TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Introduzione

Il tema della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, come è noto, riaffiora ciclicamente nell’attualità politica, sindacale e dottrinale .
Oggi, in particolare, la tematica viene rilanciata e riportata all’attenzione della riflessione scientifica da una recente legge (n. 76 del 2025), con la quale il Parlamento approva la proposta di iniziativa popolare, promossa dalla CISL nel 2023, con una serie di modifiche che ne ridimensionano fortemente la portata.
E’ da considerare di per sé un risultato assai significativo, e tutt’altro che scontato, che, dopo quasi 80 anni di attesa dall’entrata in vigore della Costituzione, e tanti tentativi falliti, il legislatore, nell’intento di rispondere alle sfide poste dalle grandi trasformazioni economiche e sociali in atto, si decida finalmente a dare seguito all’enunciazione del principio contenuta nell’art. 46, che auspicava una “collaborazione” dei lavoratori alla “gestione” delle imprese .
Eppure, tale normativa, pur confermando l’intento (meritorio) della proposta originaria di normare e codificare, sia pure attraverso un intervento di carattere soltanto promozionale , una pluralità di forme partecipative, ispirate alle best practice esistenti nella prassi negoziale, presenta non pochi limiti, come, del resto, era già in parte emerso nel corso del dibattito che ha accompagnato la sua gestazione .
Prima di iniziare l’analisi di alcune esperienze partecipative più rilevanti, può essere utile rapida riflessione sulla tecnica normativa adottata per attuare il precetto costituzionale: si tratta del modello della legislazione di sostegno, che, pur senza sancire l’obbligatorietà della forma partecipativa, individua nella contrattazione collettiva il baricentro del sistema di regolazione: ad essa si affida, in diversi casi, sia la definizione delle modalità della partecipazione sia la sua stessa istituzione.
Ebbene, potrebbe porsi il dubbio che la nuova legge, investendo la contrattazione del (possibile) ruolo di “fonte” regolatrice della materia, sia in contrasto con l’art. 46 Cost. nella misura in cui “si spoglia” di una funzione regolativa che il costituente riserva al legislatore ordinario, giungendo a scardinare gli equilibri e l’assetto delle fonti delineati in tale norma.
Tale ipotesi interpretativa potrebbe trovare qualche appiglio nella tesi dottrinale più rigorosa, sposata da chi ravvisa nell’art. 46 Cost. una vera e propria riserva di legge, giungendo a trarre da essa una implicita preclusione per il legislatore ordinario: in particolare, secondo tale autorevole dottrina, il Costituente avrebbe inteso far riferimento ad un modello partecipativo peculiare e qualificato, e, tenendo conto della nevralgicità e della particolare delicatezza della materia, avrebbe valutato l’opportunità di affidarne la regolazione alla esclusiva disponibilità del «supremo organo della legislazione»; e ciò, appunto, nella piena consapevolezza che l’introduzione di regimi di partecipazione in senso stretto (che danno luogo a una “codeterminazione di regole”) presuppone un giudizio di “bilanciamento di beni, valori e interessi di rango costituzionale”.
Sennonché, come si è avuto modo di osservare in passato, la formula di rinvio contenuta nell’art. 46 Cost. può essere interpretata in modo non dissimile da altre formule di rinvio adottate nella Costituzione (artt. 40, 36 co, 2), per cui tale norma si presta anche a letture più aperte: proprio in ragione del carattere di indefinitezza che la contraddistingue, sembra infatti plausibile l’idea che il Costituente abbia assunto un atteggiamento prudente, nel senso di lasciare ampia libertà (anche) nella scelta degli strumenti e delle tecniche regolative attraverso cui attuare la collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, mantenendo, così, aperta la possibilità di tradurre il precetto in esso contenuto anche tramite la riserva alla contrattazione collettiva di uno spazio di regolazione con riguardo all’istituzione di meccanismi partecipativi.
Interpretando la formula contenuta nell’art. 46 Cost. alla luce di un’interpretazione sistematica con il co. 1 dell’art. 39 Cost., si può ammettere, con tutta tranquillità, che la contrattazione collettiva, specie se in presenza di un quadro legislativo di sostegno, come accade oggi con la l. n. 76 del 2025, possa essere considerata una “fonte” legittimata ad istituire e regolare meccanismi e prassi partecipative (e forse anche regimi di partecipazione “forte”) .
Peraltro, sotto questo profilo è opportuno ricordare che il nostro sistema costituzionale mostra una apertura anche maggiore rispetto ad altri (si pensi al Grundgesetz tedesco), in quanto l’art. 39 non interviene, come invece l’art. 9, Abs. 3 del GG, a circoscrivere in via eteronoma l’ambito che può essere oggetto di regolamentazione del contratto collettivo.
Se, dunque, la legge conferisce, nella specie, ai soggetti collettivi un potere di regolazione che essi già detengono in virtù della garanzia costituzionale della libertà sindacale (quello di definire le modalità della partecipazione), ciò non significa che la fonte negoziale, nell’esercizio di tale potere normativo, goda di uno spazio di manovra illimitato nell’individuare le forme, le modalità ed il grado della partecipazione.
Si deve ritenere che la legge, attraverso la delega, affidi, implicitamente, all’autonomia collettiva anche il compito di operare un corretto bilanciamento di beni, valori e interessi di rango costituzionale. Gli accordi sindacali, essendo chiamati in virtù della delega legale ad attuare anche il principio costituzionale di cui all’art. 46 Cost., devono porre in essere discipline sugli istituti partecipativi che siano idonee a garantire l’effettivo esercizio dei diritti di coinvolgimento dei lavoratori e a realizzare il cotemperamento tra il diritto di collaborazione alla gestione dell’impresa di cui all’art. 46 Cost. e gli altri diritti di libertà che trovano un riconoscimento diretto nella Costituzione, come ad es., la libertà della iniziativa economica (art. 41, 1° co. Cost.) a cui è connessa la garanzia della proprietà (art. 42 Cost.): del resto, è lo stesso art. 46 Cost. a porre l’accento, tra l’altro, sulla necessità che il diritto a collaborare venga riconosciuto in armonia con le “esigenze della produzione”.
E’ pur vero che, al contrario di quanto accade in presenza di altri rinvii legislativi al contratto collettivo (si pensi alla delega agli accordi sulle prestazioni indispensabili prevista dalla normativa l. 146/1990, nel caso del diritto di sciopero nei servizi essenziali, per garantirne il contemperamento con altri diritti costituzionalmente garantiti), la legge n. 76 non sembra preoccuparsi più di tanto del fatto che il diritto di partecipazione sia effettivo e sia esercitato con modalità idonee a garantire gli altri diritti costituzionalmente tutelati ; il che potrebbe giustificarsi in ragione della circostanza che, come si evince dall’analisi che segue, nell’attuale momento storico raramente nella prassi negoziale l’influenza dei lavoratori sulle decisioni giunge a toccare le scelte strategiche e può essere dunque in grado di compromettere un’efficiente conduzione aziendale .
In ogni caso, anche se il legislatore non determina con chiarezza le forme, il grado e i limiti in cui il diritto di partecipazione (consultiva, gestionale o economica etc.) può avere giuridica esplicazione tramite una previsione negoziale, non c’è dubbio che dal nostro sistema costituzionale, oltre che dall’ordinamento societario, possano essere dedotti eventuali limiti in grado di condizionare i possibili modi in cui un contratto collettivo può instaurare i modelli di partecipazione .
Lasciando da parte tali aspetti, è ora necessario interrogarsi in merito alle prospettive concrete che la nuova disciplina potrebbe aprire nel nostro sistema dal punto di vista di una effettiva praticabilità ed estensione degli istituti partecipativi.
Ciò che porta a guardare con forte scetticismo le potenzialità di una generalizzazione delle prassi partecipative è, anzitutto, la decisione del legislatore di ridurre al minimo lo spazio delle previsioni cogenti e prescrittive, privilegiando un impianto, per così dire, promozionale e volontaristico.
L’approccio volontaristico, specie se sostenuto dall’uso di forme di incentivo, potrebbe, certo, favorire l’apertura di nuove strade all’iniziativa delle parti, giacché il contratto collettivo (aziendale), come si sa, si contraddistingue (rispetto alla fonte legale) per la duttilità e la flessibilità (e, certamente, si pone in linea con la nostra tradizione delle relazioni industriali).
Tuttavia, sarebbe illusorio attendersi che una normativa dai caratteri estremamente soft, come quella in esame, possa imprimere un radicale riorientamento del sistema delle relazioni industriali: con riferimento a ciascun istituto partecipativo, il legislatore rinuncia ad imporre in via diretta ed obbligatoria qualsiasi tipo di scelta: ciò finisce per sovraccaricare di funzioni il contratto collettivo (e dunque il canale sindacale), al quale si affida il più delle volte tanto la scelta di istituire le forme partecipative quanto le decisioni riguardanti la regolazione delle stesse (soggetti titolari dei diritti di partecipazione, ambiti, livelli e contenuti di tali forme) .
Persino con riguardo alle forme di partecipazione che trovano maggiore riscontro nella prassi negoziale italiana, vale a dire quella consultiva ed organizzativa (forme utilizzate anche negli esperimenti aziendali che saranno oggetto di esame), la normativa, anziché rafforzare i diritti già esistenti, utilizza formule dotate di limitato contenuto precettivo: in particolare essa prefigura un meccanismo consultivo assai debole, che si limita a condizionare l’esercizio del potere decisionale al previo esperimento di una sequenza di passaggi procedurali, senza spingersi ad imporre un vero e proprio obbligo a negoziare.
Come insegna l’esperienza comparata, la partecipazione richiede una normativa che, anzitutto, introduca senza forzature, elementi omogenei e generalizzabili ; in ogni caso, essa presuppone regole (legali) di funzionamento del sistema contrattuale assai efficaci e precise (in particolare, regole su agenti negoziali e rappresentatività) .
L’opzione per una via negoziale “pura”, che, in qualche modo sminuisce il ruolo di regolazione della fonte eteronoma, lascia sul tappeto i principali nodi messi in luce da tempo nella letteratura, come quelli legati, ad es., alla precisa individuazione dei soggetti attraverso i quali si esercita la partecipazione, alle forme e alle materie oggetto della stessa, al tipo di coinvolgimento del sindacato, al rapporto tra contratto collettivo e partecipazione, all’apparato sanzionatorio in caso di violazione degli obblighi di partecipazione, nonchè alle forme di azionariato collettivo .
L’impressione è che il legislatore sia ispirato più da un disegno di carattere politico/propagandistico che non da un reale intento riformatore.
Le (pur limitate) aperture compiute dagli attori collettivi, che, in occasione del documento unitario di Cgil, Cisl e Uil del 14 gennaio 2016 e soprattutto del c.d. Patto per la fabbrica sottoscritto il 9 marzo 2018, siglato Confindustria e Cgil, Cisl, Uil, avevano iniziato a mostrare una convergenza di posizioni, non trovano una sponda adeguata nella nuova normativa, che, del resto, è sorretta dal consenso di una soltanto delle principali Confederazioni, ossia la Cisl, divenuta ormai interlocutore privilegiato del Governo.
Ad ogni modo, se nella nuova normativa si può cogliere una decisa propensione del legislatore, una sorta di favor, verso le scelte compiute dall’autonomia collettiva (che ne costituiscono, come s’è ricordato, anche la fonte d’ispirazione), appare oggi a maggior ragione opportuno riportare al centro dell’attenzione le vicende più significative della prassi negoziale, con uno sguardo rivolto anche al passato, per registrare, anzitutto, i fermenti e le indicazioni che provengono, allo stato, dal mondo sindacale con riguardo alla concreta realizzazione di forme partecipative. Ciò potrebbe consentire di valutare, in prospettiva, se ed in che misura i profondi e rapidi cambiamenti connessi alla transizione digitale (ed ecologica) e alla necessità di migliorare la qualità del mix produttivo italiano (ma non solo) possano effettivamente sollecitare la richiesta di una maggiore condivisione del processo decisionale da parte dei lavoratori ed aprire nuove e più significative prospettive.
Il presente intervento, concentrando, dunque, il focus sulla partecipazione in action, partirà da una breve ricognizione critica delle esperienze comunemente considerate più virtuose, sviluppatesi in passato nelle relazioni industriali italiane, per poi puntare l’attenzione su una delle più recenti ed innovative sperimentazioni, quella in Lamborghini, che, non a caso, viene individuata, anche nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge Cisl, come laboratorio di sperimentazione di modelli innovativi di relazioni industriali a cui ispirarsi.
In tal modo, sarà possibile verificare se ed in che misura l’impostazione e le scelte che compie oggi il nostro legislatore per costruire il futuro trovino riscontro nei caratteri strutturali del nostro sistema e segnino effettivamente un passo in avanti nel modo di concepire il rapporto dei lavoratori con l’impresa.

