TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Loading: intelligenza artificiale, algoritmi e sistema penale
La rivoluzione digitale e l’imporsi delle tecniche di Artificial intelligence (da ora AI) hanno determinato uno “shock” da modernità sullo scenario giuridico, un disorientamento tuttora in corso che genera profondi interrogativi. L’avanzamento del sapere tecnico ci impone di riflettere adeguatamente sulle opportunità e sui rischi che derivano dall’utilizzo delle tecnologie, in particolare se fondate sull’intelligenza artificiale, anche rispetto a una realtà troppo spesso dimenticata e tendenzialmente impermeabile alle più importanti innovazioni delle tecniche dell’informazione, la realtà dell’esecuzione penale.
È ormai noto che, soprattutto nell’esperienza nord-americana, sono stati sviluppati dei tools di intelligenza artificiale costruiti al fine di fornire una stima attendibile sul rischio che il reo commetta nuovi fatti di reato: si tratta degli algoritmi predittivi del rischio di recidiva .
I diversi tools già esistenti riescono infatti a fornire un dato percentuale circa il rischio di ricaduta nel reato , dato funzionale all’adozione di provvedimenti anche molto eterogenei, che intervengono in fasi processuali distinte. La probabilità di ricaduta nel fatto di reato può infatti essere utilizzata a fondamento delle decisioni in merito alla custodia cautelare, alla concessione del parole o alla commisurazione della pena.
Come si può intuire, la domanda che si pone all’algoritmo è di particolare delicatezza, poiché riguarda la probabilità che si verifichi un evento futuro ed incerto, determinato da una molteplicità di fattori che, in quanto tale, rappresenta un accadimento difficilmente prevedibile.
Come è possibile tradurre in un linguaggio binario, quale è quello tipico dei software di intelligenza artificiale, una domanda di tale complessità? In base a quali elementi, poi, il sistema è in grado di restituire una risposta?

2. Risk assessment e risk management nell’era algoritmica.
In realtà, lo strumento algoritmico costituisce una modalità avanzata di formulazione di un risk assessment, una stima sulla probabilità della ricaduta nella commissione di un fatto di reato che, a bene vedere, è già attualmente un passaggio obbligato nelle valutazioni del giudice penale. Le tecnologie di IA, attraverso la loro potenza di calcolo e la disponibilità di data-set potenzialmente sterminati, offrono nuova linfa per questa tipologia di giudizi, segnando l’evoluzione verso modelli “computazionali” di valutazione del rischio .
Il risk assessment è, quindi, un processo di valutazione del rischio e non un metodo in grado di fornire una predizione esatta , si tratta di uno strumento utile per stimare il rischio e i bisogni criminogeni del singolo, al fine di gestire adeguatamente una situazione pericolosa: un mezzo, dunque, non un fine in sé stesso .
Poiché il risk score costituisce una “fotografia” del rischio, esso può rivelarsi utile soltanto nella misura in cui fornisce le informazioni necessarie per individuare le misure di intervento e di prevenzione più adeguate in relazione al caso concreto, nella prospettiva, dunque, del cosiddetto risk management. La precisazione di questo profilo può concorrere a mitigare parte dei sospetti nei confronti degli algoritmi predittivi, che non sono altro che strumenti preformati di risk assessment: una sequenza di istruzioni in base alle quali il calcolatore elabora un processo, che consente di addivenire a un risultato (output). Quest’ultimo, tuttavia, non realizza una predizione finale, ma offre soltanto un valore grezzo, sul quale si deve immancabilmente innestare una nuova valutazione .
È importante, inoltre, effettuare alcune precisazioni sul concreto funzionamento degli algoritmi predittivi, al fine di maturare una visione completa sulla consistenza delle informazioni ottenute mediante il loro impiego e sul relativo significato. Il coefficiente di rischio oggetto del calcolo viene generato dall’incrocio tra le diverse categorie di dati inseriti nella base dell’algoritmo, che possono essere suddivisi in dati “di gruppo” (attinenti ai comportamenti di individui arrestati o condannati) e “dati personali” (che si riferiscono al reo e alla sua storia individuale) . Gli strumenti classificano il soggetto interessato in base alla interazione fra questi gruppi di dati e, in tal modo, l’algoritmo fornisce una stima circa la probabilità che un imputato si impegni in un comportamento criminale qualsiasi, in un futuro più o meno prossimo .

