TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Il Sindacato nel processo legislativo
Se ci fosse l’intenzione evocare il sole di Austerlitz sul ruolo del sindacato nel processo legislativo dovremmo andare molto indietro nel tempo ripercorrendo vicende ed episodi che sono entrati a far parte – nel bene come nel male - della storia del Paese e di cui chi vi parla ha avuto la possibilità e la fortuna di esserne se non sempre tra i protagonisti almeno come spettatore nelle prime file. Dobbiamo però parlare del nostro tempo e rassegnarsi all’imbrunire di Waterloo.
Pertanto, io rivisiterò brevemente gli avvenimenti e le esperienze delle ultime due legislature (la XVII e la XVIII) e cercherò di avanzare qualche ipotesi su un futuro incerto per tante ragioni, poiché il sindacato è pur figlio del suo tempo e la sua azione si svolge in un contesto politico, economico e sociale condizionato da eventi sui quali i grandi soggetti collettivi hanno limitate possibilità di intervento, ammesso e non concesso che abbiano la capacità di cercare e saper riconoscere - come scisse Italo Calvino – ‘’chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Per quanto riguarda il diritto del lavoro, la XVII legislatura è stata molto importante: si va dal decreto Poletti per la riforma del contratto a termine, alle misure di incentivazione contenute nella legge di bilancio per il 2015, poi rimodulate nelle leggi di bilancio degli anni successivi, fino al varo del jobs act e dei decreti attuativi che costituiscono un’ampia rivisitazione della disciplina del mercato del lavoro. Salvo i rapporti di routine (le audizioni delle commissioni parlamentari, le consultazioni del governo, il dibattito politico) i sindacati ‘’non toccano palla). In proposito si è parlato della ‘’dottrina della disintermediazione’’ del governo Renzi.
Verso la fine della legislatura si riaprì una fase importante di negoziato sindacati/governo sul tema delle pensioni. Il governo Gentiloni riuscì a concordare con i sindacati un percorso di accesso al pensionamento parallelo a quello previsto dalla riforma Fornero del 2011 (e delle successive modifiche) operando , in via sperimentale (l’unica misura di carattere strutturale fu quella istitutiva dei c.d quarantunisti), sul terreno dell’assistenza, dando corso al “pacchetto” Ape + Rita e alle agevolazioni per i c.d. lavori disagiati, una qualificazione che non aveva mai trovato una definizione codificata come era avvenuto da tempo per i lavori usuranti e particolarmente usuranti). L’operazione comportò il relativo finanziamento da parte dello Stato, prese qualche rimbrotto da parte della Commissione di Bruxelles, ma tutto sommato riuscì a salvare la facciata della riforma Fornero. Il 28 settembre 2016 il governo e i sindacati sottoscrivevano un verbale in cui erano sintetizzati ‘’gli elementi di fondo emersi nel corso di una discussione approfondita e circostanziata sulle problematiche aperte in campo previdenziale, una discussione che ha fatto emergere un giudizio articolato da parte dei soggetti del confronto e che per le OO.SS. non esaurisce gli elementi della loro piattaforma’’. Tuttavia, sul piano politico, l’evento fu importante per diversi motivi. Innanzi tutto, per l’ampiezza degli argomenti affrontati sia pure in termini programmatici e suddivisi in una Fase 1 collocata nella sessione di bilancio per il 2017 ed in una Fase 2, con caratteristiche apparentemente più strutturali, rinviata ad un confronto successivo. In secondo luogo, per gli effetti che il verbale produsse nell’ambito d’iniziativa dei protagonisti. L’ esecutivo, sottoposto da mesi al fuoco incrociato sul tema delle pensioni (si pensi alla telenovela dei ‘’c.d. esodati), riuscì a farsi coprire le spalle da parte dei sindacati (Cgil compresa), mentre le confederazioni rientrarono, da protagoniste, in una partita per loro decisiva (come quella della previdenza), anche a costo di qualche mediazione.