2. Le esperienze di partecipazione in Italia. Il Protocollo IRI: cenni

Nonostante la spinta impressa dall’ordinamento europeo, che esprime da tempo in diverse e ben note direttive un favor per relazioni industriali tendenzialmente cooperative, come è noto, il nostro paese ha mostrato, tradizionalmente, un sostanziale disinteresse verso il tema sia sul piano normativo sia su quello dello svolgimento effettivo delle relazioni in azienda. Lo sviluppo del modello partecipativo ha storicamente incontrato forti ostacoli connaturati alla nostra storia economica e politico-sociale ; ostacoli, questi, di diverso tipo: ideologico, psicologico collettivo, culturale, legati a contingenze storiche .
Come mostrano anche le più recenti ricerche “sul campo” nel nostro sistema le esperienze partecipative non sono mancate : a partire dagli anni ’80 e soprattutto negli anni ’90 si è intensificato non solo il dibattito, ma anche le realizzazioni partecipative. Sebbene negli ultimi tempi la partecipazione sembri essere oggetto di un rilancio, i casi di successo – come confermano tali ricerche – restano però ancora episodici e marginali. Peraltro, gli esperimenti più recenti sembrano in qualche misura riecheggiare le principali vicende emerse a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, di cui il c.d. protocollo IRI rappresenta, senz’altro, il progenitore.
I tratti che accomunano il modello italiano di partecipazione sono diversi: i meccanismi partecipativi si sviluppano su base contrattuale e volontaria nel senso che trovano la loro fonte nell’autonomia collettiva (c.d. partecipazione “contrattuale”) e si muovono prevalentemente nella sfera dei diritti di informazione e consultazione senza mai tradursi nella sostanza, salvo forse limitate eccezioni, nella condivisione del potere decisionale su materie importanti .
L’esperienza italiana anzitutto conferma che tra contrattazione e partecipazione non deve necessariamente ravvisarsi dicotomia ed antagonismo giacché i due metodi di regolazione delle relazioni nell’impresa possono raccordarsi ed interagire, integrandosi in modo sinergico (pur se la seconda viene concepita, come spesso accade, come ancillare, vicaria, rispetto alla prima): esemplare, al riguardo è l’esperienza Lamborghini (v. infra); anche chi, semplificando, ha parlato di un “duello” nel quale la contrattazione prevale nettamente sugli strumenti partecipativi, ammette che “questo è stato uno di quei duelli nel quale il vincitore non solo non ha infierito sul vinto ma lo ha aiutato, anzi, a rialzarsi e a riprendere il cammino” .
Molteplici possono essere le ragioni che inducono azienda e sindacati ad istituire, tramite la via negoziale, una formula partecipativa: si tratta di ragioni in gran parte collegate alle caratteristiche del contesto aziendale. Molte delle vicende a cui si fa riferimento più avanti derivano da un’iniziativa imprenditoriale, sostenuta in misura più o meno rilevante dall’autonomia collettiva, tesa a rendere più efficiente l’organizzazione, a precostituire uno strumento di dialogo con i lavoratori, rappresentati dai sindacati, disponibili all’innovazione in funzione dell’efficienza. Il più delle volte l’intento è di fronteggiare una ristrutturazione e quindi in qualche modo di attutire la tensione su processi di razionalizzazione organizzativa, riconversione organizzativa e riduzione dei posti di lavoro .
L’insegnamento che si trae dall’analisi degli esperimenti più innovativi conferma che per incoraggiare meccanismi partecipativi è essenziale la presenza di una tradizione di relazioni industriali stabili e collaborative ispirata da un clima di fiducia reciproca. Il presupposto per favorire tali processi è la disponibilità degli attori collettivi a mantenere unità e coesione organizzativa: in sintesi, come è stato rilevato autorevolmente “sul versante sindacale queste prassi si sono consolidate per la presenza di rappresentanze sindacali stabili e avvezze a praticare unitariamente esperienze di partecipazione” .
Le esperienze più innovative, come si diceva, iniziano a prendere corpo nella seconda metà degli anni ’80 nell’ambito delle grosse realtà industriali italiane, specie se controllate dallo Stato: la formula partecipativa nasce per fronteggiare la necessità impellente di aggiornarsi al progresso tecnologico o per porsi come alternativa alle strategie di gestione aziendale diretta ed unilaterale adottate in quegli anni da imprese come la Fiat.
In particolare, sono le aziende IRI che fin dai primi anni ottanta avviano gli esempi più significativi di partecipazione tramite la via negoziale: si deve menzionare in particolare il Protocollo IRI , che può essere considerato il tentativo più ambizioso, e forse più avanzato, di istituzionalizzazione della partecipazione in Italia .
Già allora viene consacrata l’idea del controllo sindacale “esterno” sulle scelte, e l’impresa viene obbligata ad una condivisione degli obiettivi: a tal fine, viene prevista la creazione a più livelli - di settore, di azienda, di gruppo, territoriale - di comitati consultivi paritetici formati da rappresentanti delle parti, con poteri consultivi (espressi tramite pareri obbligatori, ma non vincolanti). L’aspetto decisamente innovativo di tale esperienza è tuttavia costituito, come noto, dalla presenza di elementi che connotano tipicamente i meccanismi istituzionali di partecipazione e che poi ritroveremo anche in esperienze recenti più avanzate (infra): ai poteri consultivi dei comitati si accompagnano alcune limitazioni alla autonomia e libertà di azione delle parti che si traducono nella previsione di impegni sindacali alla moderazione della conflittualità. Vale a dire, quello che Massimo D’Antona denominava, con una espressione suggestiva, “il retrobottega della partecipazione” .
Il tentativo di istituzionalizzazione della prassi partecipativa – compiuto con il protocollo IRI e con quelli successivi – viene tuttavia considerato da molti fallimentare e deludente , e in ogni caso appare destinato ad un precoce isterilimento per cause diverse: ciò, anzitutto, perché l’influenza dei lavoratori sulle decisioni non giunge a toccare le scelte strategiche: alcuni autori pongono l’accento sulla “mancanza di uno sbocco certo dell’opera partecipativa posta in essere dai comitati, l’attività dei quali – pur accumulando una notevole esperienza tecnica – non (va) oltre la formulazione di un puro e semplice parere non vincolante” ; peraltro, la base esclusivamente contrattuale determina “una grave debolezza degli assetti ed una reversibilità volontaria (magari al mutare delle condizioni di partenza) che certo non (favorisce) il mantenimento di comportamenti collaborativi nel lungo periodo” . Nonostante il progressivo abbandono del Protocollo IRI nella successiva fase si assisterà tuttavia ad una ripresa e ad un’intensificazione di esperienze, alcune delle quali avranno però una storia a sé (v. infra) .
Quasi mai, tuttavia, gli esperimenti aziendali successivi faranno tesoro dell’intuizione contenuta nel modello IRI: e cioè che affinché la formula partecipativa, ritenuta senz’altro utile per dare impulso, come fattore di pressione endogena, al necessario processo di aggiornamento organizzativo, possa avere esiti positivi, è necessario garantire una netta distinzione tra gli organismi partecipativi e le rappresentanze sindacali in azienda, evitando un sovraccarico di funzioni in capo ad un solo organo per la contrattazione, ed eventualmente anche per la partecipazione .