3. Uno sguardo nell’algoritmo: fattori di rischio e fattori di protezione.
Ogni discussione in tema di algoritmi predittivi del rischio di recidiva è di norma caratterizzata da un forte timore per il carattere “oscuro” di questi strumenti, in una prospettiva che rievoca gli scenari del “Big brother” di orwelliana memoria. Sebbene sia vero che molto vi è ancora da fare per comprendere i meccanismi di funzionamento degli algoritmi e per correggere i bias di cui sono portatori , la tendenza a guardare con preoccupazione agli strumenti di AI rende più complesso apprezzare pienamente il contributo conoscitivo che, seppur con tutte le cautele necessarie per il loro corretto utilizzo, sono in grado di offrire. In questa prospettiva, suscitano particolare interesse i cosiddetti risk and need assessment tools, strumenti in grado di ampliare le informazioni sulla situazione della persona nella sua interezza.
Tali strumenti, attraverso la ponderazione non soltanto dei fattori di rischio ma altresì dei bisogni criminogeni del soggetto, assieme al suo livello di responsività (c.d. responsivity principle), riescono a mettere in luce le peculiarità del reo, fornendo così una base informativa piena sulla quale poi definire le adeguate strategie di gestione del rischio posto dall’agente, in funzione della sua responsività .
Sono, insomma, tools utili a comprendere le variabili da trattare al fine di sostenere la persona condannata e propiziarne il reinserimento all’interno del contesto sociale, attraverso un programma individualizzato e coerente con le necessità del singolo.
Lo strumento, a bene vedere, sottende quelle teorie criminologiche secondo cui ogni fatto reato è un fenomeno spiegabile tanto dalla biografia del soggetto, dalla sua storia, quanto da componenti sostanzialmente biologiche. Il delitto, secondo tali teorie, è manifestazione di fattori personali, familiari, sociali ed economici, biologici e biografici, che a loro volta costituiscono fattori di rischio e, quale contraltare di questi ultimi, bisogni criminogeni, che devono essere considerati e contrastati se si vuole fare una reale opera di prevenzione speciale .
Attraverso l’analisi del rischio, si individua il soggetto da trattare, giacché esso presenta un’elevata probabilità di commettere un nuovo reato. I fattori predittivi maggiormente pregnanti sono stati ad esempio individuati nelle relazioni amicali del soggetto con persone appartenenti a contesti criminali, nel complessivo comportamento antisociale, nello status occupazionale, nel livello di istruzione del reo.
Tra i fattori criminogeni possono annoverarsi il luogo dove la persona conduce la propria vita, lo status occupazionale, la dipendenza da sostanze stupefacenti, la tipologia e l’intensità delle relazioni familiari o coniugali, il livello di istruzione e di integrazione del reo. Tra i fattori non criminogeni si annoverano quei tratti della personalità che, pur non essendo direttamente correlati all’eventuale commissione di un reato, possono rappresentare l’indice di un carattere che, in presenza di determinate circostanze, potrebbe favorire la commissione di fatti di rilevanza penale. Tratti simili – che è fondamentale riconoscere adeguatamente- sono ad esempio l’autostima carente, la presenza di sentimenti di ansia e malinconia, l’eventuale presenza di disturbi mentali o una debole salute fisica. Nel compendio di informazioni relative al reo non bisogna poi trascurare i c.d. protective factors , ossia quei fattori che fungono da freno inibitorio alla ricaduta nel fatto reato; i quali risultano profondamente diversi da persona a persona.
Parimenti importante, poi, è la caratterizzazione del need, ossia delle concrete esigenze del reo, che non sono altro che l’altra faccia della medaglia del rischio: tra queste vi sono la presenza di sentimenti di ansia o di malinconia, l’esistenza di disturbi mentali o l’autostima carente.
In ultimo, il responsivity principle si cura di indicare i meccanismi migliori attraverso cui approcciarsi al reo. Per responsivity principle si intende quel principio in base al quale si suggeriscono le migliori modalità per strutturare il trattamento in ragione delle caratteristiche personali del soggetto, quali ad esempio lo stato di salute fisico o mentale, in maniera tale da offrire più incoraggiamenti e meno punizioni. Tale approccio, insomma, prova a cogliere e sfruttare positivamente le già presenti abilità di apprendimento del reo, attraverso la definizione di trattamenti cognitivo-comportamentali e di approcci che siano disegnati sullo stile di apprendimento, sulle motivazioni, sulle abilità e sulle forze specifiche dell’offender.
