Testo Integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza

1. La questione
Le decisioni annotate affrontano lo stesso problema, relativo alle conseguenze di una decisione con la quale venga accertato che datore di lavoro è un soggetto diverso da chi tale è stato considerato fino alla decisione e, per l’effetto, quali siano gli obblighi che gravano su chi giuridicamente è parte del rapporto.
La Corte di appello, nel richiamare la costante giurisprudenza della Cassazione – pertanto considerata come “diritto vivente” – dubita della legittimità costituzionale degli artt. 1206, 1207 e 2017 cod.civ., interpretati nel senso che, qualora colui, che giuridicamente va considerato datore di lavoro, non provveda a riammettere il lavoratore nella sua organizzazione aziendale, nel mentre va condannato al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni non corrisposte, può anche ottenere che dal quantum dovutum vada detratto ciò che il lavoratore può aver acquisito dallo svolgimento di un’ attività economicamente redditizia, nonché veder ridotta la sua responsabilità patrimoniale dal comportamento dello stesso creditore che non si sia attivato per limitare il danno.
Le sezioni unite, a loro volta, nell’affrontare una questione di particolare importanza, ossia se le somme spettanti, dopo la sentenza, che ha accertato l’illecita interposizione di manodopera, al lavoratore - il quale, pur avendo offerto le proprie energie lavorative, non sia stato riammesso in servizio - abbiano natura retributiva o risarcitoria, hanno concluso nel primo senso, ma hanno ritenuto detraibili dalle somme dovute quelle che il lavoratore abbia riscosso da un terzo soggetto presso il quale ha continuato a prestare la sua opera.
E’ evidente la differenza tra le due decisioni: per le sezioni unite le retribuzioni - che il datore deve corrispondere al lavoratore - vanno depurate dall’ aliunde perceptum; per la corte romana, una tale conclusione sarebbe in contrasto con i principi costituzionali, con la conseguenza che non dovrebbe essere ammissibile una riduzione delle somme dovute, quand’anche il lavoratore abbia avuto modo di mettere a frutto le proprie energie lavorative.

 

2. L’intervento di Corte Cost. 303 del 2011 e sua rilevanza per la questione.
In entrambe le decisioni il punto di partenza è dato dal richiamo a Corte Cost. 11 maggio 2011, n. 303 .
Allo scopo di meglio intendere la portata di questa decisione, è il caso di ricordare il contesto nel quale è intervenuta.
La questione di legittimità – che riguardava l’art. 32 l. 4 novembre 2010, n. 83 - era stata sollevata da Cass. 28 gennaio 2011, n.2112 , la quale ebbe a sottolineare che “la liquidazione di un'indennità, eventualmente sproporzionata per difetto rispetto all'ammontare del danno, può indurre il datore di lavoro a persistere nell'inadempimento, eventualmente tentando di prolungare il processo oppure sottraendosi all'esecuzione della sentenza di condanna, non suscettibile di realizzazione in forma specifica. Né verrebbe risarcito il danno derivante da una sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, causata dal rifiuto del datore”.
Questo era il dubbio sollevato dalla Cassazione.
Orbene, la Corte costituzionale, nell’affermare la legittimità dell’art. 32, ha espressamente osservato che “un'interpretazione costituzionalmente orientata della novella, però, induce a ritenere che il danno forfetizzato dall'indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto "intermedio", quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. A partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione in servizio. Diversamente opinando, la tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato sarebbe completamente svuotata. Se, infatti, il datore di lavoro, anche dopo l'accertamento giudiziale del rapporto a tempo indeterminato, potesse limitarsi al versamento di una somma compresa tra 2,5 e 12 mensilità di retribuzione, non subirebbe alcun deterrente idoneo ad indurlo a riprendere il prestatore a lavorare con sé. E lo stesso riconoscimento della durata indeterminata del rapporto da parte del giudice sarebbe posto nel nulla.
Così intesa la norma oggetto della questione di legittimità, cade l'ipotesi di paventata sproporzione dell'indennità di cui all'art. 32, commi 5 e 6, della legge citata, rispetto alla denunziata esigenza di ristoro di un danno destinato a crescere con il decorso del tempo, sino ad attingere valori non esattamente prevedibili” .
Si è ritenuto opportuno trascrivere i passaggi logici dell’ordinanza di rimessione e dalla decisione del giudice delle leggi per comprendere esattamente i termini della questione e l’assetto che ne deriva.
Il dubbio della Cassazione era che con l’indennità prevista dall’art. 32 potesse essere coperto l’intero pregiudizio subito dal lavoratore, prima e dopo l’accertamento dell’illegittimità dell’apposizione del termine.
La Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione, interpretando la norma nel senso che l’indennizzo in questione riguarda solo il periodo intermedio tra la scadenza del termine e l’accertamento giudiziale. Per il periodo successivo il rapporto deve ritenersi a tutti gli effetti pendente ed il lavoratore ha diritto all’intero trattamento economico, in ogni caso, anche in ipotesi di mancata riammissione in servizio. E’ chiaro che la Corte ha previsto la possibilità che, nonostante l’obbligo di ripristinare il rapporto, il datore a tanto non provveda, nel qual caso ha precisato che, indipendentemente da tale inadempimento, al lavoratore vengano comunque assicurate le retribuzioni.
Tutto questo sta a significare che la ricostituzione del rapporto comporta la conseguenza della permanenza degli obblighi scaturenti dal rapporto, ma non è da escludere che questo non venga effettivamente ricostituito.

