testo integrale con note e bibliografia

La questione del futuro del lavoro contesa tra ottimismo euforico e catastrofismo

Le impetuose trasformazioni che stanno investendo il mondo del lavoro contemporaneo sono spesso lette attraverso lenti interpretative opposte e rovesciate, che tuttavia tendono a esibire lo stesso grado di limitatezza e unilateralità. Nel discorso pubblico e specialistico dominano su questi temi per lo più o il registro dell’ottimismo euforico o quello del catastrofismo apocalittico, con la conseguenza che sempre più difficile diventa guadagnare una prospettiva critica di ampia portata capace di restituire l’esatta misura della profonda ambivalenza dei mutamenti in corso, così come dell’intreccio, difficile da dipanare in sede analitica, tra potenzialità emancipative e nuove forme di patologia sociale.
Per un verso ha avuto ampio corso negli ultimi decenni un tipo di narrazione eccessivamente ottimistica. Secondo questa visione la crisi del fordismo, sotto la spinta dei processi di globalizzazione, e il passaggio in tutti i paesi avanzati di economia capitalistica da un’economia prevalentemente materiale a un’economia prevalentemente immateriale o della conoscenza, trainata dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e poi dai processi di innovazione digitale e di impiego dell’intelligenza artificiale, avrebbe condotto, in modo quasi automatico, a una liberazione definitiva dalle forme più avvilenti e disumanizzanti di sfruttamento e di alienazione nel lavoro. Di contro al modello fordista e taylorista di organizzazione industriale del lavoro, basato sulla rigida divisione tra ruoli di ideazione e concezione, da una parte, e compiti di esecuzione standardizzati, frammentati, ripetitivi, dall’altra, la nuova economia delle ICT, così come poi la fabbrica 4.0, richiedono ormai per reggere la competizione globale forme di lavoro flessibili e creative, ad alto contenuto cognitivo e ad ampio margine d’autonomia individuale. La tesi è quindi che questo nuovo lavoro concreto, soppiantando il vecchio lavoro astratto della catena di montaggio, avrebbe garantito di per sé la creazione di quelle condizioni che consentono la piena realizzazione della persona nel lavoro e oltre il lavoro. Questa lettura iperottimistica è poi entrata in risonanza con una narrazione neoliberale, che vede come protagonista un soggetto trasformato in imprenditore di se stesso, responsabile della valorizzazione continua del proprio capitale umano, in un mondo fatto di competizione e concorrenza generalizzate, anche negli ambiti e interstizi che dovrebbero essere collocati al di fuori dell’economia di mercato in senso stretto. Proprio questa grande narrazione ha conferito un senso molto specifico e molto limitato alle dimensioni di autonomia e di responsabilità della persona che lavora, emerse con il passaggio a un modo del lavoro post-fordista. Quelle dimensioni di autonomia personale, pure emerse con le innovazioni tecnologiche, sono state alla fine funzionalizzate alle esigenze della valorizzazione continua del capitale. Le idee di empowerment e di autorealizzazione nel lavoro sono divenute un altro nome per veicolare un insieme di richieste rivolte al lavoratore-imprenditore non solo a investire e reinvestire continuamente il suo capitale per ottimizzare il suo potenziale umano, ma anche a identificarsi con la missione dell’impresa decisa dal management, all’unico fine, in ultima istanza, di aumentare i tassi di redditività aziendali da presentare all’azionariato finanziario. L’apertura di spazi di autonomia e di responsabilità individuale nel lavoro, che pure c’è stata, è andata di pari passo con l’aumento delle asimmetrie di potere, di controllo e di valutazione dei lavoratori. Quello che è mancato è il passaggio, nella transizione in corso, dalla socialità astratta dell’organizzazione fordista del lavoro a una nuova forma di socialità e di cooperazione basata sul riconoscimento effettivo del lavoro concreto e responsabile degli individui. È mancato, in altre parole, l’avvio di processi di reale democratizzazione della produzione e del lavoro .
