte della dottrina ha evidenziato il rischio che l’istituto possa degenerare in una surrettizia monetizzazione dell’obbligo occupazionale, minandone la funzione sostanziale . Per contro, la rilevanza dell’onere economico richiesto e la sua destinazione vincolata al rafforzamento dei servizi e dei programmi regionali costituiscono elementi che, almeno in astratto, dovrebbero preservare la coerenza sistemica dell’esonero con i principi che informano la l. n. 68/1999 .
La tenuta di tale equilibrio dipende, in ultima analisi, dalla capacità del sistema pubblico di assicurare che le risorse confluite nel Fondo si traducano in effettive opportunità occupazionali per i destinatari della tutela.
Un’ulteriore ipotesi di esonero è prevista per i datori di lavoro privati e per gli enti pubblici economici che impiegano lavoratori in attività ad elevato rischio, individuate sulla base di un tasso di premio INAIL pari o superiore al 60 per mille (art. 5, co. 3-bis, introdotto dall’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 151/2015). In tale ipotesi, la ricorrenza dei presupposti legittimanti l’esonero è presunta ex lege, e l’attivazione dell’istituto avviene mediante autocertificazione del datore di lavoro .
Se, da un lato, tale disciplina risponde all’esigenza di semplificare gli adempimenti procedurali e al contempo di garantire livelli adeguati di tutela della sicurezza nei contesti produttivi più esposti, dall’altro lato essa accentua la necessità di un sistema di verifica ex post efficace e trasparente. In assenza di controlli sostanziali, infatti, si rischia che l’istituto venga strumentalizzato in chiave meramente formale, svuotandone la ratio compensativa sottesa.
Trattasi, in ogni caso, di un istituto connotato da elementi di parzialità, temporaneità e discrezionalità, caratteristiche puntualmente declinate nel regolamento attuativo di cui al d.m. 7 luglio 2000, n. 357. L’intento è chiaramente quello di circoscrivere l’ambito applicativo dell’istituto e di assicurare un vaglio rigoroso delle condizioni legittimanti, pur se la discrezionalità che inevitabilmente connota la valutazione delle “speciali condizioni dell’attività” per la concessione dell’esonero mantiene aperto un margine di incertezza applicativa, suscettibile di tradursi in prassi disomogenee e in spazi potenziali di elusione.
A fronte delle criticità appena evidenziate, non sorprende che la disciplina dell’esonero abbia subito un progressivo affinamento, sia sotto il profilo della procedura amministrativa sia in relazione ai meccanismi di controllo, con l’introduzione di strumenti volti a prevenire abusi e garantire la trasparenza del sistema . L’assegnazione alle Regioni di un ruolo regolativo nella gestione dei contributi conferma, poi, l’intento di radicare il funzionamento dell’istituto in una governance multilivello, in grado di raccordare le esigenze del tessuto produttivo locale con gli obiettivi generali di inclusione sociale.
Rimane, tuttavia, aperto il dibattito sull’efficacia deterrente di tale misura che dovrebbe essere interpretata in senso rigoroso e non come strumento generalizzato di alleggerimento dell’obbligo. In tal senso, l’ultima Relazione al Parlamento del 2024 evidenzia come il ricorso all’esonero resti ancora eccessivamente diffuso, richiamando la necessità di una maggiore attenzione nell’applicazione del meccanismo .
Infine, merita attenzione la previsione della cosiddetta compensazione territoriale, disciplinata dall’art. 5, co. 8, che consente ai datori di lavoro con più unità produttive di adempiere agli obblighi assunzionali in modo flessibile, distribuendo in maniera non uniforme le assunzioni tra le diverse sedi. Tale facoltà, estesa nel 2015 anche ai datori di lavoro pubblici, seppur entro i limiti geografici regionali , risponde ad esigenze organizzative delle imprese complesse. Tuttavia, tale facoltà rischia di favorire, in taluni contesti, una concentrazione “difensiva” delle assunzioni obbligatorie in sedi marginali o comunque non strategiche.

4. Il collocamento “mirato”: competenze, procedure, strumenti e controllo

4.1. Governance e procedure
L’art. 2 della l. n. 68/1999, nel definire la nozione di collocamento mirato, non si è limitato a delineare i nuovi obiettivi dell’obbligo di assunzione a carico del datore di lavoro, ma ha inteso altresì configurare un modello di governance del mercato del lavoro per le persone con disabilità articolato su due livelli distinti: da una parte, l’autorità e l’imparzialità dei servizi pubblici per il lavoro; dall’altra, la flessibilità e la discrezionalità della rete di soggetti coinvolti nell’inserimento lavorativo attraverso specifiche convenzioni (infra) .
L’architettura istituzionale delle competenze pubbliche in materia di collocamento mirato riflette la tensione – ancora irrisolta – tra l’esigenza di specializzazione delle politiche rivolte all’inclusione lavorativa delle persone con disabilità e il disegno di una governance unitaria delle politiche attive del lavoro.
