testo integrale con note e bibliografia
In qualità di consulente aziendale, rilevo quotidianamente una crescente necessità da parte delle imprese di poter contare su un sistema normativo chiaro e prevedibile in materia di licenziamenti per due particolari tipologie di interruzione del rapporto di lavoro, ovvero la giusta causa e lo scarso rendimento. Questi due ambiti rappresentano oggi il principale terreno di incertezza, sia per la loro connotazione valutativa, sia per la forte discrezionalità riconosciuta ai giudici nell’interpretazione dei fatti e nella determinazione delle conseguenze giuridiche.
Il datore di lavoro è, per definizione, il soggetto che organizza i mezzi produttivi e assume il rischio d’impresa. A questo soggetto la Costituzione italiana, all’art. 41, riconosce la libertà di iniziativa economica, che deve potersi esercitare anche attraverso la gestione efficiente e coesa del personale. È quindi naturale che un’impresa debba essere messa nella condizione di rimuovere situazioni disfunzionali o comportamenti nocivi per l’equilibrio organizzativo, specie quando si tratta di elementi che compromettono la produttività del team o la reputazione aziendale.
In entrambi i casi, il datore di lavoro si trova spesso in una posizione di debolezza probatoria pur a fronte di comportamenti lesivi evidenti.
Laddove si verifichino episodi di insubordinazione, negligenza grave, danni economici diretti, o reiterate condotte improduttive, il datore di lavoro deve poter agire con celerità e senza il timore che, a distanza di anni, un giudice rivaluti l’intera vicenda sulla base di una ricostruzione astratta e decontestualizzata. È illogico, infatti, che il magistrato – il quale non vive il contesto aziendale, né ne percepisce quotidianamente le dinamiche – possa disattendere la valutazione datoriale fondata su prove, dati oggettivi, testimonianze, verbali interni e richiami pregressi formali e informali.
In un ambiente lavorativo sano, il datore non ha alcun interesse a licenziare un dipendente corretto, produttivo e integrato: al contrario, lo valorizza. L’atto di licenziamento rappresenta sempre una soluzione estrema, spesso costosa e carica di rischi. Il fatto stesso che venga adottato dovrebbe costituire un indice presuntivo dell’inevitabilità della misura, da valutare con parametri normativi oggettivi, chiari e predeterminati.
Due esempi concreti evidenziano i limiti dell'attuale impostazione giurisprudenziale:
• Attività lavorativa durante la malattia: la Cassazione (sent. n. 23747/2024) ha confermato che il lavoratore può essere licenziato solo se l'attività svolta compromette il recupero o dimostra simulazione della malattia, richiedendo oneri probatori spesso sproporzionati per l’azienda (soprattutto se di piccole dimensioni);
• Licenziamento per scarso rendimento: Con ordinanza n. 9453 del 6 aprile 2023, la Corte di Cassazione precisa che il datore di lavoro è tenuto a fornire la prova che il mancato raggiungimento di un risultato prefissato – che non costituisce di per sé inadempimento – derivi da una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal prestatore di lavoro ed allo stesso imputabile. La difficoltà nel misurare la violazione della diligenza collaborativa sta nel fatto che:
• è un concetto normativamente generico;
• è legato a percezioni soggettive;
• richiede prova di nesso causale tra condotta e danno;
• si presta a interpretazioni discrezionali del giudice.
Pertanto, si propone di introdurre:
1. Una definizione tipizzata di "scarso rendimento", demandata alle parti sociali, basata su criteri oggettivi e misurabili (es. obiettivi minimi non raggiunti per tre periodi consecutivi, mancato rispetto di KPI condivisi, ecc.);
2. Una check-list normativa per la giusta causa, che includa fattispecie esemplificative con valore vincolante
3. Un sistema sanzionatorio oggettivo e predefinito, con reintegra limitata ai soli casi di nullità o manifesta insussistenza, e indennità economiche parametrate su criteri certi (es. anzianità, dimensione d’impresa, ecc.);
4. La valorizzazione della valutazione datoriale, riconoscendo che solo il datore può pienamente percepire l’impatto negativo di determinati comportamenti sull’ambiente di lavoro e sulla catena del valore.
L’obiettivo non è quello di depotenziare la tutela del lavoratore, ma di restituire equilibrio alla relazione di lavoro, riconoscendo che anche l’impresa è un soggetto da tutelare. L’eccessiva ingerenza giudiziaria, basata su griglie interpretative sempre più variabili, finisce col minare la fiducia dell’imprenditore nel sistema e scoraggia l’assunzione a tempo indeterminato.
Solo un sistema certo, oggettivo e trasparente può garantire la libertà di impresa e al tempo stesso la dignità del lavoratore, evitando abusi da entrambe le parti. È questo il presupposto necessario per un diritto del lavoro moderno, funzionale e coerente con le sfide di un mercato in continua evoluzione.
Conclusioni
Alla luce di quanto sopra esposto, appare indispensabile che il legislatore intervenga con una riforma organica e coraggiosa, capace di introdurre strumenti di valutazione predeterminati e oggettivi, che tutelino sia la libertà di impresa sia la dignità del lavoratore. Solo così sarà possibile superare l’attuale instabilità giurisprudenziale e restituire all’imprenditore la certezza del diritto, condizione imprescindibile per promuovere occupazione stabile, responsabilità gestionale e attrattività del sistema produttivo italiano. Una revisione in tal senso, se ispirata ai principi di proporzionalità, trasparenza e bilanciamento costituzionale, potrebbe rappresentare un modello replicabile anche in sede europea, a garanzia di una maggiore armonizzazione normativa e di una concorrenza leale tra Stati membri.