3. Il protocollo Tim

Nonostante l’avvio di una fase di intense privatizzazioni concorra a determinare il progressivo tramonto della stagione dei protocolli, negli anni successivi, come anticipato, l’autonomia collettiva, pur in assenza di un sostegno legale, non rinuncia ad avviare nuovi esperimenti partecipativi di diversa portata e natura, anche assai elaborati, sia nelle aziende a partecipazione pubblica (Eni, Fin meccanica) sia nel settore privato (Tim, Electrolux-Zanussi, Lamborghini-Ducati). Particolarmente istruttiva sembra essere anzitutto la vicenda, sia pure minore, che si realizza in Tim: qui il sistema partecipativo si caratterizza, anzitutto, per la «leggerezza», giacché, nel momento in cui il protocollo istituisce nuove sedi di confronto e modella istituzioni cooperative, limita tuttavia al minimo indispensabile le prescrizioni di tipo procedurale. In tale vicenda le parti finiscono in qualche misura, sia pure in modo sperimentale, per costruire un complesso modello che racchiude una varietà di forme di partecipazione collocabili su diversi gradini: esso, attraverso un articolato sistema di informazioni, “postula un consolidamento della trasparenza informativa delle scelte aziendali, istituisce sedi che esprimono pareri” , fino a giungere – sia pure in ambiti limitati – a forme considerate di vera e propria codecisione delle scelte d’impresa.
Al fine di realizzare un elevato grado di trasparenza nelle decisioni dell’azienda, e di consentire un coinvolgimento più o meno sistematico dei lavoratori sulle principali scelte strategiche, viene istituito anche qui un organismo paritetico articolato a sua volta in due livelli, uno centrale e uno periferico, e si prevede che il processo informativo avvenga con una notevole frequenza (molto maggiore di quella normalmente prevista in accordi similari, a intervalli trimestrali) non solo per favorire la fluidità del confronto, ma anche in considerazione della grande rapidità con cui evolve il contesto tecnologico, organizzativo e di mercato nel settore della telefonia mobile.
Occorre sottolineare che in questa realtà aziendale il coinvolgimento non si risolve solo in uno scambio di informazioni, ma avviene anche attraverso “un confronto tra azienda, sindacati e Rsu, che può portare ad esprimere raccomandazioni (se espresse all’unanimità) ovvero osservazioni, alle quali è possibile attribuire il valore di autorevole orientamento per le scelte dell’impresa, qualora si tratti di pronunciamenti riguardanti appunto le strategie aziendali, ovvero di atti preparatori di intese contrattuali, quando si tratti di questioni riguardanti le condizioni lavorative” .
L’esperienza presenta certamente risvolti inediti: il modello partecipativo “nasce non tanto come il prodotto dell’evoluzione di un preesistente sistema di relazioni contrattuali, ma è in buona misura pensato come incubatrice per favorirne lo sviluppo” .
Per la verità su un successo di tale modello non verranno mai nutruite molte aspettative: tensioni latenti e micro e macro conflitti potenziali sono dovuti a cause di vario genere, in parte legate alla composizione eterogenea della forza lavoro, in parte all’esistenza di un sistema di relazioni sindacali molto accentrato (non esisteva contrattazione decentrata, ma soprattutto non vi erano strutture specializzate per affrontare i problemi del lavoro nelle sedi territoriali), e contribuiranno a far sì che il sistema prefigurato dal protocollo resterà solo sulla carta anche a causa delle vicende successive al varo dell’accordo.
I modi di designazione e i compiti degli organismi paritetici sono congegnati attentamente in modo da far sì che la partecipazione possa svolgere un ruolo complementare rispetto a quello esercitato dalla contrattazione collettiva senza dunque invadere il terreno dell’azione sindacale: a tal fine si prevede che la quota dei lavoratori venga eletta in parte dalle Rsu e in parte nominata dai sindacati firmatari del protocollo; cruciale è anche la distinzione tra le materie oggetto della partecipazione e quelle oggetto della contrattazione.
Quanto all’esperienza applicativa, l’attività degli organismi paritetici isituiti sul versante nazionale, almeno in una prima fase, produce risultati confortanti giacché contribuisce al miglioramento del clima di relazioni sindacali interno all’azienda a fronte di un confronto in seno agli organismi paritetici sulle principali scelte aziendali di carattere «strategico» (processi di esternalizzazione, iniziative sociali) e sulle prevedibili conseguenze sulle condizioni di lavoro: il confronto, infatti, non solo consente un reciproco arricchimento informativo delle parti, ma svolge anche una funzione istruttoria e promozionale della contrattazione collettiva, agendo da stimolo per essa, come attesta il «pacchetto» di accordi sindacali su materie delicate della vita aziendale (premio di risultato, tempo di lavoro e sperimentazione di regimi di flessibilità, telelavoro).
Più deludente si rivela invece il funzionamento delle strutture partecipative previste a livello territoriale, che svolgono un’attività per lo più episodica, e soprattutto carente sul piano propositivo. Nella periferia dell’azienda l’esperienza applicativa sconta infatti l’esistenza, da un lato di una “cultura manageriale certamente eterogenea, ma con notevoli venature paternalistico-autoritarie”, e, dall’altro, di un “mondo sindacale restìo a immergersi senza pregiudizi nello spirito della partecipazione” .
In particolare traspare “una mancanza di abitudine al dialogo in una parte del management che, (…), (induce) in alcune occasioni i membri dell’organismo di parte aziendale ad assumere un atteggiamento di difesa del proprio àmbito operativo rispetto alle «intrusioni»” dell’organismo paritetico. Da parte sindacale, non diversamente da quanto avvenuto in occasione di altre vicende precedenti emergono forti divergenze fra le maggiori centrali sindacali. Mentre i vertici nazionali dei sindacati di categoria di Cisl e Uil mostrano un atteggiamento “durevolmente cooperativo, e motivato a sostenere il successo dell’esperimento”, la Cgil manifesta invece nei confronti della partecipazione un’evidente diffidenza, anzitutto «culturale», “mantenendosi sempre ai margini sia nella fase della preparazione del protocollo che nelle prime fasi della sua implementazione” .