La XVIII legislatura, in nuovo contesto politico, si è caratterizzata nel corso del 2019, per quanto previsto nel ‘’decreto delle identità parallele’’ (n.4/2019) dove vengono istituiti il reddito (e la pensione) di cittadinanza e alcune misure in materia di pensioni, riguardanti l’accesso al pensionamento anticipato: quota 100 per un triennio e il blocco dell’adeguamento automatico dei requisiti contributivi a prescindere dall’età anagrafica fino a tutto il 2026. Alla scadenza di quota 100 è iniziato un percorso di transizione per evitare il rientro del percorso tracciato dalla riforma Fornero. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, col c.d. decreto dignità, si determinò una robusta limitazione del ricorso al contratto a termine, con l’introduzione di condizionalità per il rinnovo dopo i primi 12 mesi. In realtà questo provvedimento non ha avuto molta fortuna, non solo per la sospensione intervenuta durante la pandemia, e neppure per le modifiche di seguito apportate, ma perché determinava un turn over di lavoratori a termine, dopo il primo anno. In tutta questa fase i sindacati non hanno esercitato un ruolo di protagonisti. Se si dovesse indicare la loro linea di condotta in questa fase potremmo parlare di ‘’neutralità critica’’ ma di sostanziale adesione. Poi, dopo la sospensione e le modifiche, di silenziosa presa d’atto della inapplicabilità di quel provvedimento come era all’origine.

Una fase importante si è svolta nell’ambito dell’emergenza sanitaria. Va riconosciuto alle parti sociali di aver consentito dopo la prima fase di lockdown la riapertura in condizioni di relativa sicurezza di gran parte del apparato produttivo e dei servizi. Successivamente alla dichiarazione dello stato di emergenza, furono stipulati alcuni Protocolli recepiti dai provvedimenti adottati dai governi - in particolare il 14 marzo, il 24 aprile 2020, il 6 aprile 2021 - che disciplinavano l’accesso, la permanenza e le modalità di svolgimento in sicurezza delle mansioni, estendevano le norme della tutela antinfortunistica ai lavoratori che contraevano il contagio in occasione di lavoro, nell’ambito di misure di tutela del reddito e dell’occupazione (cassa integrazione estesa a tutti e blocco dei licenziamenti economici). I sindacati furono periodicamente coinvolti nell’adozione delle misure ritenute necessarie in questa fase e del graduale ritorno alla normalità. Il rapporto ‘’virtuoso’’ si interruppe quando si trattò di promuovere un programma di vaccinazione di massa e di stabilire a quali obblighi di certificazione erano sottoposti i lavoratori per avere accesso nelle aziende (la ‘’guerra del green pass’’).
I sindacati, nel corso della XVIII legislatura, su iniziativa di Renato Brunetta, il 10 marzo 2021, sottoscrissero - uno dei primi atti dell’esecutivo - con il governo Draghi il ‘’Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale’’. Uno degli obiettivi del Patto è quello di ‘’riconoscere alla Pubblica Amministrazione il ruolo centrale di motore di sviluppo e catalizzatore della ripresa: la semplificazione dei processi e un massiccio investimento in capitale umano sono strumenti indispensabili per attenuare le disparità storiche del Paese, curare le ferite causate dalla pandemia e offrire risposte ai cittadini adeguate ai bisogni’’. L’accordo ha dato vita a diverse iniziative legislative nel settore, ma soprattutto ha riavviato i negoziati per il rinnovo dei contratti di lavoro, dopo una lunga pausa. I sindacati, tuttavia, non sono stati in grado di inserirsi nella gestione del PNRR. Anzi. Cadde nel vuoto l’invito del presidente Mario Draghi alle parti sociali nell’intervento all’Assemblea della Confindustria il 23 settembre 2021. ‘’ Le parole di Bonomi suggeriscono che si possa iniziare a pensare a un patto economico, produttivo, sociale del Paese. Ci sono tantissime cose di cui discutiamo continuamente che possono essere materia di questo patto. La definisco una prospettiva economica condivisa. Bisogna mettersi seduti tutti insieme’’.
