testo integrale con note e bibliografia
1. Le definizioni di Lavoro, Disabilità e Intelligenza Artificiale. La neutralità dei sistemi d’Intelligenza Artificiale nella definizione adottata dal Regolamento (UE) 2024/1689
Una breve trattazione dell’impatto dell’Intelligenza Artificiale nei confronti delle persone con disabilità presuppone che si adottino definizioni di cosa si intende per lavoro, per disabilità e per Intelligenza Artificiale (d’ora in poi AI), e impone però anche di circoscrivere l’impianto di questo contributo. Le finalità assegnate consistono nel mettere a fuoco la condizione del lavoratore nelle situazioni in cui l’AI interferisca o interagisca con il lavoro, con l’organizzazione del lavoro o con il lavoratore.
Come è noto, l’area di applicazione della protezione antidiscriminatoria a favore della persona con disabilità apprestata dalla direttiva 2000/78/CE, recepita dal d. lgs. n. 216 del 2003 , che riguarda il contesto lavorativo, si estende ben oltre il limitato spettro delle situazioni interne al rapporto di lavoro.
Allo stesso modo, sebbene indirettamente, il regolamento europeo sull’AI attrae nel concetto di lavoro una serie di situazioni che non sono riducibili alla gestione del rapporto, andando ben oltre ad esso. L’articolo 6, par. 2, rinviando all’allegato III, punto 4, stabilisce regole per l’applicazione dell’AI al lavoro che si estendono alle fasi della ricerca dell’occupazione, gestione dei lavoratori e al lavoro autonomo, vietando in modo specifico una serie di pratiche. Ne consegue che, per quanto riguarda l’AI Act , la nozione di lavoro comprende situazioni che vanno oltre il nucleo ristretto del rapporto di lavoro anche se queste altre circostanze non sono indicate in modo analitico e non sono del tutto sovrapponibili rispetto all’ambito di applicazione della Direttiva 2000/78/CE . Va però tenuto conto del fatto per cui il rischio proprio dell’uso dell’AI nei confronti delle persone con disabilità consiste nella diversità di trattamento rispetto alle persone che non rientrano in tale categoria. L’interprete deve quindi coordinare le disposizioni sull’ambito di applicazione dell’AI Act con quelle relative all’ambito di applicazione della Direttiva 2000/78/CE. Da tale attività discende la necessità di estendere le disposizioni dell’AI Act riferite al lavoro a tutte quelle indicate dall’articolo 3 della Direttiva n. 2000/78/CE, cioè a tutte le situazioni ‘di lavoro’ per le quali trova applicazione la disciplina antidiscriminatoria disposta a favore delle persone con disabilità .
Quanto al concetto di disabilità , nel diritto nazionale, la definizione si trova all’articolo 3 del d. lgs. n. 62 del 2024 che ha novellato l’articolo 3 della legge n. 104 del 1992 , ovvero la legge che si trova al centro del sistema di protezione delle persone che rientrano in tale categoria protetta, integrata – per il profilo antidiscriminatorio – dal d. lgs. n. 216 del 2003. Come meglio si vedrà nel prosieguo, la disabilità è un concetto composito e interrelato. Esso si fonda sulla combinazione di una caratteristica personale, cioè un limite funzionale fisico o psichico, durevole anche se non necessariamente permanente, con un dato di contesto: l’esistenza di barriere nella realtà esterna all’individuo che precludono l’integrazione paritaria del soggetto a limitata funzionalità. La disabilità è una caratteristica personale che restringe le facoltà in relazione a fatti non controllabili dal soggetto protetto.
La definizione legale di AI si trova nell’AI Act all’articolo 3, disposizione appunto dedicata alle “definizioni”. La norma qualifica l’AI come un sistema che opera con un metodo di tipo “inferenziale”, cioè con un metodo logico-statistico che trae conclusioni dall’elaborazione di dati relativi a un gruppo ristretto di oggetti, o soggetti, per poi applicarle a un gruppo più ampio di oggetti o soggetti dai quali è stato estratto il campione di riferimento. In tale modo, il sistema produce su richiesta dell’utilizzatore suggerimenti, previsioni, contenuti che possono influire su decisioni, o ambienti reali o virtuali. Fondamentale è la descrizione dell’AI, da un lato, come un sistema alimentato dai dati immessi dall’esterno e, dall’altro, come sistema dotato di diversi gradi di autonomia.
Gli elementi sui quali si basa la definizione dell’AI contenuta nel regolamento europeo sono adatti a definire modelli più o meno autonomi di AI, cioè modelli che seguono solo le regole dettate dal programmatore e usano solo i dati inseriti dal programmatore e dal deployer, oppure che sono programmati per imparare dalle proprie analisi e per utilizzarne i risultati al fine di analizzare altri dati, dati che la macchina può essere autorizzata a ‘pescare’ nel web.