4. La vicenda Electrolux-Zanussi

Nello scenario delle relazioni industriali italiane quella di Electrolux-Zanussi, multinazionale di casa madre svedese, è storicamente considerata una delle esperienze più compiute ed avanzate di democrazia industriale. Contrariamente agli altri tentativi precedenti, rimasti per lo più “sulla carta” (dal Protocollo IRI, al Protocollo Telecom), come rileva Adalberto Perulli in uno scritto del 2005 , il sistema Zanussi, almeno per un certo periodo, ha concretamente funzionato nel sistema intersindacale, ha realmente inciso sull’andamento delle relazioni collettive, “ha orientato il comportamento degli attori sociali e prodotto, almeno in certi momenti “alti” dell’esperienza, una reale condivisione nel funzionamento organizzativo tra dipendenti e management aziendale” .
Lo sviluppo di tale vicenda segue, tuttavia, chiaramente l’andamento di una parabola: dopo aver vissuto effettivamente una fase “aurea” di espansione, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, in concomitanza con un periodo di crescita economica del gruppo, dando vita ad una reale condivisione della filosofia partecipativa da parte del sindacato, a partire dai primi anni Duemila, il sistema precipita poi in una crisi, e, in seguito ad una rottura del fronte sindacale a livello nazionale, in particolare, «dopo il ritiro della Fiom-Cgil dai suoi più significativi meccanismi di gestione» , finisce per essere sostanzialmente disapplicato.
In ogni caso, il modello zanussiano suscita ancora notevole interesse per un diverso ordine di ragioni.
Anzitutto, esso presenta una variante inedita per quanto attiene alla tecnica partecipativa: volendo immaginare idealmente le diverse forme partecipative (dalla contrattazione ai meccanismi propriamente cogestionali) come un continuum di intensità, tale modello potrebbe forse collocarsi su un gradino più elevato, almeno rispetto alle esperienze tradizionali. L’organismo congiunto più rilevante (Commissione tecnico-paritetica, Cotepa) non è un mero organo specializzato di consultazione, che esprime un «parere obbligatorio non vincolante» ma è investito di un rilevante potere decisionale, con riguardo a istituti e pratiche legati, in buona misura, ai processi di regolazione dell’organizzazione del lavoro , che oltrepassa sia gli schemi del metodo contrattuale puro e semplice, sia quello meramente consultativo: “si esce così dal ritualismo formale dell’informazione/consultazione e si rende residuale il ricorso alla decisione unilaterale” .
Non siamo certo dinanzi ad un’esperienza così evoluta, come quella della Mitbestimmung tedesca: il Cotepa non è un organo super partes e, comunque, gioca all’interno del processo decisionale un ruolo ben diverso rispetto a quello del Betriebsrat tedesco: e infatti, in base al Protocollo, l’impresa non ha alcun obbligo di stipulare un accordo con tale organismo; al contrario, con la regola dell’unanimità (art. 31, co. 3) il T.U. – come chiarisce Adalberto Perulli – finisce per lasciare alle parti la scelta di restare in disaccordo e di non raggiungere a tutti costi una decisione. Tuttavia, il sistema che si sviluppa in Zanussi si contraddistingue in quanto contribuisce in concreto ad offrire al sindacato un’opportunità di maturazione “culturale” nella misura in cui impone all’impresa di far comprendere alla controparte le decisioni che intende assumere per fronteggiare la transizione verso nuovi modelli di organizzazione del lavoro, precostituendo un momento di dialogo con i lavoratori per risolvere i problemi aziendali . L’obiettivo non può che essere, anzitutto, quello di prevenire o ridurre la micro-conflittualità; ma viene anche avvertita la necessità di affermare uno spazio democratico all’interno di un’impresa del gruppo, la cui la casa madre svedese ha sede in un paese con tradizioni consolidate di partecipazione.
In secondo luogo, l’architettura istituzionale del sistema zanussiano fa perno su un ulteriore organismo di natura sindacale , il Comitato di sorveglianza, che, prendendo spunto dalle esperienze più avanzate di azionariato dei dipendenti, va ad affiancare il Cotepa allo scopo di garantire che i lavoratori coinvolti nel rischio di impresa attraverso gli schemi di remunerazione del lavoro legati alla performance dell’impresa abbiano un adeguato accesso all’informazione e al controllo sulle scelte strategiche dell’impresa, suscettibili di avere ricadute sull’entità di salario variabile concretamente erogata .
Sennonché, l’esperienza applicativa mostrerà che tale organismo non funziona o comunque funziona in modo poco efficace. Le ragioni sono di ordine diverso.
Anzitutto, un serio condizionamento ex ante delle scelte decisionali, che possono comportare conseguenze negative nelle relazioni interne (si pensi all’introduzione di nuove tecnologie), non pare che tale organismo l’abbia avuto. E su ciò ha pesato, probabilmente, lo squilibrio tra il potere di “codeterminazione” ravvisabile nella Cotepa ed un potere soltanto consultivo nel Comitato di sorveglianza .
Contrariamente a quanto avvenuto con altre multinazionali in tal caso, la penetrazione dei principi fondativi della casa madre basati sulla condivisione sulle scelte riorganizzative non è stata favorita attraverso una cooperazione sindacale a livello transnazionale tra strutture sindacali territoriali, che, invece, altrove è stata cruciale (v. infra il caso Lamborghini).
E questo si giustifica probabilmente in quanto la strumentazione sovranazionale e transnazionale che tutela i diritti di informazione e consultazione nei luoghi più impervi per la partecipazione, ossia le imprese multinazionali, negli anni ’90 è ancora in fase di costruzione. Come è noto, solo nel nuovo millennio inizieranno a trovare un riconoscimento nell’ordinamento europeo le istanze per edificare un tessuto di relazioni industriali partecipative a tutela degli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori delle aziende che fanno parte delle catene transfrontaliere del valore.
Da qui uno dei punti deboli di tale esperimento, ravvisato nella circostanza che “la possibilità di incidere sulle strategie aziendali risulta irrimediabilmente indebolita dall’esistenza di un ulteriore livello decisionale, costituito dalla relazione tra Electrolux Italia e la corporate svedese” . Di fatto il sindacato si ritrova relegato in una posizione scomoda nella quale viene chiamato a contribuire a risolvere i problemi, ma come accade in qualsiasi partecipazione ‘contrattuale’ incontra non poche difficoltà ad arrivare tempestivamente a monte delle grandi scelte strategiche condizionanti tutte le altre, restando completamente al di fuori degli stessi luoghi ufficiali in cui esse maturano.
In terzo luogo, il modello contempla alcuni elementi necessari ai fini della sua «coesione», quali, in particolare, il c.d. principio di buona fede (punto 2 del Preambolo), concepito per valorizzare un’aspettativa condivisa di cooperazione, il principio della contitolarità negoziale (art. 3 T.U.) e la clausola di raffreddamento dei conflitti (art. 4 T.U.) in sintonia con la tradizione contrattualistica e la vocazione procedurale del modello svedese. Il riconoscimento di poteri partecipativi in capo agli organismi congiunti su materie tipiche della responsabilità aziendale, e quindi non facilmente contrattabili, si accompagna alla scelta di mantenere il canale unico di rappresentanza (i componenti degli organismi congiunti sono lavoratori dell’unità produttiva nominati dalla Direzione per la parte aziendale e dalla Rsu, anche su proposta delle Organizzazioni Sindacali territoriali, per la parte sindacale).
L’idea di ispirarsi ad un modello nel quale le forme partecipative traggono origine dalla contrattazione collettiva e sono basate sul monopolio del sindacato non impedisce però di scongiurare il rischio di una potenziale concorrenza tra forme diverse di azione collettiva (negoziale e partecipativa). Le resistenze culturali non tarderanno a creare un diffuso malessere derivante dal fatto che, come spesso accaduto in passato nelle consolidate esperienze straniere in tema di comitati misti, i componenti di parte sindacale del Cotepa tendono a percepire la Commissione come uno strumento volto a promuovere gli interessi della direzione. Peraltro, la stessa azienda sembra sostenere una politica volta a scavalcare e delegittimare la Commissione nella misura in cui tende a coinvolgere direttamente i lavoratori interessati di volta in volta sulle diverse questioni, mettendo in condizione il Cotepa di intervenire solo successivamente, e cioè solo quando i giochi sono già fatti per fare i conti con le conseguenze di scelte già prese .