A questo punto è opportuna una considerazione sul tema della concertazione, sempre evocato da taluni settori imprenditoriali e sindacali, ma apparentemente archiviata come strategia concreta. Ovviamente vi sono degli orientamenti di ordine politico che non sono più convinti dell’utilità di tali percorsi. Non c’è dubbio, però, che il declino della concertazione coinvolge anche il ruolo del sindacato nel processo legislativo. Credo però che vi siano anche delle ragioni di carattere strutturale, da non sottovalutare.
• Il venir meno dell’asse egemonico Confindustria-Confederazioni;
• La conseguente crisi della concertazione, perché vengono a mancare i protagonisti e le materie di scambio;
• Il Protocollo Ciampi del 1993 e il Patto di Natale del 1998: nel primo vi era un accordo sostanziale che definiva con la logica del ne bis in idem e della distinzione dei ruoli tra i diversi livelli, la nuova struttura della contrattazione; il secondo consisteva in una sequela di impegni di riforma che il governo prendeva nei confronti dei sindacati senza ottenere nulla in cambio;
• Il forte incremento della legislazione (non negoziata) in materia di lavoro e gli inadeguati rinvii alla contrattazione collettiva (i nuovi rapporti)

La XIX legislatura è iniziata da qualche mese. Sulla legge di bilancio (in larga misura condizionata dalle misure sul caro energia) i sindacati non hanno avuto modo di far valere le loro proposte, anche se il giudizio sulle misure del governo Meloni è stato e rimane diverso tra Cgil e Uil da una parte (che hanno promosso iniziative di mobilitazione e di sciopero), la Cisl dall’altro che non ha aderito come già accadde un anno in occasione dello sciopero generale proclamato dalle organizzazioni consorelle.
Nel 2023 il governo ha promesso ai sindacati (e in generale alle parti sociali) un confronto su due grandi temi: la riforma delle pensioni, per cui è già convocato un incontro per il 19 gennaio. Le linee su cui intende muoversi il governo sono state enunciate il una recente audizione del ministro Marina Elvira Calderone in Senato. Con grande franchezza si può dire che non si tratta solo di linee generali, ma anche molto generiche, rivolte piuttosto a cogliere le esigenze (propagandistiche) dei partiti della maggioranza che a risolvere le questioni di sostenibilità e equità intergenerazionale. Ma per ora le cose sono tanto vaghe che è tempo perso esprimere giudizi di merito. Poi dovrebbe aprirsi la grande questione del nuovo strumento di contrasto della povertà (e della promozione del lavoro?) che dovrebbe sostituire dall’anno prossimo il RdC. Il tema assume una particolare valenza politica soprattutto in alcune aree del Paese.
Un aspetto che potrebbe assumere un significativo interesse e che non è ancora entrato nel vivo del dibattito, riguarda il sistema delle relazioni industriali e della struttura della contrattazione collettiva, in tempi in cui è tornata a mordere i redditi e le retribuzioni l’inflazione con tassi dei quali si era persa persino la memoria.