Fin dall’introduzione della l. n. 68/1999, il legislatore ha configurato un modello in cui la gestione del collocamento dei disabili è stata affidata ai centri per l’impiego, considerati all’epoca articolazioni delle Province ai sensi del d.lgs. n. 469/1997 , in stretta sinergia con i servizi sociali, sanitari, educativi e formativi presenti sul territorio, ciascuno operante entro le proprie competenze specifiche . Questo assetto ha imposto, di fatto, un coordinamento con le diverse strutture regionali, chiamate a esercitare eventuali ulteriori e peculiari funzioni riconosciute dalle normative regionali . Tale organizzazione, improntata a una logica di decentramento, è rimasta sostanzialmente invariata fino alla riforma introdotta dal d.lgs. n. 150/2015 che, nel ridefinire il quadro complessivo delle politiche attive, ha abrogato integralmente il d.lgs. n. 469/1997, riattribuendo alle Regioni e alle Province autonome di Trento e Bolzano – e per delega ai centri per l’impiego – le funzioni di programmazione e gestione, inclusi i servizi di collocamento delle persone con disabilità, a cui si applicano le (nuove) disposizioni sui servizi per l’impiego, nella misura in cui risultano compatibili [artt. 11, co. 1, lett. d), e 18, co. 3, d.lgs. n. 150/2015] .
In questo scenario multilivello, il d.lgs. n. 151/2015 ha svolto una funzione di rafforzamento e razionalizzazione del sistema . L’art. 1 del decreto, rubricato “Collocamento mirato”, ribadisce la necessità di distinguere il collocamento delle persone con disabilità dalla generalità dei servizi per l’impiego, attribuendo ai “servizi per il collocamento mirato”, nel cui ambito territoriale ricade la residenza del soggetto disabile, la gestione degli elenchi e l’attività di avviamento obbligatorio . Si conferma, inoltre, nell’ambito di questi servizi, la presenza di un comitato tecnico composto da funzionari dei servizi medesimi e da esperti del settore sociale e medico-legale, con particolari competenze in tema di disabilità e con compiti di valutazione delle capacità lavorative, di definizione degli strumenti e delle prestazioni atti all’inserimento e di predisposizione dei controlli periodici sulla permanenza delle condizioni di disabilità [art. 8, co. 1-bis, d.lgs. n. 68/1999, come modificato dall’art. 7, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 151/2015]. In parallelo, le commissioni mediche (di cui all’art. 1, co. 4-6, l. n.68/1999) accertano, in una fase antecedente, la condizione di disabilità ai fini dell’accesso al sistema. Tale valutazione consente al centro per l’impiego di poter inserire il soggetto nell’apposito elenco costituito da un’unica graduatoria sulla base dei criteri definiti dalle Regioni, le quali dovranno tenere conto nell’attribuzione dei punteggi con priorità degli elementi indicati dall’art. 9, co. 3, d.p.r. n. 333/2000, quali l’anzianità di iscrizione negli elenchi del collocamento obbligatorio, condizioni economiche del soggetto, carico familiare, difficoltà di spostamento.
Questo doppio livello di accertamento ha spesso generato sovrapposizioni e rallentamenti, che sono ora oggetto di riforma ad opera del d.lgs. n. 62/2024, che come già detto, ha avviato di revisione delle procedure di valutazione della condizione di disabilità, con l’obiettivo, ancora in fase di attuazione, di giungere a un accertamento unitario e multidimensionale affidato interamente all’INPS, coerentemente con l’impostazione bio-psico-sociale della Convenzione ONU del 2006.
A livello procedurale, invece, la l. n. 68/1999 conserva una struttura fortemente vincolistica e amministrativa che coinvolge, con diversi obblighi e adempimenti, sia i datori di lavoro che le persone con disabilità.
L’accesso al sistema non è automatico, ma per essere inseriti negli elenchi del collocamento mirato, è necessario che il soggetto disabile, in possesso dei requisiti di cui all’art. 1, co. 1, l. n. 68/1999 (supra) manifesti espressamente la propria volontà di attivarsi per la ricerca di un’occupazione, iscrivendosi presso i centri per l’impiego e dichiarando la propria immediata disponibilità al lavoro e alla partecipazione a misure di politica attiva . Questo approccio, anch’esso rafforzato dal d.lgs. n. 150/2015 attraverso l’introduzione del Patto di servizio personalizzato, si fonda sull’idea che la persona disabile non sia un soggetto passivo del collocamento, ma debba assumere un ruolo attivo nel proprio percorso di inserimento lavorativo .
Quanto ai datori di lavoro, l’obbligo di assunzione comporta l’invio di una richiesta di avviamento entro 60 giorni dal raggiungimento della soglia dimensionale. La richiesta di avviamento può considerarsi presentata anche solo attraverso la trasmissione del prospetto informativo di cui all’art. 9, co. 6 (infra), determinando una sorta di commistione tra i due atti, che, in linea teorica, rappresentano documenti diversi con contenuti e finalità differenti, l’uno che consiste in un vero e proprio atto di impulso e condizione necessaria per l’invio dei lavoratori disabili da parte degli uffici competenti e l’altro di carattere meramente ricognitivo e dichiarativo . Una sovrapposizione che, tuttavia, rimane residuale posto che il prospetto vale anche come richiesta di avviamento solo nel caso in cui questa non sia stata autonomamente e tempestivamente presentata .
Sul piano sostanziale, il d.lgs. n. 151/2015 ha generalizzato la c.d. richiesta nominativa dei lavoratori da assumere per tutti i datori di lavoro privati e per gli enti pubblici economici, sia in caso di avviamento c.d. ordinario sia mediante convenzione, con la precisazione che, a discrezione del datore di lavoro, può essere preventivamente richiesto agli uffici competenti di effettuare una preselezione delle persone con disabilità iscritte in graduatoria che aderiscono alla specifica occasione di lavoro sulla base delle qualifiche possedute e secondo modalità concordate tra gli uffici e il datore di lavoro, al fine di consentire una migliore selezione della persona più adatta all’assunzione. Una volta che il datore di lavoro ha presentato una richiesta di avviamento nominativa nel termine di legge, il servizio, nel successivo termine di trenta giorni, deve verificare la sussistenza delle condizioni che consentano l’avviamento medesimo con particolare attenzione al profilo della compatibilità delle mansioni assegnate con le risultanze della diagnosi funzionale e della valutazione bio-psico-sociale della persona con disabilità .