È di fronte a questo corto circuito che, nel dibattito pubblico e specialistico, si è imposta una seconda linea di lettura delle transizioni in corso nel mondo del lavoro contemporaneo che, pur sostenuta da molte ragioni, ha anch’essa alla fine esibito dei tratti di unilateralità. Contro la linearità ottimistica della prima interpretazione, questa seconda linea di lettura ha mobilitato una mole smisurata di dati e di analisi per riportare alla luce il rovescio negativo, patologico persino distopico delle metamorfosi del lavoro post-fordista. Innanzitutto, è stato sufficiente allargare lo sguardo alle periferie del sistema-mondo per riportare alla luce come, nel nuovo capitalismo globalizzato e finanziarizzato, accanto ai nuovi lavori immateriali, continuano ad esistere non solo i classici lavori usuranti della produzione di fabbrica, ma anche una quantità smisurata di lavori di tipo servile e schiavistico. Si è ricostruito come il nuovo capitalismo digitale e della piattaforma ha dato luogo a una gig economy di nuovi lavori precari - dai riders ai lavoratori della logistica – non protetti legalmente dal diritto del lavoro, che ripropongono, spesso in forme persino acutizzate, casi di sfruttamento di stampo ottocentesco, come il lavoro a cottimo. È stato documentato come dietro la superficie scintillante dell’automazione algoritmica dei processi produttivi, si nasconde la realtà delocalizzata e per questo invisibile dei lavoratori del clic . Si è evidenziato come sempre più persone oggi lottano per non scivolare nel territorio desolato della disoccupazione strutturale, causata anche da una transizione digitale, finora guidata prevalentemente dagli interessi capitalistici alla riduzione del lavoro e del suo costo . In questo scenario, si è mostrato come anche i lavori di cura, con la riduzione del Welfare state, sono stati investiti da ampi processi di privatizzazione e di mercificazione, e quindi da radicali forme di ingiustizia: essi non solo costituiscono uno dei settori meno retribuiti e riconosciuti socialmente, ma continuano ad essere affidate in prevalenza a donne e oggi a donne razializzate. Come se non bastasse, si è constatato come, anche nei settori di punta altamente retribuiti dell’economia della conoscenza, si è diffusa tutta una nuova gamma di malesseri da lavoro. Le statistiche parlano al riguardo di un aumento di casi di burn out, di depressione, persino di suicidi .
L’insieme di questi rovesci patologici delle odierne trasformazioni del lavoro ha quindi spinto la filosofia sociale e la sociologia critica a rimettere mano al suo vocabolario concettuale, e quindi a rinnovare classiche categorie come quelle di sfruttamento, alienazione, dominio, servitù volontaria. Quello che è successo però è che, dando corso a questo decisivo, necessario e fondamentale lavoro di illuminazione sociologica e di critica dell’ideologia, anche questo versante interpretativo ha rischiato di esibire, a propria volta, tratti di unilateralità. In alcuni casi, infatti, la critica delle nuove patologie sociali emerse con i nuovi lavori ha finito per veicolare la tesi secondo la quale, dietro l’emergere del nuovo non si nasconda altro che il ritorno del sempre identico, per cui alla fine, l’unica alternativa prefigurabile non sarebbe altro che ancora quella del superamento del rapporto di lavoro salariale in quanto tale. Laddove, però, questa indicazione tende oggi a rimanere astratta, rischia di sfociare nell’utopia nel senso deteriore del termine, può tramutarsi in una negazione indeterminata della realtà istituzionalizzata del lavoro, con tutte le sue ambivalenze.
È proprio a partire dalla messa a fuoco di questa polarizzazione tra contrapposte linee interpretative – una lineare e ottimistica, l’altra negativa e tendenzialmente apocalittica –che prende avvio il percorso di ricerca proposto nel ricco volume collettaneo, da poco uscito in Italia, Lavoro e libertà? . Si tratta di una raccolta di saggi di teorici e teoriche sociali, attivi prevalentemente nell’area di discussione francese, raccolti e curati dall’Atelier de recherche Travail et Libertés (ArTLib), un collettivo interdisciplinare e internazionale che si è costituito presso l’Istituto di Studi avanzati dell’Università di Marsiglia, e che ha come obiettivo quello di «discutere e diffondere idee e pratiche legate alle trasformazioni profonde del lavoro e ai loro effetti nella sfera della libertà e delle utopie personali e collettive». Nell’immaginare il percorso di riflessione proposto in questo testo collettivo, questo gruppo di ricerca, coordinato dal filosofo italiano Enrico Donaggio, è partito proprio da questa diagnosi critica di fondo: oggi, la questione cruciale del futuro del lavoro, sempre più dibattuta a tutti i livelli, rischia di essere fagocitata da una contrapposizione frontale tra linee interpretative