La definizione di AI che si trova nell’AI Act non è indicativa del possibile impatto pregiudizievole di quest’ultima sui diritti delle persone. Tale definizione, infatti, è in sé neutra. L’AI Act invece opera una distinzione tra destinatari e livello di diritti che possono essere interessati dall’AI, e in relazione a questi due criteri determina il grado di rischio che l’utilizzo dell’AI può comportare, stabilendo restrizioni a carico di produttori e deployer.
Tra le situazioni a maggiore rischio vi sono quelle che riguardano i lavoratori e le persone con disabilità.
L’AI Act ipotizza che l’uso dell’AI possa essere un fattore di grave rischio in certi contesti o nei confronti di alcune categorie di persone che si trovano in una situazione di “vulnerabilità” per ragioni diverse, dall’età, alla disabilità o perché si trovano in una situazione di soggezione o dipendenza rispetto all’utilizzatore. Il rischio connesso all’uso dell’AI non esclude però che il ricorso a tale strumento, nell’organizzazione di lavoro o nei confronti del lavoratore disabile, possa avere un impatto positivo, cioè possa migliorare la condizione personale dell’individuo destinatario degli effetti dell’applicazione.
2. La valutazione dell’impatto dell’AI nei confronti del lavoratore con disabilità. La valutazione del rischio in concreto
A prescindere dai divieti ‘secchi’ stabiliti dal regolamento europeo, come ad esempio, quello che attiene all’utilizzo dei sistemi di AI per la lettura delle emozioni del ‘lavoratore’, il rischio che più spesso viene evocato in relazione all’applicazione dell’AI è quello della discriminazione nelle assunzioni, nella formazione, nella carriera etc.
Una delle finalità classiche dell’applicazione dell’AI è infatti la profilazione – cioè la definizione dell’identikit – del cliente ideale o del lavoratore ideale o più performante da preferire, come succede ai lavoratori su piattaforma . Se questo è l’uso, è intuibile che le persone con limiti funzionali non sono in posizione di vantaggio quando devono essere confrontate con l’identikit di un modello che non soffre limiti funzionali. Nel processo affidato alla macchina per scegliere il candidato ideale, l’identikit sintetizza le qualità richieste al livello più elevato possibile. Le persone con disabilità, anche se l’algoritmo trascura requisiti di salute psico-fisica, possono essere svantaggiate, ad esempio nei percorsi di istruzione e formazione o per situazioni non riconducibili alla loro volontà, che fanno travisare le loro qualità e il loro potenziale. Il semplice ritardo nel percorso di studi può incidere negativamente sulla valutazione di un candidato per un posto di lavoro ma il ritardo negli studi può dipendere da una condizione disabilitante che si è verificata durante quel periodo. Se l’algoritmo applicato in questi casi non è controbilanciato, la discriminazione è un fatto scontato.
Come non si è mancato di sottolineare , dall’uso di applicazioni algoritmiche, possono derivare però anche vantaggi. A tale proposito è necessario fare una precisazione. Se il regolamento europeo valuta l’applicazione dell’AI come fattore di rischio elevato, al fine di prevenire algoritmi e usi che si rivelino dannosi, il giudizio sul se un programma di AI pregiudichi o viceversa promuova l’integrazione della persona con disabilità deve essere invece effettuato tenendo conto anche delle particolari condizioni del singolo individuo e del contesto organizzativo in cui vive e lavora. La valutazione, cioè, deve essere personalizzata. Alcuni esempi possono chiarire l’assunto.
Un’ipotesi di inclusione lavorativa che si potrebbe pensare in generale favorevole per le persone con disabilità motoria e per i caregiver, è il lavoro a distanza. Per molto tempo, il luogo di lavoro ha tendenzialmente coinciso con i locali aziendali, con lo spazio fisico dell’unità produttiva. Oramai l’AI, anche nelle sue applicazioni più semplici, permette non solo ai nomad , ma anche alle persone con difficoltà motorie, per le quali non sono disponibili sistemi di trasporto adeguati, di lavorare a distanza. Il lavoro da remoto non è però una soluzione valida per tutti perché, se da un lato semplifica e risolve il problema degli spostamenti, dall’altro favorisce l’isolamento che, per alcuni individui, può essere dannoso sul piano psicologico. Non è ragionevole determinare se un’applicazione possa essere di beneficio per la persona disabile, o se una certa soluzione ne accomodi le esigenze d’integrazione nel lavoro, se non si contestualizza la situazione. Lo studio promosso dalla Commissione europea, per stabilire buone pratiche relative l’inclusione delle persone con disabilità, indica come prioritaria nel processo d’integrazione lavorativa la necessità di comprendere le esigenze specifiche dell’individuo che deve essere accomodato. Per la Commissione europea l’home working non è un accomodamento sempre ragionevole ai sensi della direttiva 2000/78/CE. Se l’essere umano è ‘sociale’, le soluzioni operative oramai consentite dai programmi di AI che hanno come conseguenza la segregazione dei soggetti interessati in spazi dedicati o che ne limitano il contatto con gli altri lavoratori, sono discriminatorie e pertanto illegittime. In definitiva, l’home working può essere considerato un adattamento ragionevole solo quando faciliti la concentrazione della persona protetta, la quale – pur sembrando tale affermazione contraddittoria – solo nell’isolamento o nel ridotto contatto con l’esterno, può condurre una vita attiva. Questa conclusione alla quale perviene la Commissione non fa quindi che confermare il dovere del datore di adottare soluzioni adeguate al caso concreto e alla persona che ha diritto all’accomodamento .