Sembrerebbe che la linea del governo Meloni in questa delicata materia sia notevolmente diversa da quella che ha dominato la scena nel corso della precedente legislatura nel corso della quale era rimbalza da una maggioranza all’altra una serie di proposte delle organizzazioni sindacali che avevano trovato un sostegno particolare in una prima fase a livello parlamentare, per iniziativa (ai tempi della maggioranza giallo-verde) della presidente della Commissione Lavoro del Senato, Nunzia Catalfo, relatrice di un testo unificato nel quale veniva affrontata la questione della rappresentanza in connessione con l’applicazione erga omnes dei contratti collettivi e con l’istituzione di un salario minimo legale. Il ddl Catalfo collegava il salario minimo direttamente all’articolo 36 della Costituzione, nel tentativo di sfuggire all’applicazione dell’articolo 39. Recitava, infatti, l’art. 2: ‘’ Si considera retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente ai sensi dell’articolo 1 (che si riferiva all’articolo 36 Cost., ndr) il trattamento economico complessivo, proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro più rappresentative sul piano nazionale (omissis), il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo, anche considerato nel suo complesso, all’attività svolta dai lavoratori anche in maniera prevalente e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali’’. In sostanza, con un volo pindarico sul piano giuridico, il ddl che aveva preso in nome della senatrice pentastellata - prescindendo dall’articolo 39 Cost. – voleva attribuire efficacia erga omnes ‘’al trattamento economico complessivo’’ sancito nei contratti collettivi, attraverso l’applicazione dell’articolo 36. In più, stabiliva che il salario orario legale (quindi anche quello contrattuale) non potesse essere inferiore a 9 euro lordi. E’ questo il numero magico che ha continuato a vagare nel dibattito (con qualche correzione in più o in meno) fino ai giorni scorsi, quando, come vedremo, la Camera si è pronunciata a maggioranza su di una linea politico-contrattuale molto differente. Va da sé che, approdata al Dicastero del Lavoro, nel Conte 2, quel pacchetto di proposte avevano assunto un’autorevolezza maggiore e avevano convinto i sindacati anche sul tema del salario minimo che, nel contesto di un sistema delle relazioni industriali in divenire in cui la rappresentanza e la rappresentatività vengono riconosciute in base a criteri definiti per legge, attribuendo di conseguenza un’efficacia erga omnes ai contratti stipulati da quei soggetti, in più con un salario minimo legale in forza del quale spiegò Nunzia Catalfo divenuta ministro: ‘’una volta favorito il progressivo adeguamento dei parametri fissati dai contratti collettivi ai valori salariali stabiliti con l’introduzione del salario minimo orario, si determinerà, sul piano nazionale, un incremento generalizzato dei livelli retributivi. Ciò comporterà un miglioramento delle condizioni dei lavoratori, accrescerà la dignità e il valore del lavoro prestato e consentirà di eliminare fenomeni di dumping salariale e di concorrenza sleale tra le imprese’’. A suo tempo l’ISTAT - in una memoria presentata in audizione - calcolò che i lavoratori per i quali l’innalzamento della retribuzione oraria minima a 9 euro (l’importo lordo ipotizzato) avrebbe comportato un incremento della retribuzione annuale erano 2,9 milioni ovvero circa il 21% del totale dei prestatori (2,4 milioni escludendo gli apprendisti). Per questi lavoratori l’incremento medio annuale sarebbe stato pari a circa € 1.073 pro-capite, con un incremento complessivo del monte salari stimato in circa 3,2 miliardi di euro. L’adeguamento al salario minimo di 9 euro lordi avrebbe determinato un incremento sulla retribuzione media annuale dello 0,9% per il totale dei rapporti e del 12,7% per quelli interessati dall’intervento. L’incremento percentuale più significativo avrebbe interessato i lavoratori occupati nelle altre attività di servizi (+8,8%), i giovani sotto i 29 anni (+3,2%) e gli apprendisti (+10%).
Il ministro Andrea Orlando, alcuni giorni prima delle dimissioni dell’esecutivo presieduto da Mario Draghi aveva dichiarato che il governo stava lavorando ad "un meccanismo che tenga insieme il valore positivo della contrattazione collettiva e l'esigenza di un salario minimo" per chi non beneficia della contrattazione o per chi ha contratti cosiddetti 'pirata'. "L'ipotesi su cui lavoriamo, che ha raccolto un preliminare consenso – aveva aggiunto - riguarda la possibilità di usare come riferimento contratti più diffusi o firmati delle organizzazioni maggiormente rappresentative. Significherebbe legare il minimo salariale per comparto alla migliore e più diffusa contrattazione". In sostanza, pane e companatico. L’impostazione che stava prevalendo richiedeva una complessa impalcatura normativa: una legge sulla rappresentanza, premessa