opposte e unilaterali, che rischia di atrofizzare il lavoro di elaborazione teorica e di ricerca sperimentale. Per un verso è vero, come scrivono gli studiosi nell’introduzione del libro, che oggi la promessa di libertà e di emancipazione di cui il lavoro si è fatto veicolo fin dall’inizio della modernità, è catturata e monopolizzata in larga parte dall’ideologia neoliberale. Per altro verso però, proprio quella critica sociale che ha smascherato questa ideologia, tende a focalizzarsi soltanto sul versante negativo del lavoro contemporaneo, mancando di mettere a fuoco quello che rimane comunque il dato dell’ambivalenza dei radicali processi di trasformazione e riorganizzazione del lavoro contemporaneo. Per fuoriuscire da questa polarizzazione, la proposta di partenza di questo studio è allora la seguente: si tratta di partire da una constatazione apparentemente elementare, ossia che «nelle esperienze e rappresentazioni del lavoro si affrontino e si producano sempre molteplici dinamiche contraddittorie e conflittuali: autonomia e dominio, soggettivazione e assoggettamento, appropriazione e alienazione, realizzazione e perdita di sé» . Questo campo di tensione è da sempre inscritto nel lavoro, ma lo è a maggior ragione nel lavoro contemporaneo, che si sta trasformando sotto i nostri occhi in seguito alla terza e alla quarta rivoluzione industriale. La sfida deve essere quindi quella di pensare e di criticare il lavoro contemporaneo «a partire dalla sua relazione costitutiva con il polo solo apparentemente opposto della libertà» . Perché se è vero che il riferimento alla libertà non può essere monopolizzato e strumentalizzato dalla retorica neoliberale, che ne dà una versione non solo individualistica ma anche funzionale a nuove forme di sottomissione e dominio, è anche vero che non ci si può limitare a constatare, con altrettanta unilateralità, che l’esperienza della libertà sia qualcosa di interamente esterno alle pratiche del lavoro, e che queste non dischiudano altro che sofferenza sociale e perdita di sé.
Da questa prima presa di posizione fondamentale scaturisce il percorso di indagine che si dispiega nelle pagine del libro, attraverso una serie di testi collettivi elaborati dallo stesso Collettivo di ricerca ArTLib, intercalati da testi di autori invitati a contribuire all’opera. Questo percorso si articola in tre grandi livelli di indagine, tra loro intrecciati. C’è innanzitutto il piano dell’analisi, che si chiede quali sono le articolazioni oggi dominanti tra il lavoro contemporaneo, in tutte le sue sfaccettature (contenuto del lavoro, rapporto al lavoro, rapporti di lavoro, organizzazione e senso del lavoro) e la libertà. In questione, in secondo luogo, è quindi il piano della diagnosi critica: che cosa c’è di criticabile, persino di intollerabile, in queste configurazioni, alla luce di istanze di giustizia sociale e di promesse normative di emancipazione? Tutto ciò è orientato al raggiungimento di un terzo livello della ricerca, quello della proposta o della prospettiva: esistono delle alternative possibili che emergono in questo ambito, tanto sul piano teorico quanto su quello pratico?

Come ripensare il nesso tra lavoro e libertà?

Il libro Lavoro e libertà? è diviso in due parti, ciascuna si compone di quattro capitoli. L’obiettivo di ogni capitolo è quello di illuminare, assumendo una prospettiva interdisciplinare, aspetti della tensione strutturale tra lavoro e libertà, così come essa si manifesta nelle attuali forme di lavoro in trasformazione, per poi dischiudere sempre anche una prospettiva propositiva e trasformativa.
Questo tracciato si apre con una proposta di chiarificazione preliminare, elaborata dai membri del collettivo di ricerca ArTLib, sulle nozioni di lavoro, di libertà e del loro rapporto, nel quadro di una prospettiva storica che si sforza di tenere conto delle diverse declinazioni che queste stesse nozioni hanno esperito nel corso della civiltà occidentale. Questo punto è molto importante perché, come ricordano gli studiosi, «è solo con la modernità che il lavoro assume un significato pratico e teorico capitale», diventando nello stesso tempo «fattore di produzione» (come lavoro astratto industriale, quantificabile, misurabile e quindi scambiabile), «fondamento del legame sociale» (come nuovo criterio democratico dell’appartenenza alla società e alla cittadinanza) e infine «attività privilegiata per l’espressione di sé», per l’autorealizzazione individuale e collettiva. Questo nuovo significato sociale del lavoro, potenzialmente democratizzante, porta con sé anche l’apertura di una serie di tensioni e contraddizioni epocali, come quella fondamentale tra la mercificazione del lavoro e l’aspirazione a realizzare, grazie a questa attività, un’uguaglianza e una cittadinanza eguale, oltre che una vita umana pienamente realizzata.