5. La vicenda Ducati-Lamborghini e la sua genesi

Venendo alla stagione più recente di evoluzione del nostro sistema di relazioni industriali le ricerche condotte sinora fanno emergere pratiche partecipative di matrice diversa che si distinguono nelle forme e nei contenuti : da un lato, si riscontrano esperimenti di “regolazione congiunta dell’innovazione” orientati a rafforzare la capacità di innovazione delle imprese e garantire la valorizzazione del lavoro , dall’altro, prassi partecipative derivanti dalla presenza di gruppi multinazionali esteri (in particolare tedeschi) in Emilia-Romagna, che investono in imprese che producono prodotti di qualità e media e alta tecnologia.
In quest’ultimo ambito si iscrivono le esperienze di partecipazione che maturano presso due aziende di dimensioni medio-grandi, quali Automobili Lamborghini e Ducati su cui concentreremo la nostra attenzione giacché, da un certo punto di vista, esse rappresentano un laboratorio di sperimentazione di modelli innovativi di relazioni industriali. Si tratta di casi emblematici, che, se non altro, dimostrano come, a certe condizioni, contrariamente alle conclusioni che potrebbero trarsi da altre esperienze passate, una pacifica coabitazione tra il sindacato, per come si è affermato nella realtà emiliana, e talune forme di partecipazione, pur essendo impegnativa e difficoltosa, non sia affatto impossibile.
Prima di iniziare l’analisi del sistema di relazioni industriali in Lamborghini e in Ducati può essere anzitutto utile evidenziare alcune specificità di fondo che concernono il contesto di tali imprese, e che possono servire a comprendere meglio l’evoluzione di ciascuna vicenda. La realizzazione di un esperimento effettivo e virtuoso di partecipazione strutturata è propiziata infatti da fattori aziendali del tutto peculiari legati soprattutto (ma non solo) alle vicende proprietarie di tali aziende, in particolare all’acquisizione delle due aziende bolognesi nel gruppo Volkswagen, che, notoriamente, costituisce l’esperienza partecipativa più consolidata nel contesto tedesco .
La Lamborghini viene rilevata nel 1998 – dopo diversi passaggi societari avvenuti negli anni precedenti – dalla casa automobilistica tedesca Audi (la Ducati, invece, nel 2012), una delle società controllate del gruppo Volkswagen (VW), che intraprende un ambizioso piano di rilancio e di valorizzazione con massicci investimenti e scelte strategiche innovative di ristrutturazione (come specificato nel contratto collettivo aziendale del 12 novembre 1999). In tale contesto il cambio di proprietà contribuisce a dare un forte impulso ad un nuovo approccio delle relazioni industriali, creando condizioni assai favorevoli allo sviluppo della contrattazione d’azienda; elemento, questo, tutt’altro che scontato.
Non è però solo la presenza tedesca nella realtà industriale in esame ad aver concorso a “rivoluzionare” la filosofia preesistente. Intanto, non può escludersi che – come è accaduto anche in esperimenti precedenti – nel caso degli accordi “partecipativi” siglati in Lamborghini (così come in Ducati) abbiano giocato anche questioni di immagine: a tal riguardo, l’esigenza di rilanciare l’immagine di un diverso stile nella conduzione delle relazioni collettive viene avvertita già a partire dagli anni ’90 al fine di incoraggiare gli investitori a fronte di momenti di crisi e di incertezza.
Si è poi voluto cogliere in Lamborghini la specificità del quadro di riferimento politico-sindacale: la presenza ben radicata di un sindacato forte (considerati i tassi di sindacalizzazione assai elevati in tale realtà) , la Fiom/Cgil, che, godendo storicamente di un consenso assolutamente maggioritario in azienda, può assumere una posizione coesa a favore della partecipazione, si rivela uno strumento strategico per migliorare ed incrementare la produttività e la competitività dell’azienda. Si tratta di un prerequisito significativo giacché il sindacato non è costretto ad affidare alla (sola) direzione il compito di guidare l’esperimento.
Tutt’altro che irrilevante nel contesto delle relazioni sindacali in Lamborghini è poi la circostanza che già prima dell’acquisizione da parte di VW (e dell’introduzione di meccanismi partecipativi) viene introdotto un impegno sindacale alla moderazione della conflittualità, che è in genere considerato un fattore necessario ed imprescindibile per poter immaginare una partecipazione in senso proprio. In particolare, al fine di prevenire il conflitto, le parti firmatarie di un contratto di secondo livello, siglato nel 1995, prevedono una clausola di raffreddamento, con la quale in caso di controversie aziendali viene interdetto, per un certo periodo, il ricorso ai rispettivi mezzi di azione diretta, tra cui lo sciopero .
Come è noto, tali vicende non sono prive di precedenti nel nostro ordinamento sindacale , che, anzi, viene periodicamente interessato dalla stipulazione in sede collettiva di clausole limitative dello sciopero, ma è significativo che esse, come s’è visto, compaiano sistematicamente nel classico armamentario utilizzato in occasione degli esperimenti partecipativi più avanzati (per es.: Protocollo Iri, Zanussi), e ciò proprio con l’intento di rafforzare l’osservanza delle procedure di prevenzione dei conflitti aziendali.
Insomma, anche in Lamborghini, come accade in altre simili realtà aziendali, a fronte della necessità di garantire la tenuta dell’azienda e di intraprendere azioni volte all’ammodernamento degli impianti, alla razionalizzazione e ristrutturazione dei processi produttivi e alla riconversione tecnologica, la “pace aziendale” diviene un fattore cruciale, per cui l’impresa, al fine di assicurarsi in maniera stabile il consenso dei lavoratori, si mostrerà interessata a creare un dialogo con le rappresentanze sindacali in modo da prevenire quanto più possibile, anziché comporre a posteriori, i conflitti di lavoro.
Lo stabilimento di Sant’Agata Bolognese nel quale ha sede l’azienda, già al momento del passaggio ad Audi, si caratterizza dunque per la presenza di un clima di fiducia e di cooperazione nelle relazioni industriali, come testimoniano i bassi livelli di conflittualità. Il sindacato maggioritario non si oppone all’arrivo dei tedeschi giacché, probabilmente, intravede un’opportunità di crescita “culturale” nel disegno volto a migliorare la trasparenza nei rapporti collettivi. Le prassi e i comportamenti partecipativi ispirati ai principi fondativi del sistema da cui proviene la casa madre verranno così metabolizzate senza troppe difficoltà.
Eppure, i cambiamenti dell’organizzazione produttiva avrebbero potuto condurre già in origine ad una linea di condotta ben diversa. Già le prime decisioni sembrano avere un impatto dirompente ed esiti contraddittori: ad esempio, a fronte di alcune scelte per abbattere i costi, come la chiusura del reparto di verniciatura, si decide di realizzare una piccola vettura, la Gallardo, con notevoli ripercussioni sui processi produttivi e sui modelli di organizzazione del lavoro: si passa, così, da una produzione molto artigianale, legata alle sole competenze locali di maestranze e tecnici, ad una produzione in serie, con una organizzazione standardizzata del lavoro ed una sperimentazione di nuove tecnologie all’avanguardia .
E’ del tutto comprensibile poi che, agli occhi della Cgil, l’acquisizione delle aziende bolognesi da parte di VW (per il tramite di Audi) e lo spostamento della sede centrale in Germania siano visti come una seria minaccia per il futuro dello stabilimento nella misura in cui molte delle decisioni sulle scelte produttive debbono essere prese inevitabilmente a monte, al fuori dei confini del nostro Paese, nella specie in Germania. Il rischio per il sindacato è dunque di ricadere in una condizione nella quale è chiamato a trovare una soluzione ai problemi aziendali, senza tuttavia poter avere alcuna voce in capitolo nei luoghi in cui la direzione dell’impresa esercita effettivamente le sue funzioni.
Tale rischio induce peraltro la Fiom-Cgil Bologna ad assumere un atteggiamento responsabile e mantenere una propensione alla collaborazione. Viene compreso che è necessario rinunciare ad atteggiamenti antagonistici ed abbandonare metodi di lotta basati sui rapporti di forza, adottando una strategia fortemente collaborativa non solo con il management ma anche sul fronte esterno, e in particolare con le strutture territoriali del sindacato tedesco (IG Metall di Wolfsburg). Il salto qualitativo nasce da un progetto di cooperazione sistematica promosso a livello transnazionale dai sindacati territoriali di diversi Paesi, guardando oltre i confini nazionali, in modo da considerare non solo gli interessi dei lavoratori nazionali ma anche quelli di chi è occupato in altre imprese filiali del gruppo VW (ossia le catene del valore transfrontaliere). L’idea (condivisa nella specie da IG Metall e Fiom-Cgil) è che le istanze dei lavoratori presenti nei singoli stabilimenti del gruppo possano essere protette efficacemente solo attraverso una azione sindacale che si muova in una prospettiva, per così dire, bottom-up: in altri termini, la dimensione transnazionale viene concepita come un percorso obbligato per costruire un progetto solidaristico che eviti di mettere i lavoratori di diversi stabilimenti in concorrenza tra loro .
L’aspirazione a garantire una efficace rappresentanza dei dipendenti delle imprese controllate dalla VW imporrà dunque alle strutture sindacali territoriali e nazionali un adattamento delle proprie strategie di azione, e così anche la Fiom-Cgil Bologna dovrà riposizionarsi su una scacchiera multilivello: il che richiede, anzitutto, di superare la tradizionale ritrosìa – emersa in altre realtà simili – a investire di poteri di intervento gli organismi sovranazionali di rappresentanza dei lavoratori che operano stabilmente, a livello europeo e globale, all’interno dell’impresa transnazionale, come la Federazione internazionale dei sindacati dei metalmeccanici.
Peraltro, va tenuto presente che il gruppo VW si contraddistingue rispetto ad altre realtà aziendali transnazionali poiché costituisce una delle poche multinazionali al mondo provviste, oltre che di un Comitato aziendale europeo (Cae), di un comitato aziendale mondiale (Cam) (Weltkonzernbetriebsrat) , costituito (nel 1998) per rispondere ai cambiamenti strutturali (e all’espansione) del gruppo e salvaguardare gli interessi dei lavoratori di tutte le affiliate della multinazionale (e spesso anche dei fornitori di primo livello o indiretti) mediante un’integrazione con le strutture di rappresentanza locali e nazionali .
Come sarà chiarito più avanti, la presenza del Cam giocherà un ruolo centrale per favorire l’emergere in Lamborghini (come in altre filiali di VW stabilite anche in altri Stati) di una politica di relazioni industriali basata sulla partecipazione dei lavoratori e del sindacato alla soluzione dei problemi attinenti alla gestione del personale ed all’organizzazione del lavoro. In effetti, nell’esperienza applicativa, il Cam, pur se privo di una precisa identità e base giuridica, mostrerà un atteggiamento di particolare dinamismo e porrà le condizioni per garantire uno scambio di informazioni ed una condivisione di esperienze, giungendo ad elaborare posizioni comuni (poi discusse e contrattate negli incontri con la direzione) e stipulare anche importanti accordi quadro a livello globlale volti ad espandere gli istituti partecipativi all’interno del gruppo nell’ottica di scongiurare una competizione tra i lavoratori di diversi stabilimenti.

