testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa
La tutela previdenziale dei lavoratori con disabilità costituisce un tema poco in-dagato dalla riflessione dottrinale, che, in materia, tende a concentrarsi soprattutto sull’esame delle misure assistenziali – le pensioni di invalidità civile, l’indennità di accompagnamento, ecc. – prestando minore attenzione al modo in cui la disabilità incide sul percorso previdenziale di coloro che hanno lavorato e versato contributi.
Eppure, sul versante strettamente giuslavoristico non mancano studi e appro-fondimenti sulla garanzia del diritto al lavoro dei disabili e sugli strumenti appronta-ti per garantire l’effettivo inserimento lavorativo degli stessi e il contrasto alle di-scriminazioni .
Non propriamente così sul piano pensionistico, dove invece si registra una lacu-na con implicazioni non soltanto teoriche, ma anche e soprattutto pratiche, poiché l’esperienza lavorativa dei disabili è segnata da ostacoli oggettivi, che si riflettono in carriere discontinue, salari inferiori e frequenti periodi di inattività. Questi fattori incidono direttamente sul montante contributivo e, dunque, sull’importo della pen-sione, generando una forma di diseguaglianza che rischia di perpetuarsi e amplifi-carsi nella fase post-lavorativa, generando così potenziali conflitti con principi costi-tuzionali, sovranazionali e unionali.
Al fine di cogliere la portata delle criticità del sistema italiano, nelle pagine che seguono, si procederà a una ricognizione della disciplina legislativa interna, della giurisprudenza nazionale ed europea, cercando di cogliere anche spunti da un con-fronto comparato, che possa suggerire possibili interventi di riforma finalizzati ad assicurare e rendere effettivo il principio di adeguatezza dei mezzi di vita sancito dall’art. 38, comma 2, Cost., almeno in misura paritaria rispetto ai lavoratori non affetti da alcuna disabilità.
2. Il fondamento costituzionale e la disciplina sovranazionale della tutela pensionistica dei disabili
È indubbio che l’analisi delle questioni non possa che prendere avvio dall’art. 38 della nostra Costituzione che costituisce la chiave di volta che regge tutto il sistema previdenziale italiano.
Senza voler evocare il dibattito sulla portata della disposizione costituzionale , occorre ricordare come la disposizione richiamata riconosca ai lavoratori il diritto a che siano loro preveduti e assicurati mezzi adeguati alle esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia. La disposizione, collocata nel Titolo III sui rapporti economici, ha una duplice valenza: da un lato, riconosce un diritto soggettivo dei lavoratori, qualificato come diritto sociale fondamentale; dall’altro, impone al legislatore un dovere positivo di predisporre strumenti adeguati a fron-teggiare le condizioni di bisogno.
Il riferimento all’“adeguatezza” non deve essere inteso in senso meramente quantitativo, come sufficienza a garantire la sopravvivenza, ma in una prospettiva qualitativa, come idoneità a consentire un’esistenza libera e dignitosa, in coerenza con l’art. 3, comma 2, Cost. e con la giurisprudenza costituzionale in materia di di-ritti sociali .
Nella torsione fortemente corrispettiva subita dal sistema pensionistico a partire dal 1995 e proseguita nel 2012 con la generalizzazione – pur graduale – del sistema di calcolo contributivo , proprio il tema dell’“adeguatezza” della pensione assume una dimensione più profonda in relazione al rapporto di lavoro dei disabili, caratte-rizzato, indubbiamente da maggiori rischi di discontinui , oltreché di ritardo nell’ingresso nel mercato del lavoro.
Ne sono ben consapevoli, del resto, le fonti sovrannazionali e, in particolare, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità , che, agli artt. 27 e 28 impone agli Stati di garantire il diritto al lavoro su base di uguaglianza con gli altri e di assicurare un adeguato tenore di vita e protezione sociale; e la di-rettiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000 , che vieta qualsiasi forma di discrimi-nazione fondata sulla disabilità nell’accesso all’occupazione e nelle condizioni di la-voro, inclusi i regimi pensionistici .
Sicché, quello alla prestazione previdenziale adeguata – e, più in generale, ai di-ritti sociali – è un diritto che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto collegato direttamente alla dignità umana e in quanto tale incomprimibile, da garantire nel suo nucleo essenziale a prescindere dalle disponibilità finanziarie. Si pone, per que-sto verso un limite alla discrezionalità legislativa e amministrativa che impedisce che i diritti fondamentali siano subordinati a mere esigenze di bilancio, di modo che la dignità della persona diventa parametro di giudizio per valutare l’adeguatezza delle prestazioni sociali .