Dopo aver ricordato come il lavoro rimanga comunque una categoria ombrello, a cui possono essere ricondotte forme molteplici di prassi sociale (l’attività, l’impiego, il mestiere, la professione), e dopo aver proposto una mappatura dei diversi aspetti del lavoro (contenuto del lavoro, rapporto di lavoro, rapporti di lavoro, organizzazione del lavoro), gli studiosi si cimentano sul lemma «libertà». Evidenziano come la libertà moderna, nel suo nesso costitutivo con il lavoro moderno, sfugge a ogni tentativo di definizione rigorosa, come quelli messi a punto dalla filosofia politica e morale, mediante le categorie oppositive libertà moderna vs. libertà degli antichi, libertà positiva vs. libertà negativa, libertà formale vs. libertà sostanziale, etc. Piuttosto che soffermarsi su queste categorie consuete, in modo molto originale gli studiosi provano a individuare cinque figure tipo dei possibili rapporti di tensione tra libertà e lavoro, che vanno dalla «liberazione del lavoro» alla «liberazione dal lavoro», passando dalla «liberazione nel lavoro», «attraverso il lavoro» e «malgrado il lavoro» .
Secondo l’interessante proposta del libro, «liberare il lavoro» significa appropriarsi del proprio lavoro e farlo riconoscere, realizzarlo in libertà, quindi trasformare il lavoro affinché il soggetto abbia realmente più libertà. Questo implica superare ogni forma di patologia psichica e fisica che interessa il lavoro, ossia inscriversi in una prospettiva di emancipazione. «La liberazione nel lavoro» costituisce una declinazione del primo momento. Questa possibile rapporto tra libertà e lavoro rimanda all’esercizio della propria libertà di organizzazione, di creazione, di ideazione nei processi lavorativi, alla ricerca costante di margini di manovra, anche attraverso la mobilitazione delle competenze e degli apprendimenti. La figura della «liberazione tramite il lavoro» rinvia invece all’accesso, tramite l’impiego, a qualcosa di altro, che rinsalda la propria identità sociale: a uno stipendio che permette l’indipendenza economica, a uno status che dischiude una forma di riconoscimento sociale, ai diritti sociali. Ma il rapporto tra libertà e lavoro può assumere anche una diversa forma: ci si può «liberare malgrado il lavoro», quando si cerca di costruire un altrove extra-lavorativo dove investire la propria energia, dove sviluppare un’attività che si sente libera perché non costretta dalle regole della condizione salariale. E ci si può anche «liberare dal lavoro», ossia praticare un rifiuto o una fuga dalle forme di impiego consolidate, per evitare una vita malata o mutilata, al fine di conquistare nuove risorse che permettano di esercitare la libertà in modo originale. È questo il caso del fenomeno scoppiato dopo la pandemia, anche se in parte poi ridimensionato, delle «grandi dimissioni».
Stabiliti questi criteri di massima, il compito dei diversi contributi è quello di analizzate singole sfaccettature di questi possibili rapporti tra lavoro e libertà. Al centro del primo contributo, quello dello psicoanalista Christian Dejours, fondatore dell’indirizzo della psicodinamica del lavoro che costituisce anche una delle direzioni di ricerca maggiormente presenti in tutto il libro, c’è il tema del continuo movimento tra alienazione ed emancipazione nel lavoro. L’intuizione di partenza di questo approccio è che esiste sempre uno scarto tra il lavoro prescritto e il lavoro reale di chi deve realizzare un compito e incontra sulla sua strada imprevisti, contingenze, ostacoli, un reale che oppone resistenza a un piano prestabilito. L’esperienza di questo scarto ineliminabile procura sofferenza, ma è anche la molla per la mobilitazione di un’intelligenza creativa, finalizzata a superare gli ostacoli. Un’intelligenza che è sempre sovversiva nei confronti delle prescrizioni e delle regole date, in quanto coincide con un potere autonomo di fare e di trovare soluzioni, e che è veicolo di una trasformazione di sé e del proprio rapporto con il mondo e con se stessi, ossia di un’esperienza di libertà. Nel «lavoro vivo», quando questa intelligenza si articola a quella degli altri prende forma uno scambio di esperienze e di saperi pratici, e quindi una cooperazione da cui scaturiscono regole di mestiere, elaborate in spazi di deliberazione che, nel quotidiano del lavoro, non possono non fare resistenza alle coercizioni dell’impresa, tanto più quella neoliberale, dove il management pretende di misurare e valutare il lavoratore con i criteri astratti dell’ottimizzazione costante del lavoratore-imprenditore di se stesso. In che modo allora è possibile riconoscere questo potenziale eccedente di emancipazione individuale e di deliberazione cooperativa che emerge nel lavoro vivo, e che viene costantemente ostacolato e represso dal lavoro organizzato in funzione dell’imperativo capitalistico all’accumulazione continua?