Tale opzione, se da un lato risponde all’esigenza di favorire un matching più efficiente tra domanda e offerta in aderenza allo spirito del collocamento mirato volto all’inserimento lavorativo “della persona giusta al posto giusto”, dall’altro rischia di alimentare pratiche selettive a danno delle persone con disabilità più gravi. In assenza di una quota riservata esplicitamente a tali soggetti, il sistema si espone al rischio di escludere proprio coloro che avrebbero maggiore necessità di tutela. Anche se occorre precisare che già prima di tale intervento riformatore l’art. 9, co. 4, l. n. 68 /1999, prevedeva (e prevede) che i disabili psichici, che rappresentano i casi più gravi e di difficile inserimento sociale, vengono avviati su richiesta nominativa e mediante le convenzioni di cui all’art. 11 (infra) .
Decorso il termine di legge per procedere all’assunzione nominativa, gli uffici competenti avviano i lavoratori secondo l’ordine di graduatoria per la qualifica richiesta o altra specificamente concordata con il datore di lavoro sulla base delle qualifiche disponibili. In tal caso, l’avviamento numerico diventa l’unica modalità assunzionale per l’assolvimento dell’obbligo.
Ulteriori criticità interpretative derivano dall’abrogazione del comma 2 dell’art. 9 l. n. 68/1999, disposizione che, pur avendo generato in passato un rilevante contenzioso giurisprudenziale in ordine alla legittimità del rifiuto datoriale di assumere lavoratori disabili avviati d’ufficio per mancata corrispondenza con la qualifica richiesta , rappresentava un presidio normativo significativo nelle ipotesi di chiamata numerica . La sua soppressione è giustificata dalla generalizzazione della chiamata nominativa, ma lascia un vuoto regolativo nei casi di chiamata numerica laddove lascia intendere che, qualora non siano presenti in graduatoria soggetti con caratteristiche pienamente rispondenti a quelle indicate dal datore di lavoro, gli uffici non siano più tenuti – come avveniva in precedenza – a procedere all’invio di lavoratori con profili simili, anche attraverso percorsi di addestramento o tirocinio . Deve escludersi, in ogni caso, che l’eliminazione di tale previsione possa legittimare l’invio indiscriminato da parte degli uffici di un qualunque soggetto iscritto negli elenchi, giacché una simile soluzione si porrebbe in evidente contrasto con la ratio sottesa all’istituto del collocamento mirato, la quale esige che i lavoratori da avviare siano selezionati sulla base delle esigenze specificamente manifestate dal datore di lavoro né si può ipotizzare che in siffatte ipotesi si esoneri il datore di lavoro dall’obbligo assunzionale . Ne consegue che, nell’ipotesi in cui non vi siano nelle liste lavoratori in possesso delle caratteristiche indicate, l’ufficio competente deve comunque invitare il datore di lavoro a concordare la qualifica e una volta concordata, deve comunicare la modalità e la tempistica dell’avviamento (in aderenza a quanto previsto dall’art. 7, co. 1-bis, l. n. 68/1999 post novella del 2015) .

4.2 Il modello convenzionale
Alla tradizionale struttura pubblicistica del collocamento obbligatorio, la l. n. 68/1999 ha affiancato una serie di strumenti di matrice privatistica, volti a introdurre modalità più flessibili e negoziali di assolvimento dell’obbligo di assunzione. In tale prospettiva, il legislatore ha valorizzato il ricorso alle convenzioni , concepite come strumenti di gestione consensuale dell’inserimento lavorativo, attraverso cui il datore di lavoro e i servizi per l’impiego possono concordare modalità e tempistiche dell’assunzione, adattandole tanto alle residue capacità lavorative del soggetto disabile quanto alle esigenze organizzative dell’impresa . Si tratta, in sostanza, di una logica premiale, fondata sull’idea che l’obbligo di assunzione non debba esaurirsi in un atto impositivo, bensì trasformarsi in un percorso negoziato volto a favorire un inserimento effettivo e duraturo .
Non a caso, tali convenzioni sono state definite come una delle «parti più innovative e qualificanti della riforma del diritto al lavoro dei disabili» , poiché rappresentano, all’interno del loro «contenitore ampio e flessibile», la transizione dal collocamento obbligatorio al collocamento mirato, costituendo così una «chiave interpretativa» dell’intero sistema di tutele delineato dalla legge .
Occorre inoltre segnalare che, prima della modifica legislativa del 2015, le convenzioni ex art. 11 rappresentavano l’unico canale di accesso agli incentivi previsti dall’art. 13 della l. n. 68/1999 (infra) e continuano tuttora a costituire lo strumento esclusivo per l’inserimento dei lavoratori con disabilità psichica (art. 9, co. 4, l. n. 68/1999) .
