testo integrale con note e bibliografia

Premesso che sono intervenuto al convegno di Bologna del 21 febbraio 2025 esprimendo in quella sede le mie critiche, anche in considerazione di alcune modifiche nel frattempo intervenute provo a richiamare quelli che considero ancora punti critici e quindi da me non condivisi.
Confermo di apprezzare l’esigenza di superare l’irragionevole dicotomia di trattamento tra assunti prima e dopo una certa data (7 marzo 2015) con un disegno organico che prenda “il meglio” degli interventi legislativi in materia del 2012 e 2015. Ma confermo anche che, sempre a mio avviso, il risultato è che - tranne poche eccezioni - da una parte vengono proposte immotivate regressioni delle tutele e dall’altra si è persa l’occasione per una vera svolta riformatrice.

Mi soffermerò solo su alcuni punti.
Art. 2 (licenziamento nullo). Rispetto alla analitica regolamentazione dei casi di nullità di cui all’art. 2 della Proposta di riforma, sostanzialmente recettiva dell’art. 2 del d.lgs. (ovviamente all’esito della sentenza n. 22 del 2024 della Corte costituzionale, che ha eliminato l’avverbio “espressamente”), avevo osservato come per la stessa Consulta tale disposizione comporta un ampliamento delle tutele rispetto all’art. 18 (v. sentenza n. 183 del 2025, ammissiva del referendum sull’abrogazione dell’intero decreto legislativo), apprezzando come, nel testo da me esaminato, venisse risolta la contraddizione data da nullità sanzionate con la sola reintegrazione “debole” del quarto comma dell’art. 18 in caso di violazione dell’art. 2110 secondo comma c.c. e/o degli artt. 4 comma 4 e art. 10, comma 3 della legge n. 68 del 1999.
Temo che le mie osservazioni siano state prese in esame… a danno dei lavoratori, perché l’ipotesi di licenziamento in violazione dell’art. 2110 secondo comma c.c. è stato spostato dall’art. 2 (lett. d della vecchia versione) all’art. 3 (licenziamento ingiustificato) nella lettera c) nonostante che le S.U. della Corte di cassazione lo abbiano considerato nullo (salvo poi – come detto – ritenerlo sanzionabile col 4° comma dell’art. 18). Riterrei più corretto ritornare alla precedente formulazione o, quantomeno, eliminare la lettera c) dell’art. 3 facendo così rientrare, implicitamente, la fattispecie nella lettera e) dell’art. 2.
Non condivido che, nella della definizione del licenziamento ritorsivo da parte dell’art. 2 lett. c) si faccia esclusivo riferimento alle ipotesi previste dalla normativa citata: ritengo che la rivendicazione di un diritto, formulata anche in via stragiudiziale, possa essere ritenuta tale anche al di fuori della segnalazione di irregolarità all’autorità giudiziaria o contabile, della pubblica divulgazione di informazioni (artt. 17 e 19 del d.lgs. n. 24/2023) o a quella di un ricorso all'autorità giudiziaria competente (art. 14, comma 3 del d.lgs. n. 104/2022). Sarebbe a mio avviso preferibile una formulazione generica tipo “ingiusta ed arbitraria reazione del datore di lavoro al legittimo esercizio di un diritto”.