È questo il tema della democratizzazione del lavoro, che è un altro modo per nominare la possibile liberazione del lavoro e nel lavoro. Questo campo di studio, su cui di recente è intervento anche il filosofo tedesco Axel Honneth con il suo libro Il lavoratore sovrano , è al centro del contributo di Emmanuel Renault, uno dei più importanti filosofi sociali del lavoro su scala internazionale. Renault parte dalla constatazione che il tema della democratizzazione del lavoro è sparito per lungo tempo non solo dalla sfera pubblica democratica, ma anche da quei settori della riflessione intellettuale che pure avrebbero dovuto continuare a ritenerlo uno dei temi più importanti. In primo luogo questo tema ha perso rilevanza nell’arcipelago dei movimenti di sinistra, dove generalmente domina una visione negativa del lavoro, secondo la quale l’emancipazione si può realizzare solo fuori dal lavoro e dai suoi luoghi. Curiosamente questo tema è sparito anche dalla filosofia politica: anche quando essa ha individuato come antidoto alla crisi della democrazia una democratizzazione della democrazia, raramente ha riconnesso quest’ultima istanza a una democratizzazione del lavoro. Cosa può significare quindi oggi una democratizzazione del lavoro, che sia veicolo di democratizzazione della democrazia? Vengono delineati qui due scenari: quello dell’applicazione dei principi di una democrazia rappresentativa o partecipativo-deliberativa al processo decisionale dell’impresa, e quello di una democrazia partecipativa concernente l’insieme dell’attività collettiva del lavoro . Questa seconda opzione, più radicale, ma anche più aderente alle intuizioni della psicodinamica del lavoro prima richiamate, prevede che si conferisca maggior potere e autonomia ai collettivi di lavoro, al fine di trasformare quanto più possibile le prescrizioni e le valutazioni imperative del management, spesso distanti dall’esperienza concreta del lavoro vivo, in reale cooperazione sociale volta a deliberare dal basso sulle regole che guidano le attività di lavoro.
Si può dubitare della realizzabilità immediata di questi principi, che rimandano a un radicale ripensamento delle forme di organizzazione del lavoro. Certo è che essi costituiscono un utile parametro di misura critico per cogliere le ambivalenze e le contraddizioni del modo in cui il tema di una liberazione del lavoro è stato captato e declinato dal patronato, in un movimento volto a modernizzare e a reinventare le modalità di gestione e di organizzazione del lavoro che ha avuto non pochi aspetti problematici. Su questo si sofferma il contributo di Danièle Linhart. Come ricostruisce l’autore, i progetti manageriali volti a «liberare l’impresa» hanno avuto l’obiettivo di dare fiducia ai dipendenti, di creare spirito di squadra, di liberare i lavoratori, ma non hanno mai messo in questione l’assoluta centralità verticale dell’azione dei dirigenti e delle loro strategie di impresa volte a aumentare i livelli di produttività e di redditività, con l’occhio rivolto ai listini azionari. Anche la fiducia accordata ai lavoratori e i metodi innovativi di team building sono stati tasselli di strategie che hanno sempre mantenuto inquestionato lo status di subordinazione giuridica dei dipendenti, e non hanno radicalmente mutato la libertà nell’organizzazione dell’impresa. Alla fine, in questo modello, l’autonomizzazione e responsabilizzazione dei dipendenti è avvenuta principalmente tramite la loro messa in relazione immediata con i clienti e con le coercizioni del mercato. Questa semplificazione burocratica ha favorito certo il coinvolgimento dei dipendenti, senza il bisogno di imposizioni e controlli, ha anche aumentato il senso della loro autonomia e il loro senso di libertà e avventura. Ma tutto questo non si è riflesso, per lo più, né nell’aumento degli stipendi, né in una vera e propria democratizzazione dei processi di governance aziendale, rimasti esclusivo appannaggio del management e della direzione.