3. Sulla coercibilità degli obblighi di collaborazione del datore di lavoro.

Fatta questa precisazione sul contenuto della disciplina, come delineata dall’intervento della Corte costituzionale, è abbastanza evidente che le due decisioni in commento richiamano alla mente un problema, dibattuto soprattutto dopo la legge 300 del 1970, sul più generale fenomeno della cooperazione datoriale all’attuazione dell’obbligazione di lavoro . Al riguardo era stata prospettata la tesi, secondo cui, in caso di disposta reintegrazione nel posto di lavoro, si poteva configurare un generalizzato diritto allo svolgimento effettivo della prestazione da parte del lavoratore, nella logica complessiva delineata dagli artt. 4, 35 e 41 Cost , così che era limitante ritenere esistente a carico del datore una posizione di solo debito , dato che una siffatta ricostruzione, nella logica civilistica della mera “corrispettività”, non sarebbe stata compatibile con un rapporto che coinvolge la persona del lavoratore .
A ben riflettere vi sono diritti del lavoratore, il cui esercizio comporta solo un pati da parte del datore di lavoro (ad esempio: possibilità di accedere nei luoghi di lavoro per partecipare ad un’assemblea o alle votazioni degli organismi rappresentativi, ovvero per svolgere attività di proselitismo per una determinata organizzazione sindacale), dato che, in tali situazioni, non si richiede un suo comportamento collaborativo. Per quanto riguarda, invece, la prestazione lavorativa, essa non può essere attuata a causa del difetto di cooperazione del datore, poiché non è coercibile o fungibile il comportamento da lui dovuto, con la conseguenza che non può che ammettersi l’esperibilità di azioni per conseguire le utilità economiche dovute in forza della vigenza del rapporto.
Vi sono anche situazioni in cui l’inerzia del datore di lavoro può essere superata dall’intervento del giudice ai sensi dell’art. 2032 c.c., ma si tratta di casi in cui l’azione proposta mira alla costituzione de jure di un rapporto di lavoro, alla quale un soggetto abbia diritto per legge o per contratto collettivo , situazioni nelle quali non è necessaria una cooperazione da parte del datore, la cui volontà contraria è superata dalla decisione del giudice, ma che comunque non può essere surrogata per far sì che in concreto il lavoratore possa mettersi all’opera nell’ambito dell’organizzazione aziendale.

4. Segue. L’art. 614bis c.p.c. ed i dubbi di costituzionalità.
Una conferma di tutto ciò è data dall’art. 614bis c.p.c. (introdotto con la l. 18 giugno 2009, n. 69 e modificato con il d.l. 22 giugno 2015,n 83, convertito in l. 6 agosto 2015, n.83), con il quale è stato introdotto uno strumento di coercizione indiretta, per l’inosservanza degli obblighi di fare infungibile e, più in generale, per gli obblighi di fare diversi dal pagamento di somme di danaro. Si tratta, come è evidente, di una misura pecuniaria di applicazione generale sul modello dell’astreinte, al fine di rafforzare l’effettività dei provvedimenti giudiziari di condanna o anticipatori della condanna, che impongono un obbligo di prestazione diversa da quella pecuniaria. Per una chiara scelta di campo questo strumento non si applica alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato ed ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 c.p.c.
Una tale previsione ha dato luogo ad un dibattito dottrinale circa la legittimità costituzionale della norma. Verosimilmente la ragione di tale differenziazione è stata ravvisata sia nell’esigenza di non irrigidire eccessivamente la posizione del datore di lavoro, rendendo troppo gravose le conseguenze legate all’instaurazione del contenzioso nell’ottica della salvaguardia delle ragioni e della produttività dell’impresa, sia in considerazione del carattere teoricamente fiduciario del rapporto di lavoro.
Buona parte della dottrina osserva che le ragioni appaiono “discutibili” in quanto chiaramente foriere di soluzioni di disfavore per la posizione del lavoratore, il quale subirebbe un trattamento deteriore rispetto a qualsiasi altro credito dell’impresa, donde il fondato dubbio di irragionevolezza e, quindi, di incostituzionalità della norma.
Non è certamente questa la sede per affrontare tale specifico problema. Un dato di fatto appare però certo: allorquando si abbiano comportamenti elusivi di un giudicato, al quale dovrebbe darsi esecuzione in forma specifica, il sistema non prevede mezzi affinché una siffatta esecuzione possa effettivamente e sempre aver luogo, tant’è che ha previsto delle misure che hanno lo scopo di indurre la parte obbligata a dare esecuzione al decisum. In altri termini, quand’anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 614bis dovesse essere accolta, il sistema vigente non ha alcuno strumento idoneo ad assicurare che, ogni qualvolta venisse indicato come datore di lavoro un soggetto, come tale individuato con un giudicato, l’effettiva costituzione del rapporto con tale soggetto, la cui collaborazione è essenziale, non può aver luogo contro la volontà di costui .