5.1 La Charta dei rapporti di lavoro e la sua trasposizione in Lamborghini e Ducati

L’approvazione della Charta dei rapporti di lavoro per le società e gli stabilimenti del Gruppo, siglata nel 2009 come accordo quadro globale, anche dall’organizzazione sindacale mondiale IndustriALL, segna un momento di cruciale importanza per il rilancio della tematica partecipativa nelle aziende affiliate del gruppo VW, e dunque anche per Lamborghini e Ducati. Si tratta di una vicenda emblematica che attesta come la presenza di una solida dimensione transnazionale di relazioni sindacali possa creare un ambiente favorevole per creare processi di ibridazione e contaminazione tra diverse culture sindacali e modelli di relazioni sindacali .
L’idea su cui si basa la Charta è che la partecipazione costituisce un ingrediente fondamentale per poter affrontare i profondi cambiamenti legati all’innovazione tecnologica e all’organizzazione del lavoro, e dunque è strettamente necessaria per migliorare la produttività e la competitività delle aziende. Le parti negoziali, prendendo a modello la normativa tedesca del Betriebsverfassung, si cimentano – anche in un’ottica di valorizzazione della cultura d’impresa e di responsabilità sociale – con l’elaborazione di un catalogo di diritti di coinvolgimento a favore dei rappresentanti dei lavoratori; tuttavia, la disciplina negoziale si caratterizza per la flessibilità giacché nello stesso accordo le parti codificano un principio di volontarietà (Freiwilligkeit), con il quale i soggetti firmatari riservano agli agenti negoziali presenti in azienda la scelta del modello di partecipazione ritenuto preferibile in relazione alle specifiche esigenze del contesto (§ 3, comma 3) : si lascia, dunque, la possibilità di “toccare note diverse nella «tastiera» della partecipazione” , distinguendo tra informazione, consultazione e codeterminazione , nonché tra partecipazione in questioni economiche, politiche del personale e sociali.
Gli estensori della Charta non hanno dunque alcuna pretesa di sviluppare un modello unico di cogestione all’interno del gruppo VW, tenendo conto che le diverse imprese del gruppo operano in contesti di relazioni industriali profondamente diversi da quello della casa madre nei quali non avrebbe senso e non sarebbe accettabile l’estensione di quel modello. Per questa ragione la denominazione adottata originariamente, vale a dire Mitbestimmungscharta, verrà subito accantonata e sostituita giacché incompatibile con il principio di Freiwilligkeit (art. 2.4).
In ragione del carattere flessibile della Charta la contrattazione integrativa aziendale in Lamborghini, così come in altre realtà aziendali italiane del gruppo VW (Volkswagen Group Italia S.p.A., Italdesign Giugiaro e Ducati), pur riconoscendo il ruolo strategico dei principi di “cooperazione” e “partecipazione” contenuti nel documento, si sforza di implementarli e declinarli in modo coerente con le peculiarità di fondo della nostra tradizione delle relazioni industriali e dello specifico contesto aziendale.
Rispetto alle precedenti esperienze di c.d. “partecipazione negoziata” non mancano aspetti innovativi che riguardano il concreto estrinsecarsi delle strutture partecipative nella prassi. Già dalla lettura dei testi contrattuali si trae un bilancio reale dei risultati conseguiti con l’implementazione del nuovo modello. L’accordo sottoscritto il 16 luglio 2018 si apre con il richiamo al “positivo clima di collaborazione, che qualifica le relazioni industriali e che ha contribuito al percorso di crescita di Automobili Lamborghini, portando (…) al raggiungimento di importanti traguardi industriali, economici e occupazionali” (§ 1).
Allo stesso modo nel contratto integrativo del dicembre 2023 viene rimarcato che “il riconoscimento e il potenziamento dei diritti di partecipazione (…) ha determinato, quale naturale conseguenza, un significativo incremento della dinamica contrattuale aziendale”, come conferma la mole degli accordi prodotti (per es.: “quello sulla nuova verniciatura, quelli sulla sperimentazione dello smart working, gli accordi sulla gestione della somministrazione, l’accordo sulle agibilità sindacali, l’accordo sul plusvalore cognitivo individuale e l’accordo sull’alternanza scuola lavoro, gli accordi per la gestione dell’emergenza Covid-19, per citarne solo alcuni”) e la rilevanza degli argomenti trattati.
In definitiva si prende atto che il modello di partecipazione ha accellerato un processo di maturazione culturale e sindacale e, in particolare, ha “contribuito significativamente a innescare una cultura della ‘contrattazione continua’ , non limitata al solo alveo di una cadenzata negoziazione del contratto integrativo, ma in grado, invece, di fornire una rapida risposta al mutare del contesto sociale, economico e normativo, nonché di intercettare e valorizzare tempestivamente importanti occasioni di sviluppo per il sito di Sant’Agata Bolognese”.
Nella vicenda Lamborghini – come già fatto notare in un’altra occasione – il sistema contrattuale, pur con tutti i suoi limiti strutturali, sembra pertanto rivelarsi di fatto una fonte istitutiva idonea a regolare e promuovere prassi partecipative: i due strumenti di regolazione, pur operando su due piani distinti, rivelano il comune fondamento, nella misura in cui riescono, sfruttando le condizioni di contesto ottimali richiamate nel precedente §, a convivere e ad integrarsi in modo dialettico, favorendo un progressivo “allineamento” dell’azienda alle pratiche partecipative della casa madre con una graduale metabolizzazione dei principi ispiratori del modello.
La partecipazione, sin dalla stipula del (primo) contratto integrativo in materia, quello del 2012 , è imperniata su un apparato composito di organismi paritetici, quali le Commissioni tecniche bilaterali (Ctb) ed i gruppi di lavoro, istituiti, entrambi, con funzioni “consultive, informative, istruttorie e propositive” in modo da garantire l’effettività dell’esercizio dei diritti di consultazione. A supporto del sistema delle Ctb – che costituisce comunque la sede in cui l’azienda consulta le rappresentanze dei lavoratori – è previsto poi che l’azienda, nel corso di incontri periodici con cadenza fissata dalla contrattazione, sia tenuta a fornire informazioni preventive su una serie di materie, costantemente aggiornate ed ampliate, allo scopo di integrare e supplire ai limiti di efficacia delle procedure di informazione e consultazione stabilite nella direttiva 2002/14/CE e dal contratto nazionale.
Tali sistemi vengono potenziati ed aggiornati nel corso dei rinnovi susseguitisi a partire dal recepimento della Charta, prendendo corpo anche un processo graduale, ma assai profondo, con il quale si cerca anche di sostituire a prassi informali la norma scritta.

5.2 Gli organismi paritetici nei più recenti accordi in Lamborghini

All’interno di questo complesso apparato di meccanismi partecipativi, di cui si compone il modello Lamborghini, le Ctb (ma anche i gruppi paritetici), come emerge da diverse analisi, giocano un ruolo centrale, sembrano rappresentarne il cuore pulsante, al punto da essere qualificate nella letteratura come dei “gangli istituzionalizzati” dello stesso .
Da un punto di vista formale tale strumento rievoca molti dei caratteri già presenti nelle esperienze passate, che abbiamo provato a ripercorrere in parte nei §§ precedenti.
Come s’è visto anche per gli altri esperimenti sopra riportati, non si tratta di una vera e propria sede di codecisione giacché gli accordi aziendali non attribuiscono alle Ctb un potere di veto sulle decisioni assunte dal datore di lavoro, né tanto meno introducono un meccanismo che «impone», come accade nell’esperienza tedesca, di (co)decidere congiuntamente su una materia (e dunque di formare una regola); un siffatto meccanismo, del resto, avrebbe incontrato non pochi ostacoli sul piano dell’effettività e avrebbe dovuto trovare la propria fonte direttamente nella legge.
Tale esperimento è pur sempre riconducibile al modello classico di una tecnica procedurale di promozione di decisioni consensuali (c.d. procedimentalizzazione dei poteri datoriali) anche se in tal caso parliamo di un organismo consultivo ben congegnato, che viene sistematicamente potenziato ed aggiornato negli accordi sottoscritti nel corso degli anni: l’intento è essenzialmente quello di trasporre il modello di “partecipazione” trasfuso nella Charta, regolare la composizione dell’organismo congiunto (tre rappresentanti della direzione e tre rappresentanti del personale nominati dalle rsu), prescriverne le modalità di convocazione delle riunioni e defininirne gli ambiti di competenza devoluti.
Significativo è anche l’elenco di materie, che testimonia l’attività svolta, attestando il grado raggiunto di partecipazione. Tale elenco reca, oggi, ben sette materie, che concernono numerosi aspetti del rapporto di lavoro, alcuni dei quali vengono specificati nel dettaglio: premi di risultato, struttura e organizzazione del lavoro (con particolare riguardo a tempistica, a ritmi e a condizioni di lavoro), inquadramento e formazione, salute e sicurezza/ergonomia (ivi comprese condizioni ambientali, ergonomiche e di lavoro e dal 2019, mobilità sostenibile), servizio mensa. Novità rilevanti si registrano poi con i più recenti rinnovi. Si pensi all’accordo integrativo del 5 dicembre 2023, che, portando a compimento un proposito già esplicitato in un precedente rinnovo, amplia le materie e gli organismi competenti, istituendo un’ulteriore Ctb competente in tema di appalti.
Come traspare dalla lettura degli accordi più recenti, i cambiamenti legati alla digitalizzazione dei processi produttivi hanno significative ricadute e inducono a ripensare non solo le strutture della partecipazione (Ctb e gruppi paritetici), ma anche e soprattutto gli ambiti di competenza ad esse devoluti.
In tale prospettiva si pone l’accordo del 2024, che, facendo tesoro anche dell’esperienza passata (per es. sullo smart working), istituisce un gruppo di lavoro paritetico su “Innovazione sociale”, con un ruolo essenzialmente istruttorio rispetto alla contrattazione (e dunque senza porsi in concorrenza con la contrattazione stessa). A tale organismo viene devoluto il compito, tra le altre cose, di valutare e studiare proposte inerenti a “nuove forme di lavoro”, “diversità, minoranze ed inclusione sociale, diritti di partecipazione e genitorialità”, “ESG - Environment, Social & Governance”, nuove modalità di organizzazione del lavoro, con l’intento di “migliorare la fruizione dello smartworking nel nuovo quadro di regole condivise”, nonché formulare soluzioni innovative “di utilizzo degli spazi di lavoro (desk-sharing)”.
Come si vede, la disciplina negoziale si adegua ai cambiamenti delle forme organizzative del lavoro ed al processo di destrutturazione, che investe i tradizionali concetti di tempo e di luogo di lavoro; cambiamenti, questi, che, indubbiamente si acuiscono con la rivoluzione digitale.
E’ significativo l’accento posto sulle tematiche inerenti all’orario di lavoro, al work-life balance e alle forme organizzative di lavoro (a distanza), che, oggi, come è noto, consentono di ridurre la necessità della presenza fisica dei lavoratori nel luogo di lavoro classico ma anche di attribuire, al contempo, la possibilità di lavorare al fuori degli orari classici, maturati nell’epoca fordista, con una valorizzazione degli obiettivi da raggiungere.
Le strutture e le forme partecipative istituite in Lamborghini vengono dunque adeguate a tali cambiamenti, in modo da garantire la possibilità per i dipendenti di svolgere la prestazione anywhere e anytime che, a sua volta, consente loro di ampliare gli spazi di autonomia organizzativa ed adottare soluzioni individualizzate anche in funzione di una tutela dell’equilibrio tra vita privata e professionale.
Strumentale all’apparato degli organismi paritetici e al confronto bilaterale è poi il sistema istituito per migliorare il circuito delle informazioni, che viene, anch’esso, fortemente potenziato con gli accordi sottoscritti il 16 luglio 2018, il 26 luglio 2019 ed il 5 dicembre 2023, al fine di “rendere ancora più sistematico il flusso informativo tra azienda e sindacato” in modo da ampliare la “cassetta degli attrezzi” a disposizione dei sindacati in funzione della contrattazione ed offrire una cornice più organica e razionale al tutto.
In particolare, da un lato, ci si confronta con i cambiamenti in corso e si affronta il problema di riorientare e ridefinire i contenuti della partecipazione; dall’altro, si punta, ancora una volta, a condizionare l’esercizio del potere aziendale al previo esperimento di una serie di passaggi procedurali consistenti nel garantire un numero minimo di incontri periodici (già previsti dal contratto integrativo del 2015) sulla base di una articolata calendarizzazione dei momenti di confronto .
Anche in questo caso gli attori sindacali si preoccupano di descrivere minuziosamente le materie oggetto dell’obbligo di informazione, ampliando ed adeguando l’elenco: l’impresa si impegna ad attivare le procedure di informazione ogniqualvolta vengano presentati “progetti che prevedono l’utilizzo di nuove tecnologie” ovvero nell’ipotesi in cui vengano assunte decisioni che riguardano l’organizzazione dei “tempi di lavoro con evidenza, per ogni unità organizzativa, del ricorso al lavoro straordinario e al forfait, nonché al monitoraggio della pianificazione e fruizione delle ferie, dei PAR e della banca ore, con cadenza semestrale”.