Per quanto attiene a questo profilo, un un progresso decisivo è stato compiuto con l’adozione del d. lgs. n. 62 del 2024 , in virtù del quale la scelta relativa accomodamento da considerarsi ragionevole non è lasciata all’arbitrio del datore di lavoro ma deve emergere da un processo dialettico nel quale il lavoratore, direttamente o per il tramite di chi lo rappresenta, deve essere coinvolto. Nel caso in cui la misura inclusiva preveda l’utilizzo dell’AI, e il lavoratore sia assoggettato a gestione automatizzata del rapporto, trova ovviamente applicazione l’articolo 1-bis del d. lgs. n. 152 del 1997 che comporta il dovere del datore di fornire una serie di informazioni sugli elementi dell’algoritmo che guida la macchina. Quando il destinatario di tali informazioni, che concernono la logica algoritmica ma anche il trattamento di dati, compresi quelli attinenti al lavoratore, sia una persona con disabilità, il datore dovrà applicare i principi del GDPR relativi all’informativa sul trattamento dei dati: informativa che deve essere fornita con modalità e con un linguaggio tali da renderla comprensibile alla persona, tenendo conto delle specifiche limitazioni funzionali psiche o sensoriali che la riguardano.
3. La classificazione per obiettivi delle norme dell’AI Act che riguardano le persone con disabilità
Nel precedente paragrafo si sono declinate alcune disposizioni di legge, che non riguardano in modo specifico il lavoro delle persone con disabilità, ipotizzandone l’applicazione nel caso in cui una persona con disabilità sia assoggettata a gestione automatizzata, in modo da chiarire che i doveri d’informazione a favore del lavoratore devono essere interpretati tenendo in debito conto la specifica limitazione sensoriale, fisica, o intellettuale della persona alla quale le informazioni sono destinate. Il principio dettato dal GDPR relativo alla comprensibilità dell’informativa comporta che questa debba essere fornita in modo coerente con le capacità della persona di acquisire e comprendere le informazioni ivi contenute, pena la discriminazione dell’individuo.
L’AI Act detta però anche specifiche disposizioni la cui ratio è tutelare i diritti fondamentali delle persone con disabilità potenzialmente compromessi dall’applicazione dell’AI. Questi principi trovano applicazione in situazioni che non si limitano ai rapporti giuridici e ai contesti assoggettati alla disciplina della direttiva 2000/78/CE ma si applicano certamente anche nell’ambito del lavoro.
Le disposizioni dell’AI Act, che hanno il fine di prevenire la lesione dei diritti fondamentali degli appartenenti a questa categoria di persone, possono essere divise in quattro gruppi.
Il primo gruppo vieta programmi di AI che consentano di sfruttare o di trarre vantaggiano dalle persone in ragione della loro condizione di disabili. Il secondo gruppo detta requisiti specifici dei programmi di AI perché ne possano fare uso anche persone con disabilità. Il terzo gruppo vieta le discriminazioni algoritmiche. Il quarto gruppo promuove l’adozione di sisitemi di AI che servano ad aumentarne l’accessibilità da parte di individui compresi in questa categoria.
Tra le regole dettate dall’AI Act merita poi di essere ricordata quella che, operando come eccezione al divieto di portata generale, ammette l’applicazione da parte del datore di lavoro di sistemi di riconoscimento delle emozioni impiegati limitamente ad esigenza mediche o di sicurezza (art. 5, lett. f), termine che viene interpretato anche nel senso di sicurezza dei lavoratori sul posto di lavoro .
4. Le dispozioni dell’AI Act a tutela delle persone con disabilità applicate ai lavoratori con disabilità
Il regolamento europeo vieta pratiche che consistano nel commercializzare o utilizzare sistemi che sfruttino la vulnerabilità degli individui protetti con lo scopo o l’effetto di modificarne il comportamento, in modo tale da recare un grave danno alla vittima specifica o a una qualsiasi persona appartenente al gruppo protetto. Il regolamento vieta cioè, alla radice, la produzione e l’uso di programmi che possano manipolare le persone vulnerabili per limitazioni funzionli di carattere fisico, psichico o sensoriale. Si tratta di situazioni ipotetiche in cui sarebbe possibile per un soggetto trattare vantaggio dalla produzione o dall’uso dell’AI causando ad altri un danno “significativo”, approfittando della sua vulnerabilità. La norma non vieta sistemi di AI ma la programmazione e l’uso dell’AI per trarre vantaggio ingiusto anche dalle persone con disabilità, considerate vulnerabili.