Il sistema delle convenzioni si è progressivamente articolato in più tipologie, disciplinate da una pluralità di disposizioni: agli artt. 11, 12 e 12-bis della l. n. 68/1999 si affianca, infatti, l’art. 14 del d.lgs. n. 276/2003 che introduce una ulteriore modalità di attuazione del collocamento mirato attraverso la cooperazione tra soggetti pubblici, parti sociali e cooperative sociali di tipo B .
Il modello convenzionale delineato dall’art. 11 della l. n. 68/1999 costituisce la forma “ordinaria” di programmazione dell’inserimento, fondata su un piano pluriennale condiviso tra servizi per il collocamento mirato e datori di lavoro pubblici o privati. Tali convenzioni consentono di definire tempi e modalità di assunzione, periodi di prova più lunghi rispetto ai contratti collettivi, utilizzo di tirocini e contratti a termine, nonché l’impiego dell’apprendistato oltre i limiti di età , sulla scorta delle esigenze datoriali. Questo strumento convenzionale è stato identificato come il principale mezzo attraverso il quale il legislatore ha inteso attuare il collocamento mirato dei lavoratori disabili .
Nell’art. 11 si rinvengono altre due tipologie convenzionali: quella destinata all’integrazione lavorativa delle persone con particolari difficoltà di inserimento, tra cui i disabili psichici (comma 4) e quella “di inserimento mirato” (comma 5) rivolta a sostenere soggetti terzi, quali cooperative sociali di tipo B, consorzi di cooperative sociali, centri di formazione professionale, associazioni e organizzazioni di volontariato e altri soggetti idonei a realizzare gli obiettivi della l. n. 68/1999 che svolgono attività di inserimento lavorativo dei soggetti disabili. Quest’ultima ipotesi rappresenta una sorta di strumento di chiusura del sistema, da attivarsi laddove tutte le altre modalità risultino inadeguate .
Il secondo modello di convenzione “di inserimento lavorativo temporaneo con finalità formative” (art. 12), prevede l’assunzione a tempo indeterminato da parte del datore obbligato con contestuale distacco presso soggetti ospitanti (cooperative sociali, imprese sociali, liberi professionisti disabili, datori non soggetti all’obbligo). Il datore di lavoro si impegna a conferire commesse o incarichi (coprendo almeno i costi del lavoro e le spese di inserimento) e a garantire un «percorso formativo personalizzato» .
La disposizione, nonostante i correttivi, è rimasta pressoché lettera morta, in quanto, alla prova dei fatti, il meccanismo previsto, troppo complesso e rigido, non si è rivelato conveniente né per i datori obbligati, né per le cooperative sociali (e gli altri soggetti assimilabili). Per quanto riguarda i datori di lavoro, le convenzioni ex art. 12 hanno durata troppo breve per «ammortizzarne i costi di transazione» e quelli di formazione, e impongono l’immediata assunzione del disabile (che poi dovrà essere addestrato altrove). Quanto alle cooperative sociali, la loro attività è assai penalizzata dall’eccessivo turnover indotto dalla brevità degli inserimenti .
Più recente è, invece, la convenzione ex art. 12-bis – inserita dalla l. n. 247/2007 contestualmente all’abrogazione temporanea dell’art. 14 del d.lgs. n. 276/2003 – che delinea un percorso graduale di assunzione. A differenza del modello previsto dall’art. 12, in questo caso l’obbligo di assunzione non è immediato, ma differito e, soprattutto, eventuale, in quanto subordinato alla scelta discrezionale del datore di lavoro. Ne deriva che, per l’intera durata della convenzione, l’obbligo assunzionale grava sul soggetto ospitante, mentre il datore di lavoro obbligato può temporaneamente sospendere l’adempimento della quota di riserva, in attesa della propria decisione finale . La convenzione, in ogni caso, è ammessa solo in presenza di specifiche condizioni, tra cui la particolare difficoltà di inserimento nel ciclo lavorativo ordinario e un limite quantitativo – non superiore al 10% della quota d’obbligo – per i datori di lavoro con oltre 50 dipendenti.
Infine, l’art. 14 del d.lgs. n. 276/2003 ha introdotto un’ulteriore forma convenzionale, con la finalità di correggere le disfunzionalità rilevate nella prassi applicativa dell’art. 12 della l. n. 68/1999. Tale norma prevede la possibilità di stipulare convenzioni quadro su base territoriale, mediante l’intervento congiunto degli uffici pubblici competenti, delle parti sociali e delle rappresentanze delle cooperative sociali per l’inserimento di lavoratori svantaggiati . L’inserimento del lavoratore disabile avviene in questo caso esclusivamente presso cooperative sociali di tipo B, cui i datori di lavoro privati conferiscono commesse, in cambio dell’esonero dal corrispondente obbligo di assunzione.
Questo modello si distingue dagli altri analizzati per una maggiore flessibilità operativa e per un contenimento dei costi, determinato anche dall’applicazione del contratto collettivo delle cooperative sociali che abbassa il costo del lavoro e, conseguentemente, il valore delle commesse che le imprese sono tenute a conferire .
Se la convenzione è un elemento di indubbia novità nel sistema del collocamento mirato, il suo ricorso è abbastanza limitato, coprendo solo il 50% degli avviamenti di persone disabili; per altro verso le convenzioni di cui all’art. 11, co.1, l. n. 68/1999 ammontano a più del 95% di tutte quelle utilizzate con una distribuzione geografica percentualmente uniforme su tutto il territorio, relegando in un ruolo decisamente marginale tutte le altre, ad accezione di quelle ex art. 14 d.lgs. n. 276/2003 che registrano un aumento costante soprattutto nelle regioni settentrionali .
