testo integrale con note e bibliografia
Il progetto di riforma del Gruppo Freccia Rossa si pone l'obiettivo dichiarato di elaborare una regolazione unitaria ed organica della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi.
L'obiettivo è assolutamente condivisibile, perché la stratificazione alluvionale delle norme succedutesi - dalla legge n. 92/2012 in poi - ha indubbiamente generato incertezze applicative che permangono tuttora, nonostante la Cassazione abbia in questi anni esercitato in maniera penetrante la propria funzione nomofilattica.
Altrettanto condivisibile è l'intento di superare la differenza di discipline oggi applicabili in relazione al mero dato temporale del momento di costituzione del rapporto di lavoro. La questione era già stata posta all'attenzione della Corte Costituzionale dal Tribunale di Roma all'indomani dell'approvazione del decreto legislativo 23/2015, ma la sentenza n. 194/2018 della Consulta aveva ritenuto infondato questo profilo di costituzionalità dell'art 3, comma I, limitandosi a censurare la meccanica applicazione dell'anzianità di servizio nella quantificazione dell'indennità (due mensilità per anno di servizio). L'evidente irrazionalità di questa differenziazione del regime di tutele a seconda che il rapporto sia iniziato prima o dopo la fatidica data del 7 marzo 2015 è pertanto rimasta, e andrebbe indubbiamente rimossa.
Ciò premesso, si può iniziare questa sintetica disamina con una considerazione di carattere generale.
Il progetto, a mio avviso opportunamente, non contempla il rapporto di lavoro dei dirigenti.
Ho invece più di qualche dubbio sul fatto che si sia a priori rinunciato, nonostante qualche opinione contraria, ad unificare la disciplina sanzionatoria del settore privato con quella attualmente vigente per l'impiego pubblico privatizzato.
Quale soluzione più razionale e soprattutto più lineare e sintetica potrebbe infatti essere adottata se non quella di estendere al settore privato l'art. 21 del decreto legislativo 75/2017 (cosiddetto “decreto Madia”)?
Come si ricorderà, dopo l'introduzione dello sciagurato decreto legislativo denominato “contratto a tutele crescenti”, normativa composta di soli dodici articoli e che però ha subito ben sei declaratorie di illegittimità costituzionale, ci si chiese se l'art. 18 Stat. Lav. fosse ancora applicabile al settore pubblico privatizzato. Per dirimere la questione, la stessa maggioranza di Governo che aveva varato il Jobs Act, ha quindi introdotto una norma di una disarmante semplicità: “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.”
Se si vuole veramente semplificare e razionalizzare il sistema, e soprattutto unificare il mondo del lavoro, perché non ci si limita ad estendere al settore privato, almeno per i licenziamenti individuali nelle imprese maggiori; questa disposizione? Norma che, si badi bene, non è una riesumazione dell'art. 18, ma che comunque ha il pregio di rimettere la reintegrazione al centro del sistema, nella direzione peraltro in cui è andata, in maniera inevitabilmente oscillante e frammentaria, la giurisprudenza di legittimità in questo ultimo decennio.
Se è una norma che ha funzionato egregiamente nel settore pubblico, qual è la ragione che osta ad una sua estensione nel settore privato? Se ne è discusso tra gli autorevoli accademici portatori di una proposta, come quella del Gruppo freccia Rossa, che nonostante la apprezzabile fattura tecnica, mantiene comunque in vita un sistema in cui lo “spacchettamento” delle tutele permane, anche se si tenta di renderlo meno farraginoso ed incerto?
Ciò premesso in via generale, si può passare all'esame della proposta, mettendo in evidenza quelli che sono, almeno ad avviso di chi scrive, i punti di maggior criticità, ed omettendo, per ovvie ragioni di spazio, un'analisi dettagliata del testo, ed in particolare la parti condivise.
In materia di licenziamenti disciplinari appare francamente poco rispettosa dei più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità il ritorno alla nozione di “infrazioni specificamente tipizzate nel codice disciplinare applicato con espressa previsione di sanzione conservativa” (art. 3, comma 1, lett. a). Solo in tali ipotesi (ovviamente oltre a quelle dell'insussistenza ovvero dell'irrilevanza disciplinare delle condotte contestate) competerebbe la reintegra, ma ciò come detto costituisce, dal punto di vista di un avvocato pro labor, un arretramento rispetto allo stato attuale degli equilibri cui si è giunti in sede giudiziaria.
Nella stessa ottica, è parimenti criticabile la scelta di garantire la reintegrazione nei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo soltanto qualora non sussista la modifica organizzativa su cui di fonda il recesso ovvero il nesso di causalità con la posizione del lavoratore (art. 3, comma 1, lett. b). Anche qui, garantendo la tutela solo indennitaria nel caso di violazione del repechage, si assisterebbe ad un forte arretramento rispetto al diritto vivente, arretramento particolarmente grave perché, come ben sanno tutti gli operatori pratici, la grandissima parte del contenzioso si gioca per l'appunto sulla sussistenza o meno di tale terzo requisito.
Non si comprende inoltre quale sia la ragione per cui, nei licenziamenti collettivi, si riservi la tutela meramente indennitaria nel caso di violazione dei criteri di scelta (at. 7, comma 4). Anche qui, l'arretramento appare di nuovo grave, perché gran parte delle cause di impugnazione dei licenziamenti collettivi verte appunto sul rispetto o meno dei criteri di scelta e spesso la violazione di questi è lo strumento attraverso il quale il datore di lavoro si libera di dipendenti sgraditi. Avere privilegiato la tutela indennitaria, come nell'area di applicazione dei contratti a tutele crescenti, e non quella reale, come nell'area di applicazione dell'art. 18, significa avere optato per una soluzione unificatrice, ma diretta verso il basso e non verso l'alto.
Da ultimo, sulle piccole imprese (art. 6), si rileva come la proposta - deliberatamente in contrasto con la sentenza “monito” della Consulta n. 183/2022 - ometta di introdurre criteri alternativi o aggiuntivi rispetto a quello del numero dei dipendenti, non solo per individuare il campo di applicazione della norma, ma anche per la graduazione dell'indennità. Essendo però nel frattempo intervenuta la decisione della Corte Costituzionale n. 118/2025, con la quale l'art. 9, comma 1, del decreto legislativo 23/2015 viene dichiarato incostituzionale, risulta evidente che l'intero art. 6 della proposta Freccia Rossa andrà ripensato, e dovrà necessariamente considerare anche “altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari elementi integrativi dalla legislazione europea e anche nazionale”, così come sancito dalla Consulta.