4.1. L’accessibilità ai sistemi di intelligenza artificiale quale modalità di protezione specifica delle persone con disabilità
Oltre a divieti, l’AI Act attribuisce alle persone con disabilità uno specifico diritto. L’art. 16(1)(I) AI Act relativo agli obblighi dei provider di sistemi di AI ad ‘alto rischio’ impone a quest’ultimi di assicurare l’accessibilità dei sistemi. Il “pieno accesso” su base di eguaglianza ai sistemi di AI, e alle relative funzionalità o estensioni è ora riconosciuto espressamente alle persone con disabilità anche dalla legge 23 settembre 2025 n. 132, all’art. 3, comma 7. Questa legge, intesa ad implementare le disposizioni dell’AI Act che comportano neessariamente l’attivazione di iniziative di sperimentazione e ricerca a livello nazionale, nonché la creazionne di organismi di controllo interno da parte degli stati membri dell’Unione , non fa che confermare un principio espresso non solo dal regolamento europeo ma già proclamato dalla Convnzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006, resa esecutiva in Italiia nel 2009.
Il principio di “accessibilità” si articola in quattro sub principi che si trovano enunciati al considerando n. 37 della direttiva (UE) 2016/2102 relativa all’accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili degli enti pubblici. Il primo sub-principio riguarda la percepibilità. Percebilità significa che le informazioni e i componenti dell’interfaccia devono essere rilevabili dall’utente che presenti limiti funzionali, quindi anche sensoriali, .. Il secondo sub- principio è l’utilizzabilità, il che significa che i componenti e la navigazione dell’interfaccia utente devono essere adatti a persone con qualsiasi tipo di limitazione funzionale. Il terzo sub-principio riguarda la comprensibilità: le persone con disabilità hanno cioè il diritto di accedere alle informazioni che si trovano nell’ainterfaccia potendo comprenderne a il funzionamento e i contenuti al pari degli individui non disabili. L’ultimo sub-principio è la solidità.Solidità del sistema di AI vuole dire che gli algoritmi che rendono possibile l’accessibilità devono essere applicabili con sicurezza da una vasta gamma di programmi destinati all’utenza, comprese le tecnologie assistive . L’obbligo imposto dal regolamento europeo di rendere i sistemi solidi si definnisce ‘by design’:, questo vuole dire che le misure di accessibilità, delle quali i sistemi devono essere forniti, non possono che essere immanenti ai programmi stessi. La direttiva (UE) 2016/2102, che ha declinato il principio di accessibilità nei termini sopra indicati, ha come destinatari tutti gli enti pubblici e quelli che erogano servizi pubblici. Di conseguenza si applica agli enti previdenziali, assicurativi pubblici, e di formazione al lavoro, cioè a tutti gli enti pubblici che, a qualsiasi livello nazionale o locale, eroghino servizi ai lavoratori o per i lavoratori. Non è però ovviamente applicabile alle agenzie private che somministrano lavoro, perché l’articolo 3, n. 1) della direttiva ora richiamata rinvia alla definizione di organismo di diritto pubblico dettata dalla direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici che, a propria volta, all’art. 2 par. 1.4 indica come “organismo di diritto pubblico” i soggetti che hanno tutte le caratteristiche seguenti: “a) istituiti per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; b) …. dotati di personalità giuridica; e c) … finanziati per la maggior parte dallo stato, dalle autorità regionali o locali o da altri organismi di diritto pubblico; o … [a] gestione … posta sotto la vigilanza di tali autorità o organismi; o il [cui] organo di amministrazione, di direzione o vigilanza [sia] costituito da membri più della metà dei quali è designata dallo stato, da autorità regionali o locali o da altri organismi di diritto pubblico”. La direttiva 2016/2102/UE non trova inoltre applicazione nei confronti delle organizzazioni sindacali e degli enti bilaterali, e questa soluzione male si adatta a contesti nei quali le formazioni sociali intermedie hanno un ruolo significativo nel mercato del lavoro. Si devo però ricordare che sin dal 2004 la legge n. 104, la c.d. legge Stanca, più volte modificata, regola e promuove l’accesso delle persone con disabilità ai siti delle pubbliche amministrazioni e degli enti che erogano pubblici servizi declinando i principi di accessibilità adottati a livello eurounitario. La legge n. 104 del 2004 ha un ambito di applicazione che non distingue in modo rigoroso tra soggetti di diritto pubblico ed enti privati, in particolare a seguito delle modifiche che sono state apportate nel corso del tempo. Quindi, i criteri di applicazione della legge n. 104 non coincidono pieamentecon quelli adottati dalla direttiva 2016/2012/UE e, sostanzialmente, estendono ai soggetti privati gli obblighi di accessibilità nelle situazioni in cui tali enti percepiscano finanziamenti pubblici per erogare i propri servizi tramite internet o comunque, trattandosi di imprese che offronto servizi al pubblico tramite internet (art. 3, c.1-bis), abbiano un fatturato medio nel triennio superiore a una certa entità.
