testo integrale con note e bibliografia
Cogliendo l’invito al dibattito promosso da questa Rivista e volendo offrire, dalla visuale dell’operatore del diritto, una qualche riflessione sull’esito del notevole sforzo prodotto dal Gruppo Freccia Rossa, queste brevi considerazioni tenteranno di cimentarsi, dapprima, in una breve lettura, in chiave costituzionale, dell’interessante relazione illustrativa alla Proposta di riforma, di modo da formulare, in un secondo momento e in luce degli approdi di legittimità, alcuni appunti alla sua sezione propriamente normativa.
Muovendo con ordine, potrebbe anzitutto rilevarsi come il progetto offerto alla discussione si presenti, almeno dal punto di vista dell’impostazione, in sostanziale linea di continuità con le più recenti riforme , che rompendo con il passato, dove la conseguenza principale dell’illegittimità del recesso era la “reintegrazione” del lavoratore, hanno invece virato verso la segmentazione delle tutele, graduata a seconda della gravità del vizio affliggente il licenziamento .
Una svolta, questa, come noto dettata anche da pressioni esterne, in nome della competitività ed efficienza di imprese e mercato , che nei fatti ha però condotto a un «complessivo arretramento delle garanzie a favore della flessibilità in uscita» e senza oltretutto esibire, trascorso più d’un ventennio, quelle “compensazioni” da sempre auspicate, né sul fronte delle politiche attive per il singolo prestatore di lavoro , né per la collettività in termini di incrementi occupazionali .
A ogni modo, questa nuova visione, senza dubbio costituzionalmente ammessa in ragione del mutato contesto storico e che si poneva «L’intento di circoscrivere entro confini certi e prevedibili l’applicazione del più incisivo rimedio della reintegrazione e di offrire parametri precisi alla discrezionalità del giudice» , ha comunque dovuto fare i conti con l’intensa azione correttiva e di adattamento operata dalla Consulta, pronunciatasi, come risaputo, in ben sette dichiarazioni d’incostituzionalità .
In particolare, sembra ormai potersi affermare che il conflitto più stridente, queste «radicali riforme» lo abbiano riscontrato con l’art. 3 della Carta, perché se è vero che «la reintegrazione non costituisce il solo e indefettibile modello di tutela del prestatore a fronte dell’illegittimità del licenziamento» , la Corte ha di contro ribadito, come pure un rimedio meramente indennitario debba risultare “adeguato” ossia «che assicuri un serio ristoro del pregiudizio arrecato dal licenziamento illegittimo e dissuada il datore di lavoro dal reiterare l’illecito» .
Sicché, in una materia «di importanza essenziale» , qualunque congettura di disciplina, ancorché improntata alla «predeterminazione e l’alleggerimento delle tutele» , per risultare conforme al principio d’uguaglianza, comunque «deve tendere, con ragionevole approssimazione […] a rispecchiare la specificità del caso concreto e quindi la vasta gamma di variabili che vedono direttamente implicata la persona del lavoratore» , con l’inevitabile conseguenza che «In un sistema equilibrato di tutele, la discrezionalità del giudice [deve rivesitre] un ruolo cruciale» .
In definitiva, non vi è dubbio che nel reiterato scrutinio di costituzionalità, le esigenze datoriali di certezza della “sanzione” siano risultate soccombenti rispetto alla discrezionalità da assicurare al sindacato giudiziale, poiché imprescindibile per rispondere «all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore» e da limitare solo ove, causa aporie della formulazione normativa, lo stesso implichi «un apprezzamento imprevedibile e mutevole, senza alcuna indicazione utile a orientarne gli esiti» ovvero sia guidato da un «un criterio distintivo, che fa leva su una mutevole valutazione casistica e su un dato privo di ogni ancoraggio con l’illecito che si deve sanzionare, non si fonda su elementi oggettivi o razionalmente giustificabili e amplifica le incertezze del sistema» .
Eppure, fra gli «importanti valori» perseguiti dalla Proposta di riforma, oltre a quello certamente colto di reductio ad unum della disciplina, vi sarebbe anche quello della «certezza […] del regime sanzionatorio applicabile» , proprio nella prospettiva di offrire «un quadro prevedibile e stabile alle imprese» .