della contrattazione ad efficacia generale, un salario minimo legale che non attentasse alla centralità del contratto nazionale di categoria, ma ne fosse il complemento e il sostegno. Sarebbe stato il trionfo della ‘’dottrina Landini’’. In verità Mario Draghi non aveva intenzione di infilarsi in un percorso legislativo tanto complesso. Il suo governo si sarebbe limitato al massimo a varare una forma di salario minimo; ma nel dibattito politico dominava l’idea della grande riforma delle relazioni industriali che aveva al suo centro il contratto collettivo nazionale, rafforzato dalla sua estensione erga omnes. Più recentemente c’era da aspettarsi, che nelle politiche dei sindacati, il contratto nazionale sarebbe tornato ancor più in auge nel campo delle relazioni industriali in conseguenza del ritorno improvviso dell’inflazione, il cui recupero – almeno come punto di riferimento – sulle retribuzioni è affidato alla contrattazione nazionale. Certo, in altri tempi si era fatto affidamento sul rapporto tra salari e produttività, sulla retribuzione di risultato, anche attraverso importanti agevolazioni fiscali che rendevano conveniente sia per le imprese che per i lavoratori la c.d. contrattazione di prossimità. Nelle intenzioni dei promotori, sarebbe stato questo nuovo modello di contrattazione a fornire una risposta alle esigenze di un maggior reddito, nel contesto di uno scambio con una migliore qualità del lavoro, laddove il risultato potesse essere misurato dall’acquisizione degli obiettivi stabiliti. Un segnale in questa direzione venne dall’accordo di rinnovo del 2016 tra Federmeccanica e sindacati che si proponeva di spostare il peso della contrattazione a livello d’azienda, senza rinunciare ad un’istanza nazionale ed unitaria della categoria; riconosce un diritto soggettivo alla formazione e all’apprendimento in un contesto in cui saranno le capacità professionali acquisite a fornire una tutela reale al lavoratore. Il meccanismo salariale era esclusivamente un recupero ex post e differito nel tempo, con aumenti successivi e solo eventuali sui minimi salariali legati meramente all'inflazione, con tanto di assorbimento di altre voci. Questa volta però i metalmeccanici non ‘’hanno dato la linea’’.
Le confederazioni sindacali trovarono un’intesa sui seguenti criteri:
‘’Il contratto nazionale, con la determinazione delle retribuzioni, dovrà continuare a svolgere un ruolo di regolatore salariale, uscendo dalla sola logica della salvaguardia del potere d’acquisto, che nasceva da un’esigenza di contenimento salariale in anni di alti tassi di inflazione, per assumere nuova responsabilità e ruolo. Le dinamiche salariali dovranno, così, contribuire all’espansione della domanda interna, a contrastare le pressioni deflattive sull’economia nazionale, a stimolare la competitività delle imprese e la loro capacità di creare lavoro stabile e qualificato, nonché a valorizzare, attraverso una equa remunerazione, l’apporto individuale e collettivo delle lavoratrici e dei lavoratori’’.
L’esigibilità universale dei minimi salariali definiti dai Ccnl, in alternativa all’ipotesi del salario minimo legale, va sancita attraverso un intervento legislativo di sostegno, che definisca l’erga omnes dei Ccnl, dando attuazione a quanto previsto dall’Art. 39 della Costituzione.
La piattaforma per il rinnovo contrattuale 2020-2022, sulla base di quanto stabilito a livello confederale, si adeguò al cambiamento di linea: ‘’Riconfermiamo – è scritto – il modello scaturito dal Ccnl del 26 novembre 2016 che ha prodotto la riconferma dei due livelli di contrattazione e numerose innovazioni contrattuali per i lavoratori, ma l’esigibilità di questo modello, introdotto in via sperimentale, ha avuto un’efficacia molto al di sotto delle aspettative nella diffusione della contrattazione decentrata e con essa la capacità di distribuire profitti e produttività’’. Si ritornava così a compensare una produttività che – a livello di categoria – è una pura invenzione, soltanto perché non la si riesce a contrattare laddove essa si produce.

Il report del Ministero del Lavoro (marzo 2022 ) ha dato conto degli effetti delle norme di incentivazione di particolari forme retributive che innovano rispetto alla natura classica del rapporto di lavoro dipendente: quella di mettere a disposizione del datore il proprio tempo, per introdurre degli obiettivi e dei risultati nel sinallagma contrattuale. Le statistiche mostrano una sostanziale tenuta della contrattazione decentrata e di prossimità finalizzata a specifici obiettivi produttivi, misurabili attraverso il conseguimento del risultato. Può sembrare un paradosso; ma in questi dati troviamo la conferma della convinzione che, sul posto di lavoro, operino strutture sindacali più disponibili ed innovative di quelle nazionali, orientate a valorizzare, come abbiamo illustrato, livelli di contrattazione centralizzati.