La direttiva successiva, n. 2019/882/EU, che impone l’obbligo di accessibilità, estendendolo a privati che erogano servizi o offrono prodotti nel mercato, limita l’onere in relazione alla sostenibilità economica dei costi che derivano dall’adozione di sistemi che garantiscano effettivamente a tutti piena accessibilità all’interfaccia dell’impresa. Infatti, l’articolo 14 della direttiva stabilisce che i requisiti di accessibilità “si applicano ai prodotti e ai servizi solo nella misura in cui la conformità a) non richieda una modifica sostanziale di un prodotto o di un servizio tale da comportare la modifica sostanziale della sua natura stessa; b) non comporti l’imposizione di un onere sproporzionato agli operatori economici interessati”. La delimitazione dell’obbligo indebolisce non poco la tutela delle persone disabili che si trovano ad essere tra le quelle che l’AI Act definisce vulnerabili e meritevoli di protezione nel mercato. Non si deve però dimenticare che all’interno dei sub-principi di accessibilità sono implicitamente contenute sovente anche regole che sono possonno assicurare alle persone con disabililità, da un lato, un ragionevole accomodamento, e, d’altro canto, regole che sono indispensabili per consentire loro di accedere a servizi on-line senza rischi per la propria e altrui sicurezza fisica e psichica. Le imprese non potranno, quindi, chiedere ai propri dipendenti di utilizzare, nell’esecuzione dei compiti loro assegnati, servizi on-line che non siano “accessibili” secondo i quattro sub-principi enunciati perché, in relazione alle specifiche circostanze del caso, potrebbero mettere a rischio la salute dei propri dipendenti. Ad esempio, ove a un dipendente con disabilitàsi il datore chiedesse di acquistare, nell’esercizio delle proprie mansioni, servizi on-line, senza assicurarsi della reale accessibilità degli stessi e poi da tali servizi o beni derivasse un danno al lavoratore o ad altri lavoratori che ne facessero uso, la responsabilità potrebbe estendersi al datore. Il non adeguamento alle regole di accessibilità anche per questi motivi potrebbe quindi escludere dal mercato le imprese incapaci di adeguarsi ai principi sopra declinati.
Che vi possa essere una sovrapposizione sul piano pratico e fattuale tra le misure di sicurezza sul lavoro e le regole che garantiscono accessibilità ai sistemi di AI si può dedurre inoltre anche dal regolamento europeo. L'articolo 95, paragrafo 2, dell'AI Act favorisce infatti l'elaborazione di codici di condotta relativi all'applicazione volontaria, anche da parte dei deployer, di meccanismi e strumenti specifici per tutti i sistemi di AI, che consentano di valutare e prevenire l'impatto negativo dei sistemisulle persone vulnerabili o sui gruppi di persone vulnerabili, anche per quanto riguarda l'accessibilità per le persone con disabilità. La norma non riguarda esclusivamente i lavoratori ma, in virtù del divieto di discriminazione ai danni delle persone disabili, si estende ai lavoratori con disabilità dovendo essere coordinata anche con la valutazione dei rischi prevista dal d.lgs. n. 81 del 2008, il quale già all’art. 63, co. 2, dispone che “i luoghi di lavoro devono essere strutturati tenendo conto, se del caso, dei lavoratori disabili” .
5. Intelligenza artificiale e disabilità. Il portato positivo dell’AI nella ricerca scientifica e tecnologica applicata al lavoro
Le applicazioni dell’AI nel ‘lavoro’ – contesto che, per la Direttiva 2000/78/CE, si estende ben oltre i confini del rapporto – può davvero rendere effettivi i diritti che la legge attribuisce alle persone con disabilità. L’AI può infatti potenziare strumenti che integrano la capacità fisica e sensoriale, permettendo alle persone con limiti funzionali di partecipare alla società tendenzialmente alla pari degli altri. Le potenzialità dell’AI su tale piano sono la logica premessa dell’art 7 della legge n. 132 del 2025 che, al quarto comma, espressamente, “promuove lo sviluppo, lo studio e la diffusione di sistemi di intelligenza artificiale che migliorano le condizioni di vita delle persone con disabilità, agevolano l’accessibilità, la mobilità indipendente e l’autonomia, la sicurezza e i processi di inclusione sociale”.