Se questi strumenti riescono a fornire indicazioni chiare e precise non solo sul rischio ma soprattutto sulle esigenze trattamentali, essi diventano vitali nel traghettare il sistema verso la strutturazione di reazioni sanzionatorie costituenti un vero e proprio progetto di intervento realmente rieducativo, un case planning orientato al recupero del condannato e non alla sua neutralizzazione.
In questa prospettiva, assai interessante è analizzare quali fattori sono oggetto di considerazione da parte dei diversi algoritmi e, in particolare, approfondire il ruolo attribuito alla variabile “lavoro” all’interno delle procedure di risk assessment.

3.1. La variabile “lavoro” tra fattore di rischio e fattore di protezione.
A bene vedere, diversi algoritmi già operanti oltreoceano contemplano la voce “employment”. Un interessante esempio è costituito dal tool LSI-R , utilizzato in Pennsylvania come ausilio nella fase di commisurazione della pena detentiva. Tale strumento si struttura su 54 items, a loro volta suddivisi in 10 macroaree, che individuano i fattori in grado di determinare il criminal behaviour.
La seconda macroarea, che si focalizza sul livello educativo e la condizione lavorativa del reo (Education and Employment), tra le informazioni rilevanti ai fini della determinazione del coefficiente di rischio contempla proprio la condizione lavorativa. In particolare, si richiedono informazioni circa l’occupazione del condannato al momento della compilazione del questionario (question 11: Currently employed?), sulla frequenza con cui il condannato ha vissuto senza un impiego lavorativo (question 12: Frequently unemployed?); se lo stesso sia stato o meno assunto per un intero anno (question 13: Never employed for a full year?) e, infine, se il condannato sia mai stato licenziato (question 14: Ever fired?).
Similmente, anche il tool COMPASS - forse il più celebre tra gli algoritmi predittivi - che ha dato il via al dibattito scientifico sull’utilizzabilità di tali strumenti nel processo penale a seguito del suo utilizzo nel caso Loomis - include tra i fattori da valutare la condizione lavorativa del soggetto.
COMPASS , anch’esso utilizzato nella fase di commisurazione della pena nello stato del Wisconsin, è strutturato su diverse sezioni, tra le quali vi è Vocation (Work), nella quale si richiedono informazioni relative alle esperienze lavorative passate e alla situazione economico finanziaria del condannato.
In particolare, si chiede al condannato di precisare se impiegato al momento della compilazione del questionario, se in possesso di una competenza, o della conoscenza di un mestiere grazie alle quali di solito è in grado di trovare lavoro; se nel corso della propria esperienza lavorativa ha subito licenziamenti (questions 80-85).
Accanto a tali fattori statici, COMPASS considera altresì fattori di carattere dinamico, richiedendo al condannato di esprimersi rispetto alle proprie esigenze relative ad una migliore formazione lavorativa o all’acquisizione di nuove competenze professionali (Question 86: Right now, do you feel you need more training in a new job or career skill?).
Gli strumenti di risk assessment, pur con le rispettive peculiarità, contemplano il ruolo che il lavoro svolge nella genesi del comportamento criminale e nella sua reiterazione, considerandolo sia nella sua dimensione di fattore di rischio ma, soprattutto, in quella di fattore protettivo, inibitore della spinta alla reiterazione del reato. Da questo punto di vista, sembra che LSI-R e COMPASS sintetizzino nelle loro domande i contenuti di quelle teorie che interpretano la commissione di reati come una soluzione adattiva alla frustrazione individuale che si prova allorché i mezzi leciti non sono sufficienti a raggiungere gli obiettivi materiali e immateriali che ci si prefigge .
In effetti, come diversi studi evidenziano da lungo tempo, la mancanza di un’occupazione stabile costituisce un fattore di innalzamento del rischio di recidiva. I (pochi) dati disponibili restituiscono un quadro chiaro: soprattutto nei primi mesi che seguono il rilascio, l’incertezza e il mutamento del contesto di vita che vissuti dal soggetto sono tali da ridurre la resistenza alla spinta criminogena.