E ciò è particolarmente vero per quei soggetti che si trovano in condizione di fragilità, per i quali nella ricostruzione della Corte la tutela costituzionale si salva con i parametri internazionali e, in particolare, con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. In questo modo, i diritti sociali non appaiono più rele-gati a mere aspirazioni, ma vengono trattati come garanzie inderogabili dello Stato costituzionale .
3. La disciplina italiana: pensione di vecchiaia anticipata, maggiorazioni contributive e misure temporanee
Proprio la necessità di riequilibrare lo svantaggio che la condizione di disabilità del lavoratore può determinare in relazione a una fattispecie a formazione progres-siva quale quella pensionistica, il sistema previdenziale italiano, nel corso del tempo, ha introdotto alcune misure specifiche rivolte a questa categoria di lavoratori.
3.1. Età pensionabili agevolate
La più “antica” tra queste misure è quella connessa a una riduzione dei requisiti di accesso alla vecchiaia: ai sensi dell’art. 1, comma 8, del d.lgs. n. 503 del 1992, ai lavoratori affetti da invalidità in misura pari o superiore all’80% è consentito l’accesso anticipato alla pensione di vecchiaia con un requisito anagrafico di 55 an-ni, se donne, e 61 anni, se uomini.
Una previsione analoga – e per certi versi ancor più speciale – è prevista per i lavoratori non vedenti, cioè coloro che sono affetti da cecità assoluta o con un resi-duo visivo non superiore a un decimo in entrambi gli occhi (art. 9, comma 2, l. n. 113/1985 e art. 1, l. n. 120/1991). Per questi l’accesso alla pensione di vecchiaia è ammesso al perfezionamento dei requisiti anagrafici e contributivi antecedenti alla Riforma Amato del 1992 (art. 1, comma 6, d.lgs. n. 503/1992) .
Si tratta di disposizioni che trovano la loro ratio proprio sul convincimento che la capacità lavorativa di tali soggetti sia ridotta e che il prolungamento dell’attività fino all’età ordinaria costituisca un sacrificio di particolare onerosità, sì da meritare un particolare riconoscimento .
Sennonché, specie per quanto riguarda la prima delle due anticipazioni descritte, i connessi benefici sono fortemente condizionati sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo. Sotto il primo profilo, si richiedere, infatti, il conseguimento di una so-glia di invalidità assai elevata; sotto il secondo, invece, la previsione limita il proprio ambio di applicazione ai soli lavoratori iscritti all’AGO e ai fondi sostitutivi della stessa , nonché a quanti sono in possesso di contribuzione antecedente al 1° gen-naio 1996 (in ragione della “rivoluzione” requisiti di accesso alla pensione operata dalla riforma Dini che rende inapplicabile il meccanismo secco di anticipazione dell’età pensionabile).
I requisiti anticipati riconosciuti in favore degli invalidi sono comunque soggetti all’adeguamento biennale operato in ragione degli eventuali incrementi dell'aspetta-tiva di vita regolato dall’art. 12, d.l. n. 78/2010 (conv. in l. n. 122/2010) , per cui, attualmente, l’accesso alla pensione è consentito con 56 e 61 anni, rispettivamente per donne e uomini, a condizione che risultino accreditati almeno 20 anni di con-tribuzione.
Le pensioni di vecchiaia anticipate per i lavoratori invalidi e per quelli non ve-denti, inoltre, sono interessate dalla disciplina delle finestre mobili, cioè dal differi-mento della decorrenza di un anno dal perfezionamento del requisito (di 18 mesi per i lavoratori autonomi) .
3.2. Le “supervalutazioni” contributive
Le misure di riduzione dell’età di accesso alla pensione disposte in favore degli invalidi non sono idonee a generare benefici né con riferimento alle pensioni antici-pate – per cui il diritto al trattamento non dipende da una età anagrafica, ma solo dal requisito contributivo – né per coloro la cui pensione è calcolata con il sistema contributivo. In questi casi, al fine di favorire un riequilibrio della situazione di po-tenziale difficoltà generata dalla condizione di invalidità del lavoratore, il legislatore ha riconosciuto una sorta di “supervalutazione” delle anzianità contributive matura-te in costanza di invalidità.
In questa direzione, l’art. 80, comma 3, della legge n. 388/2000, in favore dei la-voratori sordomuti e dei lavoratori invalidi civili con riduzione della capacità lavora-tiva non inferiore al 74%, ha previsto, su domanda, il riconoscimento di una mag-giorazione figurativa di due mesi di contribuzione per ogni anno di servizio effetti-vamente prestato, sino al limite massimo di cinque anni complessivi.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte valorizzato la funzione perequativa dell’istituto, finalizzato a temperare gli effetti negativi che la disabilità determina sul piano lavorativo e contributivo, attraverso carriere più discontinue e di durata com-plessivamente ridotta, sottolineando una interpretazione estensiva in senso favore-vole all’assicurato .