Ciò dimostra che lo strumento convenzionale viene ancora percepito dalle imprese come un mezzo per liberarsi dell’obbligo assunzionale piuttosto che come strumento utile per sviluppare un percorso di inserimento che aiuti a comprendere quali attività e mansioni richiedere a un lavoratore disabile da inserire nel proprio contesto organizzativo, decretando il fallimento del tentativo del legislatore di mettere in contatto, attraverso questo modello, il sistema vincolistico del collocamento mirato con quello promozionale .

4.3 L’apparato incentivante
All’interno della normativa in materia di collocamento mirato delle persone con disabilità, le misure economiche di sostegno – rivolte tanto ai datori di lavoro quanto ai lavoratori – si articolano prevalentemente in un sistema di agevolazioni e incentivi all’assunzione .
Nell’impianto normativo originario, gli incentivi alle imprese per promuovere e favorire il rispetto degli obblighi derivanti dalla legge erano previsti in misura modesta e soprattutto legati alle assunzioni dei disabili gravi tramite lo strumento della convenzione (supra) .
L’intervento di riforma del 2015 ha modificato in modo significativo l’art. 13 della l. n. 68/1999, riportando in primo piano una logica di incentivo proporzionato alla durata dell’occupazione – ricalcando, per certi versi, l’impostazione iniziale della legge – in sostituzione della previsione di un premio una tantum introdotto dalla l. n. 247/2007.
Gli incentivi previsti dal riformato art. 13 sono temporalmente limitati (fino a un massimo di 36 mesi) e modulati in funzione del grado di riduzione della capacità lavorativa residua del soggetto assunto: una prima fascia per i lavoratori con invalidità superiore al 79% e una seconda per coloro con invalidità compresa tra il 67% e il 79% . Tali misure sono, inoltre, condizionate all’assunzione a tempo indeterminato, a conferma della preferenza legislativa per forme contrattuali stabili in grado di assicurare la continuità del rapporto di lavoro anche oltre la durata dell’incentivo.
Per quanto riguarda i lavoratori con disabilità intellettiva o psichica, - la cui assunzione può avvenire esclusivamente tramite le convenzioni di cui all’art. 11 - il beneficio è riconosciuto sia per i rapporti a tempo indeterminato (con durata dell’incentivo pari a 60 mesi), sia per quelli a tempo determinato di almeno 12 mesi (per l’intera durata del contratto), con ciò legittimando l’impiego del contratto a termine subordinatamente all’adozione del modello convenzionale.
Presupposto per l’accesso agli incentivi è la presentazione di apposita istanza da parte del datore di lavoro, nonché la disponibilità delle risorse finanziarie necessarie alla loro erogazione. Il riconoscimento del beneficio avviene a cura dell’INPS mediante conguaglio, sulla base delle denunce contributive mensili presentate dai datori di lavoro, consentendo in tal modo un maggiore controllo e una più puntuale allocazione delle risorse rispetto al passato.
La finalità degli incentivi previsti dall’art. 13 non si limita a sostenere l’adempimento dell’obbligo occupazionale, ma si estende – ai sensi del comma 3 – anche ai datori di lavoro privati non soggetti agli obblighi della l. n. 68/1999, qualora procedano volontariamente all’assunzione di lavoratori con disabilità e ne facciano apposita richiesta. In tal modo, il legislatore ha inteso favorire una più ampia diffusione delle politiche di inclusione lavorativa, premiando anche le condotte spontaneamente inclusive e promuovendo una cultura del lavoro aperta alla partecipazione delle persone con disabilità, oltre i vincoli meramente obbligatori.
In un’ottica di rafforzamento e razionalizzazione degli strumenti di sostegno, la riforma del 2015 ha inoltre introdotto un significativo riassetto nella gestione delle risorse finanziarie destinate agli incentivi. Attraverso il riaccentramento statale della gestione nel Fondo per il diritto al lavoro dei disabili , si è inteso garantire una distribuzione più equa e omogenea delle risorse sul territorio nazionale, prevenendo eventuali abusi o inefficienze nella gestione da parte degli enti territoriali . Questo intervento ha superato il precedente sistema, basato sul riparto annuale dei fondi dallo Stato alle Regioni e sull’erogazione consuntiva in funzione delle assunzioni effettuate nell’anno precedente, sostituendolo con un meccanismo di fruizione automatica e immediata degli incentivi.
Nell’ambito di questo complessivo apparato di strumenti economici volti a favorire l’occupazione delle persone con disabilità, un ulteriore segmento incentivante è costituito dai rimborsi forfetari – seppur parziali e non predeterminati normativamente – erogati dai Fondi regionali per l’occupazione dei disabili. Tali rimborsi sono destinati ai datori di lavoro che sostengano spese per l’adozione di accomodamenti ragionevoli, quali le tecnologie di telelavoro o le misure per l’abbattimento delle barriere architettoniche che ostacolano l’integrazione lavorativa della persona con disabilità. Interventi che, nel sistema previgente, erano finanziati direttamente dal Fondo per il diritto al lavoro dei disabili di cui all’art. 13 della l. n. 68/1999.
Previsti dall’art. 14, co. 4, lett. b), della l. n. 68/1999, tali rimborsi si affiancano agli incentivi statali ex art. 13, costituendo una misura volta a rimuovere gli ostacoli materiali all’inclusione lavorativa, specie nei confronti dei lavoratori con una riduzione della capacità lavorativa superiore al 50%.