In effetti non stupisce, come peraltro emerge da recenti dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che per tutte le persone che, durante la detenzione, hanno intrapreso percorsi di lavoro e di istruzione (ammessi al lavoro all’esterno ex art. 21 o.p., percorsi scolastici o culturali), il tasso di commissione di nuovi reati si attesti intorno al 3-7%. Diversamente, per i detenuti che non hanno intrapreso alcun percorso all’interno delle mura del carcere, il tasso di recidiva si alza vertiginosamente, fino ad arrivare attorno al 70%.
È di palese evidenza, quindi, l’assoluta centralità del lavoro non soltanto nella buona riuscita del percorso di risocializzazione ma soprattutto nel momento di effettivo reinserimento in società. Di tale centralità pertanto è necessario tenere conto se si vuole davvero incidere sul tasso di recidiva e, conseguentemente, aumentare la sicurezza.
Nonostante ciò, al momento del reingresso in società dell’ex detenuto si va troppo spesso dimentichi della profonda diversità di contesto in cui i soggetti che hanno scontato la propria pena si trovano a vivere. La profonda incertezza che accompagna gli ex detenuti nella loro reimmissione in società necessiterebbe di appositi programmi di accompagnamento, in grado di fare da ponte tra soggetto e comunità e tali da fornire un appoggio e un monitoraggio per il soggetto, anche per scongiurare l’inverarsi di fatti tragici .
A fronte di un mutamento così radicale di spazi e della riappropriazione del tempo si comprende con chiarezza ancora maggiore che è proprio la garanzia di un’occupazione a proteggere il soggetto dalla commissione di ulteriori reati, oltre a renderlo nuovamente partecipe attivo del consorzio sociale.
Sotto quest’aspetto, però, è necessario tenere presente che non è bastevole garantire una qualsiasi occupazione lavorativa per fare un’adeguata azione di prevenzione speciale. Studi recenti hanno dimostrato che non è la mera presenza o assenza di un’occupazione lavorativa ad impattare sul tasso di recidiva; perché l’occupazione possa dipanare realmente efficacia protettiva è necessario che si caratterizzi come un’occupazione di qualità.
Difatti, il lavoro può davvero fungere da fattore protettivo solo se possiede determinate caratteristiche.
In primo luogo, a seguito di un’osservazione della durata di sei mesi su ex detenuti si è potuto osservare che il rischio di ricaduta nel reato era più alto per chi aveva perso il proprio impiego rispetto a chi, invece, aveva mantenuto un lavoro stabile. Si può dunque ragionevolmente ritenere che la continuità della condizione lavorativa costituisca un fattore assai deterrente, difatti la prospettiva di perdere l’occupazione funge da adeguata controspinta rispetto alla commissione di reati.
Parimenti, da tale studio si è potuto ricavare che nell’ex detenuto che svolge prestazioni lavorative in linea con le mansioni svolte prima dell’esperienza detentiva diminuisce il rischio di ricaduta nel reato rispetto a chi si trova a dover intraprendere un lavoro ex novo. Sembra che questo aspetto si colleghi a quel deficit nella formazione e nella creazione di nuove skills all’interno del carcere, che rende ancor più complesso il reinserimento completo e non fa che aumentare il senso di frustrazione inevitabilmente vissuto da chi si trova a doversi muovere in un contesto aperto e del tutto nuovo a seguito dell’esperienza detentiva.
Ancora, si è potuto osservare che il lavoratore subordinato con un impiego a tempo pieno, in ragione delle caratteristiche concrete con cui si svolge la prestazione lavorativa, presenta un rischio di recidiva ridotto rispetto al lavoratore autonomo o part time.
Tuttavia, ad essere centrale nell’abbattimento del tasso di recidiva è il livello occupazionale: se l’impiego è ben remunerato e di elevata qualità, la possibilità di perdere tale lavoro rende il soggetto maggiormente incline al comportamento law abiding.