5.3 Il modello Lamborghini e (alcune) sue ripercussioni sulla nuova disciplina in materia di partecipazione: le sfide della digtalizzazione

Ad ogni modo, lasciando da parte altre questioni, ciò che ora interessa evidenziare è il concreto funzionamento di questi organismi, tenendo conto, peraltro, che, essi, oggi, costituendo a tutti gli effetti “commissioni paritetiche” ai sensi della nuova disciplina in materia di partecipazione, richiamata in apertura del presente scritto, sono soggetti, in particolare alle norme che riguardano sia la c.d. partecipazione organizzativa sia la c.d. partecipazione consultiva.
In Lamborghini le Ctb costituiscono tutt’altro che “meri organismi di facciata”, come emerge dalle testimonianze del responsabile delle relazioni sindacali HR e del coordinatore rsu Fiom , raccolte nel volume di Fulvia D’Aloisio ed illustrate anche in occasione di una serie di seminari . Gli attori sindacali le concepiscono, anzitutto, come la sede in cui l’azienda informa preliminarmente le rappresentanze dei lavoratori delle decisioni che intende adottare, facendo però una scommessa sulle virtù intrinseche del dialogo tra impresa e suoi dipendenti.
Di fatto, le Ctb condizionano le forme e le conseguenze dell’esercizio del potere aziendale, almeno sulle questioni in materia di gestione del personale ed organizzazione del lavoro. Non si scambiano soltanto informazioni, la direzione si impegna “a far comprendere” le decisioni che si reputano necessarie; in tal modo, le commissioni bilaterali contribuiscono alla presenza di un clima partecipativo, che si traduce nel «costruire insieme» le soluzioni attraverso un costante confronto tra azienda, sindacati e Rsu; un confronto, questo, che, tuttavia, resta, per lo più, su un piano squisitamente tecnico giacché le questioni politico-sindacali vengono tendenzialmente accantonate e spostate su altri «tavoli».
L’impressione che si trae è che in Lamborghini la necessità di garantire un adeguato grado di separazione e specializzazione tra i meccanismi partecipativi e il processo negoziale venga avvertita in misura maggiore rispetto a quanto si verifichi altrove: si segnala, infatti, l’adozione di una serie di misure di accompagnamento per la riuscita dell’esperimento; misure, queste, incoraggiate anche dalla cooperazione dei sindacati italiani e tedeschi di cui si è parlato supra .
Particolare importanza assumono a tal fine le previsioni contrattuali volte ad incoraggiare – anche su sollecitazione della casa madre – l’effettuazione di cospicue iniziative di formazione (anche) dei componenti delle Ctb su materie relative alla partecipazione . Misure di formazione si sono rese necessarie al fine di consentire una progressiva familiarizzazione/apprendimento da parte dei rappresentanti sindacali, come pure dell’area delle risorse umane, sulle/delle tematiche nelle quali insiste il sistema partecipativo introdotto dalla Charta del 2009, e sugli/degli stili e le pratiche gestionali che la sua implementazione impone nel contesto italiano . Un’attenzione significativa è rivolta, nella prassi negoziale, anche alla formazione di manager e quadri che, “puntando sulle cosiddette soft skills, miri a ottenere una funzione manageriale più aperta e dialogante di quanto la tradizione industriale italiana non preveda” .
E ancora, non meno rilevanti per assicurare il funzionamento effettivo del processo decisionale previsto dagli accordi integrativi sono poi quelle previsioni (contenute anche negli accordi sottoscritti più di recente) che stabiliscono – sulla falsariga del Betriebsverfassungsgesetz – che i membri della Ctb possono avvalersi della formazione e della expertise di esperti esterni, ponendo a carico dell’azienda i costi della formazione e delle consulenze, ma anche delle competenze e del know-how dei cosiddetti lavoratori esperti.
Il nuovo testo di legge approvato alla Camera in materia di partecipazione si propone in qualche modo di incoraggiare l’introduzione per via negoziale di simili misure di accompagnamento alla partecipazione. L’art. 8 richiama, anzitutto, una figura di riferimento della partecipazione organizzativa, consentendo alle aziende di prevederla nel proprio organigramma, sulla scorta di una previsione di un contratto collettivo aziendale: quella dei “referenti della formazione, dei piani di welfare delle politiche retributive, della qualità dei luoghi di lavoro, della conciliazione, nonché quelle dei responsabili della diversità e della inclusione delle persone con disabilità”.
L’istituto ricalca, in qualche modo, l’esperienza svolta in Lamborghini, dove le Ctb e i gruppi paritetici istituiti dalla contrattazione, come s’è visto, si avvalgono delle expertise di soggetti equiparabili al referente di cui all’art. 8: in entrambi i casi tale figura sembra concepita per fornire un supporto di carattere tecnico ai componenti delle commissioni paritetiche nella ricerca di soluzioni condivise in merito a questioni di particolare complessità che possono insorgere in seno a ciascun organismo: del resto, le materie sulle quali i referenti sono chiamati a fornire la propria consulenza coincidono grosso modo con quelle demandate dai contratti collettivi esistenti alle competenze degli organismi bilaterali.
La figura del referente richiede, come è stato osservato, una più chiara definizione “nelle funzioni, nella struttura e nei rapporti con gli attuali organismi rappresentativi dei laboratori nelle imprese” giacché il legislatore parla genericamente di «soggetti di riferimento della partecipazione organizzativa». La contrattazione collettiva dovrà dunque chiarire quale ruolo possa svolgere tale soggetto per supportare i componenti delle Commissioni nell’espletamento dei loro compiti, coerentemente con le finalità specificamente indicate con riferimento a tale forma partecipativa (“la predisposizione di proposte di piani di miglioramento e di innovazione dei prodotti, dei processi produttivi, dei servizi e dell’organizzazione del lavoro”).
A nostro avviso, la figura del referente potrebbe risultare di grande utilità, nella misura in cui tale soggetto – come appare plausibile sostenere – assuma la veste di un esperto esterno. L’importanza di questa figura emerge nel momento in cui ci si confronta con uno dei problemi centrali rilevabili nel funzionamento degli organismi congiunti, ossia la difficoltà a comprendere e interpretare le informazioni tecniche fornite dall’azienda e la conseguente impossibilità di verificarne la «veridicità» e l’attendibilità. L’istituzione di un momento informativo a vantaggio del soggetto collettivo può, certo, rappresentare una garanzia reale contro ogni forma di “unilateralità implicita”. Tuttavia, per le ragioni poc’anzi richiamate, spesso le componenti sindacali degli organismi congiunti – essendo nominate di regola più per le competenze “politiche” che per quelle tecniche – si trovano in una condizione di deficit e di inferiorità culturale, che impedisce un confronto genuino e rende assai difficoltosa la formulazione di concrete proposte alternative alle decisioni che la direzione intende assumere, con la conseguenza che il processo decisionale finisce per essere viziato, per non dire tendenzialmente diretto dalla componente aziendale della commissione.
Ebbene, l’utilizzo di esperti esterni sulle questioni più complesse può giocare un ruolo fondamentale per migliorare il funzionamento degli organismi paritetici e rafforzare la posizione assunta al loro interno dai rappresentanti dei lavoratori, ai quali verrebbero restituiti alcuni spazi di effettiva capacità decisoria: in questa prospettiva, anzi, sarebbe auspicabile, oltre che pienamente legittimo in base alla nuova legge , se gli attori sindacali scegliessero di accollare il costo degli esperti all’azienda (come, peraltro, previsto nella proposta originaria , che sul punto si ispirava al BetrVG tedesco e all’esperienza Lamborghini), e così pure se essi decidessero di estendere l’utilizzo di tale figura anche con riguardo a materie diverse da quelle elencate dal legislatore all’art. 8 (es. sicurezza, premi di risultato, appalti) e talvolta devolute alle commissioni per via contrattuale.
Questa esigenza è, del resto, particolarmente avvertita quando si discute del controllo dei meccanismi digitali e dell’esigenza di fronteggiare le sfide dell’IA: anche in questo campo, al fine di garantire che tali meccanismi non ledano interessi e diritti fondamentali delle persone che lavorano, si tende a riaffermare, ovunque, l’idea di una valorizzazione del modello di partecipazione, specificandosi, però, che si deve trattare di una partecipazione “competente”.