Questa misura economica può essere ricondotta alle azioni compensative dell’obbligo di accomodamento ragionevole previste dalla parte finale dell’art. 5 della Dir. 2000/78/CE e dallo stesso Reg. (UE) n. 651/2014. Tuttavia, la sua applicazione concreta solleva non pochi interrogativi.
In primo luogo, a differenza degli incentivi di cui all’art. 13, il rimborso per gli accomodamenti ragionevoli è gestito a livello regionale, senza l’imposizione di criteri uniformi o vincoli normativi specifici. Ne deriva un sistema frammentato, suscettibile di generare significative disparità territoriali, anche sotto il profilo dell’ammontare riconosciuto. In secondo luogo, la natura parziale e posticipata del rimborso obbliga il datore di lavoro a decidere se procedere o meno con l’accomodamento in base alla propria capacità finanziaria, in assenza di certezze riguardo all’effettività, all’entità e ai tempi dell’eventuale ristoro. A ciò si aggiunge la criticità strutturale rappresentata dall’incertezza delle risorse disponibili, giacché il Fondo regionale non è alimentato da stanziamenti statali, ma dalla riscossione delle sanzioni amministrative e dei contributi esonerativi che possono essere agevolmente eluse o non versate con sufficiente tempestività. Infine, appare discutibile la previsione secondo cui il rimborso è riservato esclusivamente ai disabili con una percentuale di invalidità superiore al 50%, soglia che non coincide necessariamente con le situazioni di maggiore gravità, né consente di estendere l’ambito della tutela alle disabilità più complesse in senso funzionale, indipendentemente dal mero dato quantitativo della percentuale d’invalidità.

4.4. Monitoraggio e trasparenza nel collocamento mirato
Nel solco delle trasformazioni normative più recenti, l’obiettivo dichiarato di rafforzare l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità ha trovato attuazione non solo attraverso misure sostanziali, ma anche tramite il progressivo affinamento degli strumenti di controllo e di monitoraggio.
In tale prospettiva, il sistema delineato dalla l. n. 68/1999 è stato oggetto di un rilevante processo di razionalizzazione e sistematizzazione delle fonti informative, finalizzato a superare una logica meramente adempitiva e frammentata, in favore di un impianto strutturalmente orientato alla trasparenza e alla valutazione ex post delle politiche pubbliche.
Tra gli strumenti funzionali a tale obiettivo, va annoverato il Prospetto Informativo Disabili (PID) – disciplinato dall’art. 9, co. 6, l. n. 68/1999 e dalle modalità operative stabilite con d.i. 2 novembre 2010 – che costituisce un obbligo in capo ai datori di lavoro con almeno quindici dipendenti, tenuti a comunicare annualmente la propria situazione occupazionale, comprensiva del numero complessivo di dipendenti, dei lavoratori computabili nella quota di riserva, nonché delle mansioni disponibili per soggetti appartenenti alle categorie protette . La trasmissione, in modalità esclusivamente telematica, deve avvenire entro il 31 gennaio di ogni anno con riferimento alla situazione al 31 dicembre precedente , salvo che non siano intervenute variazioni significative rispetto all’ultimo invio che influiscano sull’entità della quota di assunzioni obbligatorie da effettuare .
Questo adempimento, apparentemente tecnico e routinario, riveste un ruolo strategico nel nuovo disegno normativo introdotto dal d.lgs. n. 151/2015, il quale ha significativamente riformato l’art. 9 della l. n. 68/1999, istituendo, nell’ambito della Banca dati delle politiche attive e passive, una specifica sezione dedicata al collocamento mirato denominata Banca dati del collocamento mirato (comma 6-bis). La finalità dichiarata è quella di razionalizzare e integrare i flussi informativi provenienti dai diversi soggetti istituzionali coinvolti, nonché dai datori di lavoro pubblici e privati, al fine di migliorare il monitoraggio degli obblighi occupazionali e la qualità della valutazione degli interventi di politica attiva. In questo senso, il Prospetto Informativo non rappresenta un documento a sé stante, ma costituisce uno dei flussi informativi primari che alimentano tale banca dati, come espressamente previsto dal d.m. 29 dicembre 2021, che individua anche le ulteriori informazioni che i datori di lavoro obbligati devono trasmettere, tra cui gli accomodamenti ragionevoli adottati (art. 3, co. 3-bis, d.lgs. n. 216/2003), gli esoneri autocertificati (art. 5, co. 3-bis, l. n. 68/1999), nonché le comunicazioni dei tempi e modalità della copertura della quota di riserva ex art. 39-quater d.lgs. n. 165/2001 introdotto dall’ art. 10, d.lgs. n. 75/2017 .
Gli uffici competenti comunicano, invece, le informazioni relative alle sospensioni dagli obblighi occupazionali, agli esoneri parziali autorizzati, alle convenzioni di cui agli artt. 11, 12 e 12-bis della stessa legge 68 e alle convenzioni di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 276/2003, nonché le informazioni relative ai soggetti iscritti negli elenchi del collocamento mirato, le schede previste e gli avviamenti effettuati.
Inoltre, la Banca dati viene ulteriormente alimentata dall’INPS, con riferimento sia alle informazioni relative agli incentivi di cui il datore di lavoro beneficia ai sensi dell’art. 13 sia alle informazioni pertinenti ed indispensabili per le finalità di inserimento lavorativo contenute nel verbale di accertamento delle condizioni di disabilità; dall’INAIL, con riferimento alle informazioni relative agli interventi in materia di reinserimento e di integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro e dalle Regioni e dalle Province Autonome di Trento e Bolzano, con riferimento ai dati relativi agli incentivi e alle agevolazioni in materia di collocamento delle persone con disabilità erogate sulla base di disposizioni regionali, anche ai sensi dell’art. 14 della l. n. 68/99.