Non è certo una novità che l’AI, attraverso strumenti e programmi elaborati dall’ingegneria biomedica, può consentire attraverso protesi sofisticate applicate a chi ha gravi deficit funzionali di acquisire abilità che non aveva alla nascita o che ha perduto nel corso del tempo . Nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (CRPD), l’ottica con la quale il fenomeno della disabilità deve essere regolato non può essere infatti esclusivamente focalizzato sulle menomazioni fisiche o psichiche riconosciute sul piano medico-scientifico. Diversamente, la Convenzione adotta una la concezione bio-psico-sociale di disabilità che, come si anticipava, tiene conto non solo delle durature menomazioni fisiche mentali o intellettive dell’individuo ma le contestualizza. Per la Convenzione la disabilità va definita – e soprattutto i diritti della persona con disabilità vanno commisurati – tenendosi conto anche delle barriere che la persona incontra nella realtà in cui vive. Si tratta di limiti culturali e infrastrutturali che ne ostacolano la partecipazione alla vita sociale e ne impediscono la reale integrazione al pari degli altri. Secondo questa lettura, la disabilità non dipende solo da un deficit di salute ma è il risultato della combinazione di più fattori, solo alcuni dei quali riguardano la persona del soggetto protetto.
Se, dunque, grazie all’utilizzo dell’AI la medicina sta rapidamente progredendo, offrendo possibilità di cura per alcune patologie croniche assimilabili a menomazioni, l’utilizzo dell’AI ha un impatto significativo sul piano fisico e psichico delle persone. D’altro canto la tecnologia digitale ha modificato il mondo esterno concorrendo a rimuovere i limiti spaziali. L’uso di macchinari gestibili attraverso programmi di AI ha trasformato il mondo esterno e anche il lavoro. Non esiste più una sola realtà nella quale si esaurisce l’esistenza di un essere umano ma vi sono almeno due piani: quello reale e quello virtuale. Questi piani hanno punti di contatto che rendono possibile ciò che prima della rivoluzione digitale non era nemmeno immaginabile. Ad esempio, tramite il lavoro a distanza anche un’attività che si sarebbe detta “operaia” – cioè prettamente fisica - come condurre un muletto per il trasporto di bancali può essere svolta oggi fuori dalla fabbrica da un operatore che visualizza su uno schermo il movimento del macchinario teleguidato attraverso un joystick, non diversamente da quello che succede in un videogioco. Attraverso l’AI una persona può elaborare progetti complessi, per i quali serve un’enorme quantità di dati, senza spostarsi fisicamente per accedere a uffici o archivi e senza recarsi in luoghi remoti. È possibile accedere a fonti e testi redatti in lingue antiche o straniere senza averle mai studiate. Non c’è dubbio che l’AI può quindi avere una valenza profondamente ‘trasformativa’ della persona umana perché, da un lato amplia i limiti del conoscibile e, d’altro canto, accresce le capacità personali, potendo anche ridurre o compensare il gap funzionale che, in determinate circostanze e contesti, vi è tra la persona con disabilità e la persona non disabile.
6. L’interazione uomo-macchina e la valenza ‘trasformativa’ dell’AI
La valenza ‘trasformativa’ dell’AI si rivela quindi anche – seppure non in ogni situazione – nei confronti delle persone con disabilità. La differenza tra un’applicazione ‘trasformativa’ e una ‘adattiva’ si può forse rendere in modo più chiaro con un esempio. Una protesi cocleare gestita dall’AI integrata fisicamente in una persona disabile può permettere a quest’ultima di sentire i suoni. L’AI può fare sì che un individuo non udente dalla nascita impari il linguaggio materno nei primi mesi di vita ponendo quell’individuo in una situazione ben diversa da chi deve invece acquisire il linguaggio dei segni per comunicare con gli altri. L’invenzione di un linguaggio speciale per i non udenti, nonché l’imposizione dell’obbligo di tradurre i discorsi destinati al pubblico in quel linguaggio, sono un esempio di soluzioni adattive al problema della disabilità: pratiche adattive, in quanto centrate sulla modifica o il miglioramento delle strutture del mondo esterno attraverso la rimozione, anche parziale, delle barriere che il non udente incontra nella realtà circostante. Queste soluzioni, e in particolare, l’acquisizione del linguaggio dei segni, comportano un impegno intellettuale da parte della persona menomata e da parte delle persone che con questa interagiscono e non estendono l’orizzonte della comunicazione oltre un certo limite.
Trasformativa è invece la soluzione basata sull’AI che permette al bambino di imparare il linguaggio naturalmente, senza che la persona incaricata del lavoro di cura debba imparare la modalità speciale di comunicazione.
Nell’esempio dell’impianto cocleale guidato dall’AI , vi è stretta connessione tra la persona fisica che soffre della menomazione e una macchina. Questo connubio, nel contesto della disabilità, non è nuovo. Quando esso è tra essere umano e AI sembra però accadere qualche cosa di diverso rispetto al caso in cui, ad esempio, una persona inforca gli occhiali. Lo strumento non è meramente servente e dominato dall’essere umano ma sembra interagire con l’individuo e, di conseguenza, la separazione tra l’uomo e lo strumento diviene sfuggente. Questa situazione si verifica anche in casi in cui la protesi non è necessariamente guidata dall’AI come, ad esempio, nel caso dell’impianto del cristallino oculare.