Appare utile, a tal riguardo, una breve digressione sulle più recenti riforme del Betriebsverfassungsgesetz tedesco, da cui traspare la consapevolezza del ruolo cruciale che la “competenza” può svolgere nel processo decisionale . Con il nuovo § 80 co. 3, frase 2 del BetrVG il legislatore tedesco si è mostrato particolarmente attento a migliorare gli strumenti di cui l’organismo di rappresentanza dei lavoratori in azienda può avvalersi ogniqualvolta deve decidere sui meccanismi di funzionamento dei sistemi di gestione algoritmica al punto da ritenere che in tale ipotesi non può non ricorrere ad esperti esterni : e infatti, “l’introduzione o l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale”, a differenza di quanto previsto per altri sistemi informatici e digitali, viene considerata come qualcosa di talmente rilevante da giustificare una maggiore necessità di expertise tecniche.
Ebbene, le considerazioni che hanno indotto a tali modifiche con riguardo al Betriebsrat tedesco potrebbero valere anche, mutatis mutandis, per i componenti degli organismi paritetici con riferimento ai quali la formazione e la specializzazione può rappresentare un’importante risorsa per creare, ugualmente, condizioni favorevoli ad una effettiva partecipazione , nella prospettiva di migliorare gli strumenti a disposizione dei sindacati in funzione del potenziamento dell’azione negoziale: per questa ragione, il nostro legislatore avrebbe potuto compiere una scelta più coraggiosa, prendendo spunto da quello tedesco e prevedendo in caso di impiego di sistemi di IA, l’obbligatorietà dell’utilizzo di esperti esterni.
Può invece essere salutata con maggior favore la previsione contenuta nell’art. 12, che rinviene, anch’essa, una fonte di ispirazione negli esperimenti partecipativi di maggiore successo, come quello in Lamborghini, là dove impone di prevedere l’istituzione di specifici corsi di formazione, questa volta, non solo a favore dei membri delle commissioni paritetiche istituite in ambito aziendale, nel quadro della partecipazione organizzativa (ai sensi dell’art. 7 della legge) ma anche dei rappresentanti dei lavoratori che siedono negli organi societari , nell’ambito della partecipazione gestionale.
Con riferimento ai membri delle commissioni paritetiche, contrariamente a quanto accade per quelli degli organi societari, non essendo specificato che deve trattarsi di rappresentanti di lavoratori, si può plausibilmente ritenere che tale formazione debba essere rivolta anche a componenti nominati dalla direzione, dovendo, tuttavia, circoscriversi l’obbligo formativo alle persone coinvolte in modo diretto nell’organismo congiunto (che, peraltro, potrebbe anche essere assai articolato a livello territoriale), non potendo dunque riguardare tutti coloro la cui attività – si pensi al management intermedio, alle Rsu, ai sindacati territoriali – è in qualche misura legata all’esistenza del modello di partecipazione.
Ad ogni modo il legislatore, nel richiamare gli scopi a cui deve essere orientata l’attività formativa, vale a dire lo “sviluppo delle conoscenze e delle competenze tecniche, specialistiche e trasversali”, adotta una formula aperta e generica che non esclude alcuna ipotesi quanto al tipo e ai contenuti di formazione da erogare, potendo essa benissimo riguardare sia le tematiche nelle quali insiste il sistema partecipativo da attivare, sia le nozioni tecnico-giuridiche e le pratiche gestionali che la sua implementazione può comportare.
Apprezzabile, infine, che la norma preveda anche gli strumenti di cui è possibile avvalersi per reperire le risorse destinate a finanziare le iniziative di formazione per la partecipazione, richiamando alcuni organismi (gli enti bilaterali, il Fondo Nuove Competenze, i fondi paritetici interprofessionali per la formazione continua).
In definitiva, come mostra l’esperimento in Lamborghini, la figura del referente ed il sostegno alle iniziative di formazione dei componenti delle Commissioni pongono i presupposti affinché l’azione svolta dagli organismi partecipativi possa realmente integrarsi con l’azione negoziale dei sindacati. L’obiettivo è scoraggiare il sindacato dall’uso di schemi e metodi antagonistici e stimolare, al contempo, nel manager un’abitudine ed un’apertura al dialogo con lavoratori e sindacati (e non ad atteggiamenti unilaterali): con ciò, scongiurando il rischio che il dibattito in seno a tali organismi si sposti sul piano politico.
Questo obiettivo traspare anche dalla nuova disciplina sulla partecipazione consultiva, che, per certi versi, sembra, allo stesso modo, rievocare alcuni tratti che contraddistinguono le esperienze esaminate e, in particolare, quella Lamborghini.
La nuova normativa non sembra porsi il delicato problema di distinguere le materie oggetto della contrattazione da quelle oggetto di consultazione, anzi, all’articolo 9, co. 3, prevede che «nel caso di consultazione sugli argomenti di competenza negoziale, le commissioni paritetiche possono fornire materiali ed elementi utili al tavolo contrattuale».
Che tra gli organismi di partecipazione consultiva e la contrattazione possa istituirsi una relazione di sostegno reciproco fa parte della realtà delle cose. In tal modo, la legge, facendo tesoro dell’esperienza negoziale, prende atto che l’attività delle commissioni può svolgere di fatto una funzione preparatoria e integrativa rispetto alla contrattazione, creando con essa un raccordo funzionale, e senza che ciò debba necessariamente comportare il venir meno della libera dialettica degli interessi da far valere in sede negoziale.
Sarà, tuttavia, auspicabile che la disciplina contrattuale, pur in assenza di una cornice legale cogente, provveda ad individuare analiticamente le materie oggetto di partecipazione consultiva in modo da garantire il corretto funzionamento degli istituti partecipativi ed evitare che le decisioni assunte in sede di Ctb possano entrare in conflitto con la contrattazione collettiva.
Questa esigenza potrebbe porsi in modo particolare se la disciplina contrattuale dovesse spingersi a rafforzare il potere consultivo che la legge riconosce ai rappresentanti dei lavoratori che compongono la commissione paritetica (per es. prevedendo, in caso di parere negativo o carente, un obbligo di giustificazione da parte del datore di lavoro o, addirittura, imponendo l’esperimento di una procedura dinanzi ad un apposito collegio arbitrale a composizione paritaria, ipotesi, questa più problematica) (art. 10); scelta, questa, da ritenere ammissibile ai sensi dell’art. 11.
Ad ogni modo, se nella disciplina legale manca una previsione che regola il rapporto tra le decisioni delle istituzioni partecipative ed il contratto collettivo, lo stesso non può dirsi con riguardo alla disciplina contrattuale.
Proprio nel caso di Lamborghini, il contratto collettivo si riserva una sorta di priorità: in taluni accordi si chiarisce espressamente che la funzione negoziale rimane “prerogativa del tavolo sindacale aziendale” , lasciando, dunque, intendere che le decisioni assunte dagli organismi congiunti – come accade notoriamente nella betriebliche Mitbestimmung – sono destinate a rivestire un ruolo comunque ancillare.
In ogni caso, dalle testimonianze raccolte nelle ricerche sociologiche si evince che la Ctb e gli altri gruppi bilaterali non vengono mai percepiti dai componenti di parte sindacale come uno strumento volto a promuovere l’interesse della direzione, potenzialmente espropriativo dell’azione contrattuale, bensì come una risorsa aggiuntiva rispetto alle altre dinamiche.
E ciò dipende anche dal fatto che tali organismi sembrano destinati più a ricoprire un ruolo di carattere istruttorio, di stimolo rispetto alla contrattazione che non a svolgere la funzione di prevenire e comporre i conflitti: tant’è che non risulta siano mai entrati in rotta di collisione con la contrattazione stessa. Come è stato rilevato nella letteratura sociologica «le consultazioni e le discussioni, avviate in Ctb, spesso preludono e anticipano quanto poi verrà ratificato nell’accordo, tanto che l’accordo stesso può richiamare quanto discusso in Ctb (e sistematicamente verbalizzato)» . Si tratta dunque di sedi di discussione preparatorie e complementari rispetto all’attività negoziale, che aiutano a fare chiarezza in via preventiva su questioni tecniche particolarmente complesse, a “sviscerarle in un ambiente protetto” , anche attraverso l’utilizzo di esperti esterni, e che raramente svolgono una vera e propria funzione di mediazione preliminare.

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