Ciò che emerge è una chiara volontà del legislatore non solo di rafforzare i controlli, ma di costruire una infrastruttura informativa unitaria e interoperabile, capace di abilitare una governance basata sull’evidenza e sul monitoraggio continuativo. Tuttavia, permane una tensione irrisolta tra la funzione statistico-programmatoria di tale sistema e la sua effettiva capacità di orientare i comportamenti dei datori di lavoro. In assenza di un’effettiva integrazione tra adempimenti informativi, sanzioni e misure di accompagnamento all’inserimento lavorativo, il rischio è che il sistema si limiti a produrre dati, senza riuscire a incidere sulle prassi organizzative e sui meccanismi decisionali che ostacolano, ancora oggi, la piena inclusione lavorativa delle persone con disabilità.

4.5. Il sistema sanzionatorio

Innovativo rispetto al previgente assetto è il regime sanzionatorio introdotto dalla l. n. 68/1999 caratterizzato da un’ampia depenalizzazione e incentrato su sanzioni di tipo amministrativo . In particolare, l’art. 15 individua due distinte fattispecie di illecito amministrativo : l’omesso o tardivo invio del prospetto informativo annuale e la mancata copertura della quota d’obbligo .
Con riguardo alla prima ipotesi, il comma 1 dell’art. 15 stabilisce una sanzione pecuniaria amministrativa, aggiornata a far data dal 1° gennaio 2022 con d.m. n. 194 del 30 settembre 2021, in misura fissa pari ad € 702,43 e ad € 34,02 per ogni giorno di ulteriore ritardo . Tale sanzione è espressamente riferita alle sole “imprese private” e agli “enti pubblici economici”, con esclusione dei datori di lavoro pubblici non economici e dei soggetti privati non imprenditori. Questa limitazione soggettiva si pone in potenziale contrasto con quanto previsto dall’art. 9, co. 6, della medesima legge, che stabilisce l’obbligo generalizzato di trasmissione del prospetto a carico di tutti i datori di lavoro, pubblici e privati. Ne risulta una disomogeneità normativa che ha generato incertezza applicativa, inducendo parte della dottrina e della prassi a ritenere insussistente l’obbligo sanzionabile per alcune categorie di datori formalmente tenute all’invio del prospetto, ma non espressamente ricomprese tra i soggetti sanzionabili .
Di diversa natura è la sanzione prevista per la violazione dell’obbligo di assunzione, che si configura come illecito istantaneo a effetti permanenti, perfezionandosi nel momento in cui il datore di lavoro non procede alla copertura della quota riservata . L’importo della relativa sanzione è pari a 212,00 euro per ogni giorno lavorativo e per ciascun lavoratore disabile non occupato, corrispondente a cinque volte l’importo giornaliero del contributo esonerativo ex art. 5, co. 3 . Diversamente dalla sanzione per omesso prospetto, tale misura si applica senza distinzioni soggettive, coinvolgendo tutti i datori di lavoro, pubblici e privati, imprenditori e non, con evidente asimmetria rispetto alla precedente previsione. Tuttavia, l’individuazione della responsabilità datoriale in relazione alla quota scoperta non è sempre agevole, in ragione della varietà di strumenti previsti dalla legge per adempiere agli obblighi (assunzione diretta, convenzioni di integrazione lavorativa, convenzioni di inserimento mirato, ecc.), che rendono necessario un accertamento puntuale della condotta omissiva.
Infine, un’ulteriore ipotesi sanzionatoria è prevista per le imprese che, avvalendosi dell’istituto dell’esonero parziale (art. 5, co. 3-7), omettano in tutto o in parte il versamento del contributo esonerativo. In tali casi, oltre all’obbligo di versamento della somma originaria, il datore è tenuto al pagamento di una maggiorazione annua compresa tra il 5% e il 24%, proporzionale al ritardo e all’entità dell’inadempimento. La persistente inottemperanza determina, inoltre, la decadenza dall’autorizzazione all’esonero, cui consegue l’impossibilità per l’impresa di presentare una nuova istanza per i dodici mesi successivi alla decadenza.
A rimanere, tuttavia, incerto è il quadro delle tutele civilistiche riconosciute alla persona con disabilità nel caso in cui il datore rifiuti l’assunzione obbligatoria. Si tratta di una questione che aveva già animato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale durante la vigenza della l. n. 482/1968 e che non è stata affrontata in modo esplicito dal legislatore del 1999, nonostante l’ampio intervento riformatore sul sistema delle assunzioni obbligatorie.
Nel contesto della legge del 1968, l’orientamento giurisprudenziale prevalente escludeva la possibilità di una costituzione ope iudicis del rapporto di lavoro , rilevando come mancassero gli elementi essenziali necessari per l’applicazione dell’art. 2932 c.c., il quale postula la determinazione – o almeno la determinabilità – del contenuto del contratto da stipulare . In tali ipotesi, l’unico rimedio riconosciuto alla persona esclusa era il risarcimento del danno da inadempimento commisurato, secondo i criteri di cui agli artt. 1226 e 1227 c.c., alle retribuzioni perse fino a un eventuale nuovo avviamento, con decurtazione dell’aliunde perceptum .