Ma all’evidenza, persino il pregevole restyling operato dal Gruppo Freccia Rossa non pare in grado di raddrizzare il peccato originario insito ai più recenti modelli di regolazione, comportanti per il giudice, non solo «di accertare la sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo di recesso, [ma] anche il grado di divergenza della condotta datoriale dal modello legale e contrattuale legittimante» : la sostanziale impossibilità di catalogare, a priori e in modo coerente al sistema , l’intera gamma di fattispecie contra ius.
Per esempio, nella fondamentale selezione fra «forme di tutela profondamente diverse» , come quella reale “forte”, “attenuata” o meramente indennitaria, nemmeno la Proposta di riforma prende esplicita posizione su ipotesi d’illiceità tutt’altro che infrequenti e dalla giurisprudenza di legittimità nient’affatto risolte, vedi i dilemmi che ancora attanagliano la collocazione rimediale del licenziamento intimato pe mancato superamento della prova o in ragione del trasferimento d’azienda .
Parimenti, nemmeno risultano esaustive le pur meritorie specificazioni operate riguardo, rispettivamente, al motivo disciplinare ed economico di recesso.
Quanto al primo, senza contare la perdurante incertezza scaturente dall’incompatibilità di fondo fra gli elastici criteri di ermeneutica contrattuale e l’individuato “recinto” delle «infrazioni specificatamente tipizzate nel codice disciplinare» , anche l’esplicitata inclusione nell’area della reintegrazione “minore” dell’omessa procedura ex art. 7 l. 20 maggio 1970 cit. , non esaurisce certo i dubbi applicativi concernenti la violazione degli altri essenziali criteri della contestazione disciplinare, vedi le ambiguità in ipotesi di accertato difetto di tempestività , specificità o immutabilità della stessa; per non parlare poi dei casi di «modestissima rilevanza disciplinare» dell’addebito, per i giudici della nomofilachia potenzialmente riconducibile alla fattispecie del licenziamento “ritorsivo” e, dunque, affetto da nullità .
Rispetto al secondo, l’esplicita esclusione del repechage dal rimedio più incisivo della reintegra “mitigata”, a favore della sua sistemazione presso la tutela esclusivamente indennitaria, sembra non considerare affatto il percorso inverso che potrebbe, invece, concernere la violazione dei c.d. “criteri di scelta” , perlomeno laddove adoperati dal datore con intenti discriminatori .
E a tal proposito, se è vero che fra i capisaldi della Proposta di riforma vi è la «riduzione dei margini di incertezza applicativa» , una volta acquisito che il licenziamento inosservante del periodo di c.d. “comporto” sia nullo per violazione di norma imperativa e riconosciuto direttamente nel testo , il fatto che il medesimo possa pure ricadere - e non di rado - nella fattispecie della discriminazione , è realmente difficile comprende la giustificazione per la quale si persiste nell’ estrometterlo dalle conseguenze previste per i casi d’illegittimità di gravità più elevata .
In definitiva e come già accennato sopra, queste poche righe per significare che, con tutta probabilità, qualunque esercizio della discrezionalità legislativa, ancorché elaborato dalle mani più avvedute, se imperniato sulla notevole differenziazione dei rimedi sembra destinato a cadere sotto il peso della complessità di quelle «doverose garanzie» alla stabilità del rapporto edificate, nel tempo, dal diritto del lavoro e dal quale, di riflesso, discendono oggi, una quasi indeterminabile possibilità di violazioni dell’agire datoriale.
Al contrario, stando così le cose, potrebbe piuttosto convenirsi che l’unico modo «di consentire al datore di lavoro di avere maggiore certezza in ordine alle possibili conseguenze del recesso, evitando che queste [divengano] imprevedibili e, dunque, [possano] incidere oltremodo ed ex post nell’assetto degli interessi economici dell’impresa» , sia quello inverso ossia di ritornare nella direzione di una, almeno tendenziale - e comunque “a