In merito occorre evidenziare i limiti della misura che, per quanto lodevole, ha valenza per lo più simbolica e presenta alcuni profili di criticità applicativa. In parti-colare, la soglia del 74% e il limite massimo di cinque anni riducono sensibilmente la portata compensativa della norma, rischiando di rendere l’intervento solo par-zialmente idoneo a colmare gli svantaggi strutturali dei lavoratori disabili.
3.3. Le misure sperimentali
Accanto agli strumenti strutturali summenzionati, il legislatore ha introdotto ne-gli ultimi anni alcune misure “sperimentali” (o, per meglio dire, legate agli stanzia-menti di anno in anno operati con le leggi di bilancio ), come l’APe sociale, l’Opzione donna e la Quota 41 per i lavoratori precoci.
La prima delle misure, regolata dalla l. n. 232/2016 , costituisce uno strumento di flessibilità in uscita dal mercato del lavoro. La misura si concretizza nel ricono-scimento di un’indennità economica (l’anticipo pensionistico), finanziata dallo Stato e corrisposta fino al raggiungimento dell’età pensionabile ordinaria, volta a consen-tire il ritiro anticipato di determinate categorie di lavoratori che si trovano in condi-zioni di particolare fragilità sociale. Tra i beneficiari rientrano i soggetti con invalidi-tà civile riconosciuta in misura pari o superiore al 74% , ai quali viene riconosciuta la possibilità di accedere al trattamento al compimento di 63 anni e 5 mesi di età, purché in possesso di almeno 30 anni di contribuzione effettiva.
L’APe non costituisce una prestazione previdenziale in senso tecnico, bensì un’indennità “ponte” a carico della fiscalità generale, erogata direttamente dall’INPS previa domanda dell’interessato. La sua durata è limitata al periodo inter-corrente tra il pensionamento anticipato e l’età prevista per la pensione di vecchiaia, senza incidere sul montante contributivo dell’assicurato. Proprio questa natura tran-sitoria e assistenziale, pur innovativa, è evidente che rispetto alle necessità di com-pensazione per i lavoratori disabili lo strumento appare largamente insufficiente.
Anche l’Opzione donna può essere latamente inserita tra le misure di compen-sazione riconosciute alle lavoratrici disabili. Invero, in origine, allo strumento era stata riconosciuta una portata generale; tuttavia, a partire dalla legge di bilancio per il 2023, le esigenze di contenimento della spesa previdenziale hanno imposto l’introduzione, accanto ai requisiti anagrafici e contributivi, di condizioni soggettive, tra cui, appunto, un grado di invalidità in misura non inferiore al 74% . Per queste, è consentito il pensionamento anticipato a 61 anni di età – ridotti a 60 o 59 in pre-senza di uno o più figli – ferma una anzianità contributiva minima di 35 anni (e l’applicazione delle finestre di decorrenza mobili), a condizione dell’opzione per il ricalcolo contributivo dell’intero trattamento spettante.
Sul piano sistematico, valgono le considerazioni già espresse in merito all’APe sociale circa la scarsa significatività in termini compensativi della condizione di di-sabilità. Inoltre, poiché all’uscita anticipata si collega l’accettazione di un ricalcolo interamente contributivo della pensione, l’Opzione donna nella versione dedicata alle invalide civili rischia di trasformare una misura di tutela in un fattore di pena-lizzazione economica, costringendo le lavoratrici fragili a scegliere tra prosecuzione forzata dell’attività e una pensione inadeguata.
Non si discosta da questo trend neppure la pensione anticipata in Quota 41, ri-conosciuta ai lavoratori disabili in misura non inferiore al 74% che siano anche “precoci” – vale a dire che possano far valere almeno 12 mesi di contribuzione effettiva prima del compimento del 19esimo anno di età – cui viene riconosciuta la possibilità di lasciare il lavoro con un requisito contributivo ridotto di 41 anni, infe-riore rispetto alla pensione anticipata ordinaria (per cui sono necessari 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne).
È evidente, però, che ancora di più rispetto alle ipotesi precedenti, anche tale beneficio ha portata assai limitata, sia per l’elevata soglia contributiva richiesta, che per la necessaria condizione di “precoce”.