Ecco perché considero una svolta importante (e inattesa) la linea di relazioni industriali che la maggioranza di centro destra ha votato alla Camera (la mozione a prima firma di Chiara Tenerini), approvata con 163 voti, mentre le opposizioni sono andate in ordine sparso a sostenere le loro mozioni. La questione posta al centro delle mozioni riguardava l’introduzione del salario minimo legale. La mozione Tenerini ha impegnato il governo ‘’a raggiungere l'obiettivo della tutela dei diritti dei lavoratori non con l'introduzione del salario minimo’’ ma attraverso altre iniziative di seguito indicate:
a) attivare percorsi interlocutori tra le parti non coinvolte nella contrattazione collettiva, con l'obiettivo di monitorare e comprendere, attraverso l'analisi puntuale dei dati, motivi e cause della non applicazione;
b) estendere l'efficacia dei contratti collettivi nazionali comparativamente più rappresentativi, avvalendosi dei dati emersi attraverso le indagini conoscitive preventivamente svolte a livello nazionale, alle categorie di lavoratori non comprese nella contrattazione nazionale;
c) avviare un percorso di analisi rispetto alla contrattazione collettiva nazionale, che, soprattutto in certi ambiti, coinvolge un gran numero di lavoratori, alla luce della frequente aggiudicazione di gare che recano in loro seno il concetto della «migliore offerta economica»;
d) mettere in atto una serie di misure di competenza volte al contrasto dei cosiddetti contratti pirata in favore dell'applicazione più ampia dei contratti collettivi, con particolare riguardo alla contrattazione di secondo livello ed ai cosiddetti contratti di prossimità;
e) favorire l'apertura di un tavolo di confronto che assicuri il pieno coinvolgimento delle parti sociali e del mondo produttivo sul tema cruciale delle politiche finalizzate alla riduzione del costo del lavoro e all'abbattimento del cuneo fiscale, al fine di rilanciare lo sviluppo economico delle imprese, incrementare l'occupazione e la capacità di acquisto dei lavoratori;
f) porre in essere interventi e azioni volti a liberare risorse da altre voci della spesa pubblica per destinarle al mercato del lavoro e favorire l'occupazione che rappresenta il volano di crescita del nostro Paese, nonché implementare una serie di politiche attive volte a garantire una più veloce collocazione dei giovani nel mondo del lavoro (ad esempio, alternanza scuola lavoro).
A mio avviso si tratta di una linea molto innovativa (e diversa da quella fino ad ora dominante al limite del luogo comune) in materia di relazioni industriali che si accompagna a quanto disposto dall’articolo 15 del ddl di bilancio recante la riduzione dell’imposta sostitutiva applicabile ai premi di produttività dei lavoratori dipendenti. Tale aliquota, ora a livello del 10%, viene dimezzata sui premi di risultato di ammontare variabile e sulle somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell'impresa, entro un limite di importo complessivo annuo di 3mila euro. Tale agevolazione è prevista a favore dei titolari di redditi di lavoro dipendente non superiore, nell'anno precedente quello di percezione delle somme, a 80mila euro.
Chi poteva aspettarsi da una maggioranza come quella che sostiene l’attuale governo la capacità di una visione del ruolo dell’autonomia contrattuale così definita, in un tempo in cui il sistema delle relazioni industriali rischiava di essere ‘’nazionalizzato’’, visto che si intensificavano gli interventi del legislatore a compensazione dei limiti delle parti sociali?
D’altro canto questa linea è compatibile con la Direttiva europea secondo la quale ‘’la tutela garantita dal salario minimo può essere fornita mediante contratti collettivi, come accade in sei Stati membri, o mediante salari minimi legali stabiliti per legge, come accade in 21 Stati membri’’.