Verso una nuova narrazione culturale del lavoro?

La seconda parte del volume si apre con una nuova riflessione del collettivo ArTLib. Il passo successivo di questo percorso di ricerca consiste nel passare al vaglio le grandi prospettive culturali all’interno delle quali la tensione tra lavoro e libertà è stata messa a tema e si è rivelata storicamente. Anche rispetto a questo secondo momento dell’indagine viene proposta una stimolante griglia di criteri, alla luce della quale si invita a differenziare tra prospettive macro o collettive, meso o intermedie, micro o individuali .
Il primo tipo di prospettiva viene fatto coincidere con le grandi narrazioni culturali del lavoro che hanno dominato finora. Storicamente avevano conquistato un’egemonia culturale nella modernità due narrazioni contrapposte: quella borghese e quella socialista-comunista. Oggi sperimentiamo la crisi dell’egemonia culturale della narrazione neoliberale. La domanda è quindi se, di fronte alle metamorfosi del lavoro contemporanee, sia possibile elaborare una una nuova grande narrazione che metta al centro, in forme diverse, l’articolazione tra lavoro e libertà, e sappia conferire un senso a questa pratica sociale, fuori dagli schemi teleologici e trascendenti che sono stati proiettati sul lavoro in passato.
La grande narrazione borghese, prodotta dalla prima classe dominante occidentale che lavora, aveva al suo centro l’imprenditore, quale incarnazione dello spirito del capitalismo, quest’ultimo scaturito dall’etica economica votata alla salvezza celeste, propria di alcune correnti del protestantesimo. Rispetto ai rapporti tra libertà e lavoro prima definiti, questa narrazione puntava decisamente sulla libertà «tramite» e «nel lavoro», in quanto rimandava all’orizzonte di un’autorealizzazione morale e sociale e di un’autorealizzazione economica e politica dell’individuo borghese nel lavoro. Come notano acutamente gli studiosi, la crisi di questa prima grande narrazione solleva la domanda se possa esistere un equivalente funzionale di quella antica promessa di salvezza religiosa o morale, oggi screditata, che potrebbe conferire al lavoro una nuova centralità nella vita individuale e collettiva. La seconda grande narrazione, quella socialista-comunista, aveva come soggetto e protagonista indiscusso il polo opposto nella dialettica tra capitale e lavoro, ossia il proletariato, la classe lavoratrice. Anche in questo caso era presente una sorta di glorificazione del lavoro, sebbene non di origine religiosa, che poi sfociava in una certa santificazione ideologica di tale attività. L’idea di fondo era che il lavoro è tanto il luogo di ogni patologia generata dal sistema capitalistico – alienazione, sfruttamento, servitù – quanto il veicolo di una compiuta auto-emancipazione del proletariato, che avrebbe condotto a una liberazione dell’umanità intera da ogni forma di dominio. Anche in questo caso, rimangono aperte alcune domande cruciali: è ancora possibile parlare di un macrosoggetto caratterizzato da una condizione e da interessi comuni? Si può ancora affermare, e se sì in che senso, che il lavoro costituisce il veicolo più efficace di umanizzazione? Quali sono oggi i conflitti sul campo di battaglia del lavoro che dischiudono la possibilità di progresso e di speranza in un superamento del capitalismo come forma di vita?
Come si è già detto, la grande narrazione neoliberale è quella che ha per soggetto il lavoratore-impresa, un soggetto modellato sulla nozione di capitale umano, costantemente valutato in relazione alla sua capacità di adattabilità permanente nella gara perpetua del mercato competitivo. Giustamente gli autori denunciano il modo in cui questa grande narrazione ha avuto la capacità di catturare e monopolizzare tutte i possibili rapporti tra libertà e lavoro, dalla liberazione del lavoro alla liberazione dal lavoro. E anche in questo caso vengono sollevate domande fondamentali: possono emergere oggi narrazioni alternative del lavoro, rispetto a quella che punta esclusivamente sul lavoro come strumento di successo e di riuscita individuale? In che senso questa nuova narrazione alternativa dovrebbe fondarsi sul bisogno di vivere insieme, su saperi tecnici, storici, teorici, su esperienze che permettono agli individui di emanciparsi insieme e non come singoli individui: in iniziative collettive, di lavoro, di attività, di volontariato, di consumo responsabile, che oltrepassino il mito dell’ingiunzione all’adattabilità e all’investimento continuo su di sé e pongono il tema dei fini del lavoro, facendo segno verso una socialità solidale nel lavoro, che si crea anche in vista di un ripensamento collettivo dei nostri modelli di sviluppo?