4. Insufficienti e frammentari: gli effetti della disabilità sulla misura della pensione
Gli strumenti sin qui analizzati mettono in evidenza, con chiarezza sempre mag-giore, l’insufficienza delle risposte che l’ordinamento previdenziale italiano è stato in grado di offrire al fine di riequilibrare la situazione di svantaggio che inevitabil-mente accompagna la condizione di disabilità.
Tale svantaggio, lungi dall’esaurirsi nella fase della vita attiva, tende a proiettarsi e a riprodursi ben oltre la carriera lavorativa, riverberando i suoi effetti anche nel momento del pensionamento, quando l’esigenza di un sostegno adeguato diviene ancor più cruciale.
Sul piano sistematico, ciò che emerge è la costruzione di un mosaico normativo frammentario e privo di un disegno unitario: ciascuna misura è concepita per una platea specifica, con requisiti anagrafici e contributivi differenti, secondo logiche settoriali e contingenti che rendono il quadro complessivo disorganico e incoerente. Si tratta, in altre parole, di un sistema che procede per interventi episodici e stratifi-cazioni normative, anziché per linee direttrici generali.
A ciò si aggiunge un ulteriore profilo critico: la quasi totalità degli interventi le-gislativi in materia si è concentrata esclusivamente sull’abbassamento dell’età ana-grafica di accesso al pensionamento, trascurando il problema ben più rilevante della misura della prestazione.
La transizione al metodo contributivo ha infatti reso il calcolo della pensione ri-gidamente proporzionale all’ammontare dei contributi effettivamente accreditati, senza alcun correttivo strutturale. Tale impostazione produce effetti particolarmente penalizzanti nei confronti dei lavoratori disabili, perché la loro condizione influisce negativamente sul percorso lavorativo in almeno tre direzioni: riduce le possibilità di accesso e di permanenza stabile nel mercato del lavoro; limita le opportunità di progressione professionale e di incremento retributivo, determinando carriere meno remunerative; e comporta periodi di inattività, spesso prolungati, non sempre co-perti da contribuzione figurativa.
La conseguenza inevitabile è che i lavoratori disabili maturano, in media, tratta-menti pensionistici di importo inferiore rispetto ai lavoratori non disabili, proprio laddove le esigenze di tutela e di sostegno sono più pressanti.
La normativa vigente non contempla, allo stato, alcun meccanismo organico e strutturale di neutralizzazione di questi svantaggi. L’anticipo dell’età pensionabile, così come le maggiorazioni contributive previste dall’art. 80, comma 3, l. n. 388/2000, hanno certamente una loro rilevanza e funzione compensativa, ma resta-no strumenti marginali, quantitativamente insufficienti e qualitativamente incapaci di colmare il divario che si crea a causa di carriere discontinue e di retribuzioni più basse.
Ne deriva quella che la dottrina ha efficacemente definito una vera e propria “doppia penalizzazione”: durante la vita attiva, la persona con disabilità subisce un trattamento svantaggioso in termini di opportunità lavorative, di stabilità occupa-zionale e di reddito; nella fase successiva, quella post-lavorativa, il medesimo sog-getto viene nuovamente colpito, attraverso una prestazione previdenziale di importo inferiore e, spesso, inadeguato a garantire le esigenze minime di vita dignitosa.
5. Confronto comparatistico
Il quadro appare ancor più critico se raffrontato con le esperienze di altri ordi-namenti europei, nei quali i regimi di pensionamento anticipato per persone con disabilità sono strutturati su basi più razionali ed eque, prevedendo generalmente accrediti figurativi automatici o riduzioni proporzionali dei requisiti contributivi in relazione alla gravità della menomazione.
Mentre, infatti, l’Italia continua a muoversi entro una logica di soglie rigide, cu-mulative e di difficile raggiungimento, finendo per escludere, paradossalmente, proprio coloro che le misure avrebbero dovuto includere, altri ordinamenti hanno intrapreso un percorso differente.
Nel panorama comparatistico, particolare interesse assume la disciplina tedesca della Erwerbsminderungsrente, ossia la pensione per riduzione della capacità lavorativa, regolata dal Sechstes Buch Sozialgesetzbuch (SGB VI). Tale istituto, riformato nel 2001, si configura come una prestazione previdenziale destinata ai lavoratori assicurati che, a causa di malattia o disabilità, vedano compromessa in modo significativo la propria capacità di guadagno.
Il legislatore distingue tra volle Erwerbsminderungsrente, spettante a chi non sia più in grado di svolgere alcuna attività lavorativa per più di tre ore al giorno, e teilweise Erwerbsminderungsrente, riconosciuta a chi conservi una capacità lavorativa compresa tra tre e sei ore quotidiane.