E’ altresì opportuno fare chiarezza sul fenomeno dei c.d. contratti pirata. E’vero che più di un terzo dei contratti depositati sono sottoscritti da organizzazioni non rappresentate al CNEL, ma questi contratti risultano applicati a un numero davvero ridotto di lavoratori. I numeri: 353 CCNL su 933 (pari al 38%) sono sottoscritti da firmatari datoriali e sindacali non rappresentati al CNEL, ma tali contratti risultano applicati a 33 mila lavoratori su oltre 12 milioni (si tratta di circa lo 0,3%).
I 128 contratti collettivi sottoscritti da soggetti datoriali e sindacali rappresentati al CNEL, pari al 14% dei CCNL vigenti, riguardano poco più di 10 milioni e 660 mila lavoratori, circa l’87% del totale dei lavoratori oggetto delle denunce. Si registrano, infine, 450 contratti sottoscritti da organizzazioni sindacali rappresentate al CNEL e da organizzazioni datoriali non rappresentate al CNEL (pari al 48% del totale).
In un documento del CNEL viene descritto il metodo elusivo dei contratti pirata: ‘’In questo contesto prolifera ampiamente il lavoro povero perché c’è una sorta di indiretta “aziendalizzazione” della contrattazione nazionale. Cioè, organizzazioni minori, datoriali e sindacali, stipulano CCNL a basso contenuto protettivo e di costo del lavoro che sono applicati a pochi o a pochissimi datori di lavoro di una certa zona geografica del paese, che operano in certo settore. A voler seguire intenti elusivi non c’è più bisogno di un contratto aziendale che deroghi in modo incontrollato il CCNL: si può costituire un’organizzazione, stipulare un CCNL al ribasso e farlo applicare a una dozzina di datori di lavoro. Tali organizzazioni sindacali e datoriali, tra l’altro, pubblicizzano il social dumping (riduzione del costo del lavoro che si ottiene dal vincolo a quel CCNL) e iniziano a operare a danno dei lavoratori, incidendo sulla competizione al ribasso nell’ambito salariale’’.
Il vero handicap del sistema che consente la ‘’aziendalizzazione’’ della contrattazione nazionale. La modifica più destabilizzante, per via referendaria, della legge n.300 ha riguardato l’articolo 19. Il comma cassato faceva riferimento alle ‘’ associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale’’ nel cui ambito potevano essere costituite le RSA. Grazie a questa norma il ‘’diritto vivente’’, aveva assunto la dignità di un vero e proprio ordinamento giuridico, estraneo a quanto disposto dall’articolo 39, basato sui criteri della maggiore rappresentatività, reciprocamente riconosciuta tra le parti, della libertà di associazione e sull’applicazione ordinaria dei contratti di diritto comune purché stipulati dai soggetti protagonisti del sistema.. La mutilazione dell’articolo 19, collegando il criterio della rappresentatività ai sindacati firmatari del contratto applicato in azienda, ha prodotto la moltiplicazione dei soggetti collettivi tutti abilitati a negoziare contratti collettivi anche se cambiano in peius le condizioni dei lavoratori, purchè siano applicati in azienda.

Su iniziativa del CNEL è in corso un’azione di contrasto in via amministrativa dei contratti pirata. Il Cnel ha ottenuto un importante riconoscimento con il cd. decreto “semplificazioni” che ha introdotto nell’ordinamento una norma che affida un compito centrale all’Archivio del CNEL (articolo 16-quater ‘’Codice alfanumerico unico dei contratti collettivi nazionali di lavoro’’). “Nelle comunicazioni obbligatorie (omissis), il dato relativo al contratto collettivo nazionale di lavoro – stabilisce la norma - è indicato mediante un codice alfanumerico, unico per tutte le amministrazioni interessate’’. Tale codice viene attribuito dal CNEL in sede di acquisizione del contratto collettivo nell’Archivio. In questo modo, in collaborazione con l’Inps, è possibile individuare il contratto che ha un’applicazione maggiore.

 

 

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