La prospettiva meso o intermedia si focalizza sulle organizzazioni e le imprese che intervengono nella messa in forma del lavoro, per un verso permettendo maggiori margini di autonomia alle persone che lavorano, per altro verso non mettendo in questione le gerarchie. Da ultimo, la prospettiva micro o individuale esamina il posto e il senso del lavoro per ciascun individuo, con particolare attenzione al tipo di individualità forgiata e presupposta dal lavoro, ai legami che il lavoro permette di istituire con il mondo, lasciando aperta o meno la possibilità di un’azione libera.
Sulla base di queste ulteriori premesse, prende avvio la seconda parte del libro con tre altri contributi, che si focalizzano, in particolare, sulle nuove forme del lavoro digitale e sul campo di tensione che in esse si sta dischiudendo tra libertà e lavoro.
Nel contributo di Nicoli, Paltrinieri, Prévot-Carpentier, si mette in luce come le piattaforme digitali e la gig economy sono attraversate da una tensione di fondo. Per un verso la nuova cultura del lavoro autonomo, in questo settore, affida un significato fondamentale alla promessa di libertà e autonomia. Per altro verso, però, il lavoratore è sottoposto a nuove forme di controllo che lo legano al committente, nascoste dietro l’appello all’autonomia. L’emergenza del capitalismo di piattaforma deve essere letta, da questo punto di vista, come una crisi del modello dell’impresa classica, che prima costituiva uno spazio di organizzazione del lavoro fondato sulla proprietà privata, mentre ora sembra trasformarsi, nella finanziarizzazione dell’economia, in un oggetto sociale sempre meno differenziabile dal mercato, che mette direttamente in contatto committenti e lavoratori. Rovesciando prospettiva, tuttavia, proprio in questa crisi del modello classico di impresa può essere vista anche un’opportunità per la sperimentazione di forme rinnovate di cooperazione, come il platform cooperativism .
L’articolo successivo, di Isabelle Berredi-Hoffman, si interroga sulle «condizioni di istituzione di un lavoro definito come libero e sulle forme produttive alternative che emergono oggi» , tracciando una storia dei tentativi di creazione di un lavoro autonomo nei mondi del digitale, a partire dagli anni ’70. In California e in Europa, a partire dal dopoguerra, hanno visto la luce imprese che affermano di essere senza gerarchia, strutture in cui il capitale è condiviso tra i dipendenti, società di servizi che rifiutano ogni procedura. La domanda che sta alla base di questa ricostruzione storica è se questi discorsi e queste pratiche di libertà sono reali, oppure rappresentano, in fin dei conti, soltanto «un’astuzia supplementare di un capitalismo digitale e finanziario egemone che è riuscito a strumentalizzare questi discorsi per giustificare pratiche che aggirano i diritti del lavoro nazionali e le protezioni sindacali» . Da questo punto di vista, è chiaro che non è sufficiente fare appello al lavoro libero o anche liberarsi di gerarchie e di strutture burocratiche, per poter parlare di liberazione del lavoro e nel lavoro. La vera posta in gioco rimane la condivisione effettiva del potere. Vengono esaminati in particolare tre momenti critici nella storia delle forme produttive e del management alternative nei mondi digitali: l’invenzione della figura del dipendente-azionista nella Silicon Valley; il caso delle cooperative e delle piattaforme negli anni 2000; le nuove maniere di produrre e di organizzarsi in comuni a partire dagli esempi dei Fablabs e dei makerspaces della regione del Gretaer Boston negli anni ’10 del XXI secolo. In questi diversi momenti il lavoro libero assume diverse significazioni e declinazioni: in connessione con il rapporto con il capitale, con la governance di impresa, con la comunità di lavoro o con l’attività. Per l’autrice sono proprio questi quattro livelli che permettono di stabilire una griglia di analisi dei livelli effettivi di libertà. La conclusione dell’autrice è che il lavoro libero non può definirsi solo a partire dalle forme di proprietà alternative né solo sulla base di una governance egualitaria, e nemmeno unicamente a partire dall’attività, la cui autonomia è sempre ambivalente. Affinché il lavoro possa definirsi autonomo e libero devono coesistere insieme questi tre criteri: non solo l’assenza di prescrizioni gerarchiche e procedurali dall’attività, non solo livelli di partecipazione nella governance, ma anche regolamenti orizzontali e partecipativi nella comunità di lavoro. Soprattutto questo terzo livello, quello delle comunità di lavoro, rappresenta il terreno più radicale di sperimentazione per pensare una libertà d’azione individuale nelle nuove forme produttive, come le piattaforme, le cooperative e le comunità produttive.