I requisiti assicurativi si collocano su un duplice piano: è necessario aver versato almeno cinque anni complessivi di contribuzione obbligatoria e, nel quinquennio precedente l’insorgere dell’invalidità, almeno tre anni di contributi effettivi. La pre-stazione, il cui importo è calcolato secondo il sistema a punti proprio del regime contributivo tedesco , viene integrata da un meccanismo di accredito figurativo denominato Zurechnungszeit, che proietta la carriera contributiva del lavoratore fino a un’età prestabilita (originariamente 60 anni, oggi progressivamente estesa sino a 65 anni e 8 mesi), neutralizzando così l’effetto penalizzante delle interruzioni lavorative dovute alla riduzione della capacità lavorativa .
La Erwerbsminderungsrente rappresenta dunque un modello di tutela maggiormen-te coerente con l’obiettivo di garantire un livello pensionistico adeguato alle persone con disabilità, poiché agisce non soltanto sull’età di accesso al pensionamento, ma soprattutto sulla ricostruzione figurativa della carriera contributiva interrotta, con un meccanismo che riduce significativamente la penalizzazione economica tipica delle vite lavorative discontinue.
Anche in Spagna, la pensión por incapacidad permanente , oltre a prevedere una sca-la di prestazioni proporzionata alla riduzione della capacità lavorativa, riconosce contributi figurativi per i periodi di inattività .
Questi trattamenti, che svolgono una funzione di sostegno a favore dei lavorato-ri con ridotta o azzerata la propria capacità lavorativa, sono accompagnati da un re-gime di contribución ficticia o cotización asimilada, ossia dall’accredito figurativo ricono-sciuto ai fini del calcolo del diritto e della misura della prestazione.
Per attenuare l’effetto penalizzante delle carriere discontinue, la normativa pre-vede che i periodi successivi al riconoscimento dell’incapacità siano considerati co-me “cotizados” a tutti gli effetti, mediante accredito figurativo. In altri termini, il si-stema proietta la posizione assicurativa del lavoratore come se questi avesse conti-nuato a versare contributi fino al compimento dell’età pensionabile ordinaria. Tale accredito figurativo opera in particolare per l’incapacidad permanente total e per l’incapacidad permanente absoluta, nonché per la gran invalidez, ed è funzionale a garanti-re un livello di protezione adeguato nel lungo periodo. Esso consente non solo di perfezionare i requisiti minimi di carenza assicurativa, ma anche di incrementare la base di calcolo della prestazione (base reguladora), riducendo così l’impatto negativo derivante da un eventuale interruzione precoce della vita lavorativa.
In prospettiva comparata, la disciplina spagnola presenta tratti di forte somi-glianza con la Zurechnungszeit tedesca, in quanto entrambe operano come strumenti di neutralizzazione delle carriere interrotte, garantendo al lavoratore disabile una proiezione figurativa della sua storia contributiva. Si tratta di due esempi di che paiono più coerenti con i principi di adeguatezza e solidarietà rispetto al modello italiano, in quanto offrono una tutela pensionistica più incisiva.
6. Considerazioni conclusive e prospettive di riforma
L’analisi svolta mostra come la disciplina italiana delle pensioni per i lavoratori disabili si fondi su alcuni strumenti positivi, ma frammentari e insufficienti. L’anticipo dell’età pensionabile e le maggiorazioni contributive non compensano in modo efficace gli svantaggi derivanti dalla disabilità. La conseguenza è una pensio-ne di importo inferiore, che spesso non garantisce un tenore di vita dignitoso, in contrasto con il principio costituzionale di adeguatezza.
Le criticità principali del sistema italiano possono essere riassunte nella rigidità dei requisiti di accesso, nella scarsa incidenza delle maggiorazioni contributive e nella precarietà delle misure sperimentali. L’insieme di tali limiti rende il quadro normativo incapace di affrontare strutturalmente l’impatto della disabilità sulla car-riera previdenziale.
Eventuali prospettive di riforma dovrebbero muovere verso l’introduzione di un meccanismo di montante protetto, in grado di neutralizzare l’effetto delle carriere discontinue. Tale strumento consentirebbe di rendere più equa la misura della pen-sione, garantendo ai lavoratori disabili non solo un accesso anticipato, ma anche una prestazione adeguata. Si tratterebbe di un intervento coerente con le indicazioni provenienti dalla Costituzione e con gli obblighi derivanti dalle fonti internazionali e in particolare dalla Convenzione ONU.
Al contempo, occorre superare la logica delle misure temporanee e introdurre un assetto stabile e organico, capace di restituire certezza e prevedibilità al sistema. Solo in questo modo il diritto alla pensione potrà divenire un reale strumento di inclusione e non un ulteriore terreno di discriminazione.