Nel sistema delineato dalla l. n. 68/1999, il quadro appare in parte mutato. La procedura preassuntiva – articolata nella presentazione del prospetto informativo e nella richiesta di avviamento – consente infatti di individuare una manifestazione inequivoca di volontà del datore di lavoro in ordine alla futura costituzione del rapporto. In particolare, la specificazione della qualifica richiesta (contenuta nella richiesta di avviamento) e delle mansioni disponibili (che vanno precisate nel prospetto), può soddisfare il requisito della determinabilità del contenuto contrattuale ai sensi dell’art. 2932 c.c. . In tale prospettiva, la mancata assunzione del lavoratore avviato potrebbe dar luogo non solo a responsabilità risarcitoria, ma anche – quantomeno in astratto – alla possibilità di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre .
Tuttavia, nonostante questa possibile apertura sistematica, la giurisprudenza non ha fornito un orientamento consolidato in merito all’applicabilità dell’art. 2932 c.c. in questo ambito, né il legislatore è intervenuto a colmare l’incertezza con la conseguenza che il riconoscimento del diritto alla costituzione coattiva del rapporto rimane affidato alla valutazione del giudice, con esiti spesso disomogenei.

5. Osservazioni conclusive

L’analisi del collocamento mirato rivela una tensione sistemica irrisolta tra l’ambizione assiologica del legislatore e le modalità operative mediante le quali tale ambizione è stata declinata sul piano normativo e attuativo. Più che un difetto di volontà politica o di stratificazione normativa, ciò che emerge è l’incapacità dell’ordinamento di produrre meccanismi coerenti rispetto al paradigma che esso stesso afferma ovvero quello di una tutela fondata non sulla mera invalidità certificata, ma sull’effettiva capacità di partecipazione lavorativa, mediata da accomodamenti ragionevoli e dispositivi flessibili.
Questo iato tra norma e prassi non è il frutto di inerzie occasionali, ma l’effetto strutturale di una legislazione che, pur dichiarandosi inclusiva, continua a essere innervata da categorie classificatorie e filtri valutativi rigidi, ancorati a logiche medico-legali ormai superate dalla definizione di disabilità affermata a livello sovranazionale. L’adozione del modello bio-psico-sociale da parte del d.lgs. n. 62/2024, pur non incidendo formalmente sulla l. n. 68/1999, determina un inevitabile corto circuito: la ridefinizione dei presupposti di tutela e dei criteri valutativi rischia di rendere inoperanti i meccanismi selettivi tradizionali, lasciando priva di riferimenti certi l’applicazione concreta delle misure di collocamento.
In tale contesto, l’attuale modello di collocamento mirato delineato dalla l. n. 68/1999 dovrà necessariamente essere integrato e adattato alle nuove regole introdotte nel 2024, per evitare qualsiasi contrasto tra l’ambito soggettivo di applicazione formale della normativa e il quadro assiologico e giuridico superiore ormai consolidato in tema di disabilità.
Si impone, allora, una riflessione di sistema. Non si tratta più di correggere lacune o rafforzare strumenti esistenti, ma di interrogarsi sulla compatibilità dell’intero impianto normativo con il paradigma sociale della disabilità che richiede l’individuazione di canali prioritari in grado di superare le barriere atte ad ostacolare una completa interazione tra persona e ambiente. Dal punto di vista giuridico, tale condizione acquisisce rilevanza poiché implica la necessità di un sistema integrato di tutele differenziate, mirate a garantire l’inclusione sociale, assistenziale, lavorativa e scolastica delle persone svantaggiate per motivi fisici o psichici.
Il collocamento mirato, per come attualmente strutturato, appare incapace di assolvere a questa funzione, finendo per riprodurre – sotto forma di tecnicismi procedurali – nuove forme di esclusione o di marginalizzazione occupazionale.
Il ricorso a strumenti come il contributo esonerativo, le compensazioni territoriali e l’esternalizzazione convenzionale degli obblighi assunzionali segnala la permanenza di una logica deflattiva, in cui l’onere dell’inclusione può essere economicamente trasferito o geograficamente dislocato, con scarse garanzie di effettività. Più che a una responsabilità collettiva di sistema, l’inclusione lavorativa è ancora troppo spesso demandata alla buona volontà del singolo datore o all’efficienza dell’apparato locale.
Il diritto al lavoro delle persone con disabilità, se vuole essere effettivamente tale, richiede invece un approccio olistico: da sistema compensativo a sistema abilitante, capace di mettere al centro non la misura del danno o la percentuale dell’invalidità, ma le condizioni ambientali, organizzative e relazionali che rendono possibile – o impediscono – la partecipazione.
Ciò comporta non soltanto una revisione tecnica della l. n. 68/1999, ma un ripensamento dell’intero impianto delle politiche attive, dei servizi per l’impiego, dei percorsi formativi, e dei meccanismi di accertamento e valutazione, del coinvolgimento del Terzo settore, in un’ottica pienamente convergente con il diritto antidiscriminatorio europeo.
In definitiva, la sfida dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità non si gioca più sul terreno del riconoscimento normativo, ormai acquisito, ma su quello dell’effettività dei diritti. E l’effettività, in questo campo, si misura non tanto nella coerenza delle regole quanto nella loro capacità di incidere sulle diseguaglianze strutturali che ancora ostacolano la piena cittadinanza lavorativa delle persone con disabilità.

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