testo integrale con note e bibliografia
‘’Il progetto Freccia Rossa – scrivono gli autori nelle considerazioni conclusive - non è una mediazione politica, né una proposta ideologica. È il tentativo di costruire un diritto del lavoro “post- giurisprudenziale”, per recepire le migliori acquisizioni dottrinali, tener conto dei più recenti indirizzi della Corte costituzionale, superare le contraddizioni delle riforme precedenti, mediare tra diversi indirizzi giurisprudenziali e proporre una sintesi normativa funzionale e tecnicamente avanzata’’. Se si volesse fare un paragone culinario si potrebbe paragonare il testo elaborato ad una ‘’paella’’, il tipico piatto della cucina spagnola che è costituito dagli avanzi del pranzo e della cena dei giorni precedenti tenuti insieme da una base di riso. In questo paragone non c’è nulla – almeno nelle intenzioni di chi scrive - che induca a sottovalutare il meritorio lavoro dei giuristi raccolti nel Gruppo Freccia Rossa, anzi è pertinente il paragone perché il piatto che si compone con gli avanzi è divenuto la ‘’pietra d’angolo’’ dei menu iberici più pregiati. Nel progetto, infatti, vengono recuperati, messi in ordine e razionalizzati singoli aspetti delle principali leggi che disciplinano il regime sanzionatorio dei licenziamenti ritenuti illegittimi. Ne deriva – come la principale caratteristica – una più ampia modulazione delle sanzioni che consente al giudice di valutare con maggiore flessibilità le sanzioni previste delle cause di illegittimità, riconducibili alla medesima fattispecie di recesso. Sotto questo profilo le diverse casistiche di reintegrazione (rafforzata, attenuata, debole) conserverebbero nell’ambito di una nuova disciplina della materia, le principali innovazioni introdotte (magari con un impianto un po’ macchinoso) dalla legge n. 92/2012 e dal Dlgs n.23/2015, impropriamente definito jobs act. Molto importante, poi, è la scelta di definire delle regole comuni a prescindere dalla data di assunzione, superando il principale limite del contratto a tutele crescenti quello ciò di aver introdotto un modello parallelo per gli assunti dal 7 marzo 2015, anziché intervenire sull’articolo 18 della legge n.300/1970 come novellato dalla legge n.92/2012 in maniera complessa sul piano sostanziale e procedurale. Il progetto del Gruppo Freccia Rossa viene destabilizzato su di un aspetto importante dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 118/2025, nella quale i giudici delle leggi si sono di nuovo accaniti contro il solito jobs act (dlgs n.23 /2015) dichiarando l’incostituzionalità per violazione dell’artico 3 della Costutuzione della norma che stabilisce, nel caso di licenziamenti illegittimi intimati da un datore di lavoro che non occupi più di quindici lavoratori (in sostanza una piccola impresa), un tetto all’ammontare delle indennità risarcitoria, la quale «non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità» dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio. Secondo la Corte, l’imposizione di un simile limite massimo, fisso e insuperabile, a prescindere dalla gravità del vizio del licenziamento, circoscrive entro una forbice così esigua da non consentire al giudice di rispettare i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento del danno sofferto dal lavoratore illegittimamente licenziato, né da assicurare la funzione deterrente della stessa indennità nei confronti del datore di lavoro. E’ il medesimo ragionamento che indusse la Corte, con sentenza n. 194 del 26 settembre 2018 ad azzoppare il jobs act in uno dei punti più qualificanti: la predeterminazione del costo del licenziamento per il datore in base all’anzianità di servizio. Anche in quel caso la Consulta ritenne che venisse vincolata la valutazione del giudice di ragguagliare il risarcimento alla gravità del fatto. Di diversa opinione i giuristi che hanno elaborato il progetto, dove è prassi comune prevedere dei range fissi delle indennità risarcitorie previste per ogni tipologia di licenziamento giudicato illegittimo, come avviene nella maggioranza dei Paesi. Anzi la questione è apertamente affrontata dal Gruppo con l’indicazione di un parere contrario e motivato nei confronti di quanto la stessa Consulta aveva avuto occasione di suggerire, prima di intervenire con la sanzione dell’illegittimità costrituzionale. Come sta scritto nella relazione illustrativa: ‘’ Malgrado l’espresso monito della Consulta, non si sono introdotti criteri alternativi o aggiuntivi (EBITDA, fatturato, bilancio, gruppo di impresa) a quello del numero dei dipendenti per la identificazione della impresa minore allo scopo dell’applicazione del regime rimediale ottimale. Pertanto non si è inteso superare la rigidità del criterio numerico tradizionale includendovi però i collaboratori stabili (di cui all’art. 2, d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81), lavoratori part-time e lavoratori all’estero. La ragione - prosegue il testo -della esclusione dei criteri economico-finanziari sta nella difficile trasferibilità da altri contesti dei criteri finanziari identificativi dell’impresa minore e nella incertezza discretiva che essi finirebbero comunque per generare con rischio di introdurre elementi di vischiosità in contrasto con le esigenze di accertamento giudiziale celere del regime applicabile’’. Affermare che questa valutazione è condivisibile è ormai una licenza romantica. La Corte Costituzionale ha il diritto esclusivo e inappellabile ‘’di vita e di morte’’ delle norme sottoposte al suo sindacato di legittimità, ma ciò non significa che le sue sentenze siano scolpite nel bronzo a sfidare l’eternità. Sono parecchi gli elementi che rendono discutibile questa sentenza. Nel caso delle piccole imprese, però, c’è una questione specifica che merita un chiarimento. Il jobs act non ha innovato alcunché in questa materia, limitandosi a confermare quanto la legislazione ha stabilito da almeno sessant’anni. Lo ha ricordato pochi mesi orsono la stessa Corte nella sentenza n.13/2025 con cui è stata dichiarata l’ammissibilità del referendum della Cgil sulle piccole imprese. ‘’Occorre precisare che, sin da quando è stata introdotta, nel 1966 (dell’art. 8 della legge n. 604, ndr) la tutela indennitaria, la fissazione in via legislativa di un tetto massimo per la liquidazione dell’indennità da licenziamento illegittimo, insieme alla sua articolazione a seconda del requisito dimensionale del datore di lavoro, rappresenta un dato costante. Essa, infatti, si rinviene all’indomani dell’entrata in vigore dello statuto dei lavoratori, di cui alla legge n. 300 del 1970, che, all’art. 18 (il sancta sanctorum, ndr), ha introdotto la tutela reintegratoria al fianco di quella solo indennitaria’’. Segue poi l’elenco di tutti gli ulteriori provvedimenti legislativi che non hanno modificato quella disciplina senza incorrere in alcuna sanzione di illegittimità costituzionale. Addirittura esiste una legge specifica (n.108/1990) che disciplina il licenziamento illegittimo nella piccola impresa mediante ‘’un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro". Ovviamente con grande soddisfazione della Cgil che si era intestata in materia un referendum abrogativo, miseramente fallito. Una delle critiche rivolte a quel referendum riguardavano l’effetto paradossale (magari è solo un caso di scuola) per cui, abolendo il tetto dei sei mesi per la piccola impresa, senza toccare quello di 36 mesi per l’azienda più grande si profilava il rischio di sanzionare più gravemente la prima rispetto alla seconda. Il diritto del lavoro si applica ad una realtà che va contestualizzata. La Corte ne ha sempre tenuto conto tutte le volte che si è trovata a decidere delle tutele del licenziamento. Si vede che il nuovo corso della tutela del licenziamento comincia a 60 anni. .