Nell’ultimo contributo di Michel Lallement si tenta di chiarire quali debbano essere i principi di una sociologia critica in grado di considerare l’autonomia sul lavoro e del lavoro come un fattore di libertà sociale. Per definire la libertà sociale l’autore si riallaccia alle recenti elaborazioni di Axel Honneth che, riallacciandosi a Hegel, ha definito la libertà sociale «l’esperienza di un’espansione sociale senza forzature, che risulta dal fatto che i miei obiettivi vengono incoraggiati dagli obiettivi degli altri» . Muovendo dal principio secondo cui il lavoro, in quanto rapporto sociale, entro certe condizioni istituzionali, può dischiudere un’esperienza di libertà sociale, nella misura in cui può dischiudere l’esperienza di una cooperazione basata sul reciproco riconoscimento, Lallement assume che il lavoro vivo, realmente esistente, è sempre caratterizzato da una dialettica tra controllo e autonomia, tra volontà di dominio e desideri di libertà individuale e sociale. Lo studioso francese passa quindi a mappare quelle esperienze concrete di riorganizzazione libertaria e solidale del mondo del lavoro che possono essere interpretate come utopie concrete di un lavoro autenticamente liberato. L’autore si sofferma sulle esperienze delle comunità intenzionali libertarie negli Stati Uniti, in particolare Twin Oaks e Acorn. Come egli osserva, esistono diverse ambivalenze in queste comunità, che temperano l’efficacia della libertà sociale. Tuttavia, secondo Lallement, esse mettono in forma pratiche sociali a tal punto divergenti da quelle in vigore nella società circostante, da far divenire queste comunità indici di possibili modi alternativi di vivere insieme. Tre principi qualificano questo lavoro libertario. La prima caratteristica concerne le rappresentazioni collettive del lavoro: i membri delle comunità intenzionali di ispirazione libertaria sanno definire da soli ciò che si può ragionevolmente chiamare lavoro e sono più capaci di negoziarne i confini, facendo saltare criteri istituzionalizzati che oscurano e invisibilizzano aspetti del lavoro sociale, come il lavoro di cura. Queste comunità hanno poi un modo di coordinamento basato sulle affinità elettive, per cui «ciascuno opera con chi vuole secondo le modalità che più gli piacciono» . La terza caratteristica è relativa ai modi di costruzione della regolazione sociale, che si fonda in larga parte sul metodo del consenso, temperato dal riconoscimento della legittimità di iniziative autonome di singoli membri della comunità. L’individuazione è così il quarto tratto costitutivo del lavoro libertario. Sulla base di questi schemi, secondo Lallement, è possibile avviare un lavoro di sociologia critica che ha l’obiettivo di rilevare le forme del dominio nel lavoro, ma anche il potenziale emancipativo di cui l’autonomia e il lavoro libertario sono portatori. Proprio il registro dell’utopia è evocato nella chiusura del libro, affidata ancora una volta alla comunità di ricerca ArTLab. Secondo gli studiosi, la sfida oggi è proprio quella di pensare e praticare altrimenti il lavoro, «perché esso lasci effettivamente più spazio alla libertà di tutti e di ciascuno» .
Si può osservare, a conclusione del presente contributo, che oggi rifarsi a esperienze liminali e utopiche, come quelle analizzate da Lallement nel suo contributo – alle cui analisi si riallacciano anche i membri di ArTLab in conclusione del libro – può assumere vera portata critica solo se si riesce a mostrare come queste suggestioni non debbano rimanere confinate a esperienze esterne e circoscritte, ma possono essere applicate, in qualche modo, anche al mondo del lavoro istituzionalizzato, affinché esso ridiventi prima di tutto il terreno di conflitti culturali, la cui posta in gioco non deve essere più soltanto l’equa ripartizione del prodotto sociale e i diritti del lavoro, ma anche la forma di organizzazione democratica del lavoro e i fini sociali del lavoro . Proprio le domanda di democratizzazione del lavoro e di un suo riorientamento in vista di fini sociali ed ecologici può rivelarsi, oggi più che mai, il terreno politico-culturale decisivo su cui si gioca la sfida di invertire le tendenze di crisi delle nostre democrazie.

 

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