5. I confini del risarcimento per la mancata costituzione del rapporto di lavoro
Tornando alla questione affrontata dalle sezioni unite, va ricordato che le stesse sono partite dal rilievo secondo cui, nel caso di interposizione fittizia, in assenza di norme derogatorie rispetto al diritto comune delle obbligazioni, è quest'ultimo il regime giuridico da applicare, ma, pur qualificando le somme dovute dal lavoratore come “retribuzione”, giungono alla stessa conclusione alla quale si perviene considerandole come “risarcimento del danno”.
Se poi si parte dal presupposto che l’inadempimento del datore è imputabile a titolo di dolo , la conseguenza è che sarà tenuto a rivalere il lavoratore per tutti i danni prevedibili e non derivanti dall’inadempimento. Non solo, dunque, per le differenze tra il trattamento economico e normativo dovuto e quello eventualmente goduto per un diverso utilizzo delle proprie energie lavorative, ma anche per una diversa tutela previdenziale, per il mancato utilizzo della propria professionalità, per la perdita di change in una prospettiva di carriera, per i disagi connessi ad una diversa localizzazione del posto di lavoro,ecc.
Risarcibili sono anche i danni futuri , con la precisazione che la relativa azione non è preclusa da un precedente giudicato, soprattutto se abbiano a verificarsi per un fattore venuto ad esistenza in un periodo successivo , oltretutto perché il rapporto è da considerarsi a tutti gli effetti pendente, con la conseguenza che i pregiudizi, che il lavoratore può subire - fino a quando non venga legittimamente risolto il rapporto - dovranno essere risarciti.

6. L’intervento di Corte cost. 23 aprile 2018, n. 86.
Con la citata decisione la Corte ha affrontato la questione di legittimità dell’art. 18, quarto comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300, come sostituito dall’articolo 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012 n. 92, per contrasto con l’art. 3 Cost, nella parte in cui qualifica come risarcitoria l’indennità dovuta dal datore di lavoro dal momento dell’ordine di reintegrazione all’effettiva riammissione in servizio del lavoratore, con la conseguenza che, nel caso di riforma del predetto ordine e dichiarazione di legittimità del licenziamento, il lavoratore è tenuto alla restituzione delle somme ricevute .
La questione sollevata, pertanto riguardava l’illegittimità della qualificazione risarcitoria e non retributiva delle somme previste dalla norma censurata.
Nel dichiarare infondato il dubbio di incostituzionalità, la Corte ha osservato che “la concreta attuazione dell’ordine di reintegrazione non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro poiché ha per oggetto un facere infungibile”. Tuttavia, l’inadempimento del datore di lavoro configura un “illecito istantaneo ad effetti permanenti”, da cui deriva un’obbligazione risarcitoria del danno da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato. La norma denunciata, quindi, non è irragionevole ma “coerente al contesto della fattispecie disciplinata” perché l’indennità è collegata a una “condotta contra ius del datore di lavoro e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente”. Di qui la natura risarcitoria (e non retributiva) dell’indennità, e l’obbligo del lavoratore di restituirla qualora l’ordine di reintegrazione venga riformato. La Corte ha aggiunto che “scommettere” sulla riforma dell’ordine di reintegrazione – senza eseguirlo - può essere fonte di risarcimento dei danni da parte dell’azienda dato che il lavoratore può mettere in mora il datore di lavoro che si rifiuti di adempiere l’ordine di riassunzione provvisoriamente esecutivo. E la messa in mora – nello speciale contesto della disciplina di favore del lavoratore – gli consentirà di chiedere al datore, in via riconvenzionale, il risarcimento dei danni subiti per il mancato reintegro, da quando è stato emesso l’ ordine provvisoriamente esecutivo fino a quando è stato riformato.
In conclusione, anche secondo il giudice delle leggi, l’ordine di reintegrazione non è suscettibile di esecuzione in forma specifica e dall’inadempimento da parte del datore discende l’obbligo di un trattamento risarcitorio e non retributivo.

 

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