Quel che appare plausibile ritenere è però un fatto: l’integrazione uomo-macchina, per sopperire a limiti originari o acquisiti della capacità naturale, sarà un percorso inevitabile negli anni a venire e l’AI giocherà un ruolo fondamentale per rendere sempre più raffinata l’integrazione tra la sfera fisica dell’essere umano e gli strumenti che ne supportano le funzioni. Applicazioni così sofisticate sono già state sperimentate: recente è l’integrazione in un individuo di una neuroprotesi che consente alla persona disabile di parlare in modo espressivo e anche di cantare .
Questo fenomeno riporterà all’attualità questioni che sono rilevanti nella quotidiana gestione dei rapporti di lavoro e quindi non solo problemi di carattere etico, perché si può immaginare che la condizione di disabilità non sarà da considerarsi più necessariamente in termini statici e definitivi, così come è stata raffigurata per molto tempo, ma dovrà essere regolata sulla base di una impostazione dinamica.
Su questa prospettiva è però necessario soffermarsi per chiarire gli elementi fondamentali del ragionamento che non è legato solo a una visione futuristica dello sviluppo della medicina ma fa in primo luogo perno sull’interpretazione della legge. Infatti, per comprendere l’impatto della valenza trasformativa dell’AI sulla condizione della persona con disabilità è indispensabile guardare all’evoluzione della giurisprudenza comunitaria che, interpretando la direttiva 2000/78/CE sul diritto alla non discriminazione, ne ha dato una lettura profondamente innovativa nel momento in cui ha esteso la tutela euro-comunitaria a chi si trovi ad avere una limitazione funzionale, cronica o di lunga durata, indipendentemente dall’origine della limitazione..
7. L’interpretazione della fattispecie disabilità delineata dal d. lgs. n. 62 del 2024 alla luce della giurisprudenza comunitaria: dalla menomazione organica alla limitazione funzionale.
La giurisprudenza euro-unitaria sul diritto alla non discriminazione delle persone con disabilità ha tracciato un segno profondo nell’ordinamento giuridico , un segno che è evidente nella tessitura del d. lgs. n. 62 del 2024, adottato in attuazione della legge delega n. 227 del 2021 con lo scopo di (all’art. 3) introdurre definitivamente una nuova interpretazione del fenomeno disabilità e, quindi, dei diritti delle persone che si trovano in tale condizione. Questo intervento non ha solo il fine di conformare la legge all’impostazione teorica e agli obiettivi della Convenzione dell’ONU. Un altro aspetto importante consiste nel tentativo di addivenire al superamento delle molte ed eterogenee definizioni con le quali la condizione del lavoratore disabile viene indicata da norme adottate in epoche differenti e con finalità specifiche: disposizioni che risulta difficile comporre in un quadro di lettura ordinata.
Non è un caso, quindi che l’art. 3 del d.lgs. n. 62 del 2024 abbia novellato la legge n. 104 del 1992, modificandone l’articolo 3, comma 1, che si trova al centro della disciplina della materia. Il d.lgs. n. 62 del 2024, nel quale sono confluiti tanti elementi che si trovano a valle di un’evouzione culturale rivoluzionaria, non è però la mera somma algebrica del portato del diritto internazionale e comunitario. Nella disposizione si può leggere, forse, qualche cosa di diverso, cioè una sorta di fusione tra quanto emerge dalla convenzione ONU e il risultato di una defatigante opera interpretativa messa in atto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Nella nuova nozione di disabilità formulata dall’art. 3 della legge n. 104 del 1992, come novellata, è infatti sparito il riferimento alla menomazione “stabilizzata o progressiva”, elemento causale della condizione della persona disabile. Nella nuova formulazione il fatto-fonte della condizione è in buona sostanza messo al margine della nozione a vantaggio del profilo funzionale, dato che è persona con disabilità “chi presenta … compromissioni, fisiche, mentali, intellettive, o sensoriali”. Le “compromissioni” devono essere semplicemente “durature”, essendo quindi legittimo interpretare la disabilità come una condizione che di regola può cessare.
In questo modo, del resto, la Corte di giustizia interpreta la direttiva 2000/78/CE quando equipara la limitazione funzionale, dipendente da una malattia di lunga durata, alla limitazione funzionale dipendente da menomazione, cioè interpreta il fatto-fonte quale circostanza irrilevante nella prospettiva della tutela anti-discriminatoria.
L’accoglimento di una definizione siffatta all’esterno del contesto antidiscriminatorio può creare perplessità che potrebbero essere amplificate riflettendo sulle potenzialità dell’uso dell’AI applicata all’universo della disabilità.