Alla luce delle evidenze di tali studi empirici, pare possibile concludere che la strada da percorrere possa essere solo quella di favorire politiche che facilitino l’incontro, con la garanzia di lavori stabili e con un adeguato livello retributivo. Se questo è l’obiettivo, il suo raggiungimento non può transitare che per precise scelte a livello politico, che riescano a garantire i diritti dei detenuti a iniziare e mantenere una carriera e le esigenze dei datori di lavoro a essere competitivi sul mercato. Sotto questo aspetto, come evidenzia la dottrina, sarebbe opportuno pensare a forme di basic income, una sorta di reddito fisso a seguito della cessazione della pena, che possa garantire al soggetto un periodo in cui trovare adeguata occupazione. Nel medesimo senso si pongono quelle proposte che plaudono all’eliminazione dal casellario giudiziale delle pendenze penali dopo il trascorrere di un determinato periodo di tempo; alla previsione di benefici fiscali per chi assume persone detenute e prosegue con questi il rapporto una volta cessata la detenzione; alla riforma delle norme in tema di concessione delle licenze, in modo che la concessione non sia subordinata alla verifica dell’inesistenza di carichi pendenti.

4. Alcune possibili conclusioni.
Nel tirare le fila di quanto detto, occorre tenere presente che l’abbattimento del tasso di recidiva attraverso la garanzia del diritto al lavoro non costituisce soltanto una strategia utile per il reinserimento del singolo, ma rappresenta anche un obiettivo fondamentale per il benessere dell’intera collettività. L’occupazione, soprattutto se stabile, coerente con le competenze del soggetto e caratterizzata da condizioni dignitose, emerge chiaramente come uno dei principali fattori protettivi in grado di contrastare la reiterazione del reato.
Fare un’opera di adeguata prevenzione speciale, poi, è il viatico per raggiungere più di uno degli obiettivi stabiliti all’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’ONU e, in particolare, il Goal 1, Sconfiggere la povertà, il Goal 8, sul lavoro dignitoso e la crescita economica ed il Goal 16, che plaude a pace, giustizia e istituzioni solide.
Il traguardo che ci si prefigge è indubitabilmente assai ambizioso ma le condizioni di partenza non sembrano le più favorevoli. Occorre considerare che solo il 32,9% dei presenti in carcere svolge attività lavorativa e, tra questi, solo il 15% lavora con imprese e cooperative esterne all’istituto, mentre l’84,47% lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria.
Se queste sono le condizioni di partenza, si profila una nuova palese lesione del principio di uguaglianza non solo formale, ma soprattutto sostanziale tra le persone private della libertà personale, tra chi riesce ad ottenere un grado minimo di formazione e chi, al contrario, trascorre la propria vita detentiva svolgendo mansioni meramente gestorie, che difficilmente potranno trovare uno sbocco nel mercato del lavoro esterno.
La situazione già preoccupante si tinge di gravità ancora maggiore se si considera l’elevatissimo tasso di sovraffolamento che, secondo i dati, a maggio 2025 si attesta sul 133% e che rende ancora più complesso ragionare in maniera individualizzata sulle esigenze dei singoli detenuti, così come prescriverebbe la Costituzione .
In uno scenario di questo genere, in attesa dell’apprestamento di risorse da destinare alla formazione lavorativa e all’istruzione, unici strumenti utili per dare una reale possibilità di reinserimento sociale, gli algoritmi predittivi potrebbero forse fornire un contributo importante nell’individuare quei soggetti che, presentando un rischio più basso e una responsività maggiore, potrebbero essere reinseriti in società con un adeguato monitoraggio e un costante accompagnamento, come avvenuto durante la pandemia da Covid-19 con il software Pattern.
Ciò potrà avvenire solo adottando tutte le necessarie cautele per garantire che i dati su cui lavora l’algoritmo non siano portatori di pregiudizi o di fallacie e tenendo sempre presente la necessità di conoscere i meccanismi di funzionamento dell’algoritmo, per cui diventa imprescindibile una migliore formazione e una maggiore collaborazione tra giuristi e informatici, tra discipline profondamente eterogenee, così da tentare almeno in parte di sanare le condizioni in cui si trovano a vivere oramai più di 62.000 persone.
In conclusione, l’uso dell’intelligenza artificiale nel contesto dell’esecuzione penale rappresenta una sfida e un’opportunità. Se adeguatamente integrati nel processo decisionale umano, gli algoritmi possono contribuire alla costruzione di percorsi personalizzati di reinserimento, in particolare valorizzando la variabile “lavoro” quale potente fattore protettivo. Ma perché ciò avvenga, è necessaria una governance trasparente, un controllo critico dei bias algoritmici e, soprattutto, politiche inclusive che offrano reali opportunità occupazionali ai soggetti che hanno scontato la pena. Solo così sarà possibile coniugare sicurezza collettiva, prevenzione della recidiva e tutela della dignità della persona.

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