Anche volendo mettere da parte le soluzioni tecniche rese possibili dall’AI, che operano sul piano della rimozione delle barriere “esterne”, cioè quelle che riducono gli ostacoli infrastrutturali all’integrazione, è difficile infatti non condividere l’opinione di chi legge nell’applicazione dell’AI alla disabilità una forza davvero ‘trasformativa’ .
8. Forza ‘trasformativa’ dell’AI, accomodamento ragionevole, dinamiche organizzative del lavoro della persona con disabilità
Nel documento dell’OECD nel quale si da atto della portata trasformativa dell’AI, per quanto attiene al rafforzamento della presenza dei lavoratori mercato, l’uso del termine “trasformazione” ha un significato chiaro. L’indagine dell’OECD è empirica, si basa su interviste e sullo studio di scenari reali che sono molto utili per comprendere, però, anche il portato giuridico dell’introduzione dell’AI nell’organizzazione di lavoro. In estrema sintesi, al di là dei benefici in termini quantitativi per ciò che riguarda l’incremento del numero di occupati , le applicazioni dell’AI non solo sono altamente personalizzabili, ma consentono talvolta il recupero, se non dell’organo, della funzionalità mancante.
L’AI, in relazione ad alcune condizioni, può quindi anche ridurre o fortemente mitigare il gap funzionale del soggetto protetto rispetto agli altri individui. La ‘compromissione duratura della funzione’ può infatti essere compensata dagli strumenti riconducibili all’AI. Se si accetta che, sul piano linguistico-normativo, la compromissione duratura di una funzione sia un concetto ben diverso dalla “menomazione stabilizzata”, il giurista dovrebbe trarne le conseguenze e non aggrapparsi ad una visione sostanzialmente statica della condizione di disabilità, né avanzare una concezione immobilistica di accomodamento ragionevole. Del resto il preambolo della Convenzione ONU alle lettera e) afferma che la disabilità è un concetto in continua evoluzione. In realtà, il venire meno di un’interpretazione centrata su una visione dell’uomo inteso quale sistema integrato di organi, definiti e studiati con l’approccio dell’anatomo-patologo, e adottata comunque prima che l’AI facesse il suo ingresso nel campo della medicina, appare del tutto coerente con un’interpretazione dinamica che valorizzi il profilo funzionale applicato al concetto di disabililità. Nel diritto vigente, qualsiasi fattore fisico o pischico che influisca sulla funzionalità dell’essere umano per un periodo prolungato – quando da tale influenza derivi l’impossibilità di esercitare un diritto in condizione di parità con gli altri – può essere qualificata come disabilità.
Il caso che forse meglio esemplifica l’evoluzione intervenuta sul punto di diritto si trova nella giurisprudenza occupatasi di un soggetto obeso , la disabilità del quale, secondo la Corte non sta nel fatto in sé del sovrappeso ma consiste nella limitazione funzionale che ne deriva, con buona pace dei giudizi espressi in relazione a situazioni che non di rado vengono attribuite a comportamenti inadeguati sul piano morale . Se la menomazione esce dal fascio di luce della disabilità per lasciare spazio al concetto di limitazione funzionale, che può essere mitigata dall’AI, è però anche evidente che qualsiasi condizione patologica che possa derivare dall’interconnessione sul piano fisico o pischico tra la persona e l’applicazione, e che sia cronica o di lunga durata, qualifica il lavoratore come disabile . Si tratta però di una disabilità di tipo diverso e specifico, forse non cristallizzata e permanente e invece variabile con il variare della tecnologia e che, soprattutto, merita un accomodamento mirato e personalizzato.
In questo panorama futuribile, e non riduttivamente futuristico, l’accomodamento della persona disabile nell’organizzazione di lavoro sembra dovere assumere una dinamicità che si trova sul versante opposto delle situazioni sclerotizzate alle quali le prassi esistenti nella realtà fanno pensare. Per certo, un’organizzazione del lavoro, che è già e sarà sempre più trasformata dall’AI, impone ad entrambe le parti di adottare un comportamento conforme a buona fede. Vuole che tra lavoratore e datore si apra un dialogo circa le esigenze che possono essere soddisfatte con un accomodamento nel posto di lavoro , circostanza che non va letta nell’ottica dell’aggravamento degli oneri per l’impresa in un contesto statico ma come una soluzione volta ad adattare l’organizazione alle potenzialità di individui che potranno aspirare non solo a un ‘posto’ di lavoro ma a opportunità formative e di carriera al pari degli altri lavoratori . Proprio questa conclusione sembra del resto suggeta dalla disposizione contenuta nell’art.11 della legge n. 132 del 2025, al primo comma, che individua nell’AI uno degli strumenti “per migliorare le codizioni di lavoro, tutelare l’integrità psicofisica dei lavoratori, accrescere la qualità delle prestazioni lavorative e la produttività delle persone”.