Art. 3.
3 a) Licenziamento disciplinare
Tra gli arretramenti - rispetto alla sanzione della reintegra o meno - trovo incomprensibile, per il licenziamento disciplinare, il ritorno al concetto di “infrazioni specificatamente tipizzate nel codice disciplinare con espressa previsione di sanzione conservativa”.
Nel triennio in cui si è consolidato questo orientamento presso la Corte di cassazione a partire da Cass. n. 12365 del 2019, la migliore dottrina ha provato in tutti i modi a contrastarlo, e da parte della stessa Corte, che, dopo l’ordinanza interlocutoria n. 14777/2021, si è consolidato un diverso orientamento con numerosissime decisioni della Corte, a partire da Cass. n. 1166511/2022. E mi risulta che quell’approdo sia il risultato di un faticoso confronto tra tutti i giudici del Supremo Collegio, tanto da poter parlare di diritto vivente.
Ritengo davvero incomprensibile e irragionevole sacrificarlo sull’altare della “semplificazione e prevedibilità”, estendendo l’interpretazione nuovamente restrittiva anche a coloro per i quali oggi trova pacifica applicazione la reintegrazione ex art. 18 comma 4 (implicitamente confermata da Corte costituzionale n. 129 del 2024).
3 b) Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Non condivido la scelta di limitare la sanzione della reintegra alle sole ipotesi di “insussistenza della modifica organizzativa … o del nesso di causalità” escludendo quindi la “violazione dell’obbligo di ricollocazione” (art. 4) : per la stessa sentenza della Corte costituzionale n. 128 del 2024 la reintegrazione è dovuta, nell’ambito di applicabilità dell’art. 18, laddove il lavoratore sia utilmente ricollocabile in azienda in altra posizione lavorativa, per una “consolidata (e già richiamata) giurisprudenza di legittimità, che sul punto costituisce diritto vivente”
La Corte ha escluso il repechage (solo) “dall’area della tutela reintegratoria attenuata del comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015”
Non capisco perché mai si dovrebbe annullare con un colpo di spugna il sofferto percorso interpretativo del supremo collegio, abbassando l’asticella della tutela dei lavoratori e delle lavoratrici ai quali sarebbe applicabile l'articolo 18 sul livello più basso riconosciuto dalla sentenza 193 del 1024 agli assunti dopo il 7 marzo 2015.

Art. 7. Licenziamenti collettivi.
Vedo che l’art. 7 della Proposta di riforma ridisegna la procedura della legge 223, prevedendo, tra le altre cose:
a) che l’obbligo di comunicazione debba contenere l’indicazione “… del numero, della collocazione aziendale, delle mansioni e dell’inquadramento del personale eccedente, nonché del personale abitualmente impiegato” anziché “dei profili professionali”;
Il comma 1ter, che dovrebbe sostituire l’art. 5 della legge 223, prevede espressamente che “In mancanza di accordo sindacale sui criteri di scelta, l’individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire con riferimento alle mansioni ed ai livelli di inquadramento indicati dal datore di lavoro in eccedenza nella comunicazione di apertura della procedura, o che risultino in eccedenza all’esito della procedura. “
Confermo di ritenere ambigua quest’ultima precisazione, che potrebbe far ritenere il datore di lavoro non più vincolato ai profili professionali (anzi alle mansioni e inquadramento) dichiarati eccedenti in apertura di procedura, venendo autorizzato a “cambiare le carte” in corso di procedura.
Su tutte le questioni relative ai licenziamenti collettivi aderisco ai rilievi (vanamente) mossi da alcuni componenti, in particolare sul tema della “acausalità”, condividendo in particolare la proposta di Perulli. In ogni caso mi sfugge la ragione per cui, nel voler risolvere l’assurda discriminazione tra assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 con riferimento alle conseguenze della violazione dei criteri di scelta si sia voluta scegliere la soluzione meno garantista, e cioè quella indennitaria anziché quella reintegratoria, non apparendomi convincente la risposta che solo la seconda soluzione garantirebbe gli “obiettivi di semplificazione e prevedibilità”.

OCCASIONI PERDUTE

A) Art. 6. Piccole imprese.
La prima occasione perduta è quella di ridisegnare il perimetro delle cd. “piccole imprese” specie a fronte della precisazione, da parte della sentenza della Corte costituzionale n. 183 del 2022, che «il numero dei dipendenti (…) non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro…», e delle prescrizioni della sentenza n. 118 del 2025 secondo cui “il criterio del numero dei dipendenti non può costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari elementi integrativi dalla legislazione europea e anche nazionale”
In ogni caso la soluzione proposta non è compatibile con la citata sentenza, nel momento in cui prevede, come regola, un “tetto” inferiore (12 mensilità) a quello (18 mensilità) previsto dalla ultima decisione dei giudici delle leggi.

B) Si persa l’occasione – come invano sollecitato da alcuni – di eliminare l’esclusione di applicabilità al diritto del lavoro dell’art. 614bis cpc (astreinte) e di intervenire su un altro tema di ingiustificata applicazione della legge da parte dell’INPS, di stretta attualità

C) Sarebbe infine opportuno porre fine ad un’altra ingiustizia. L’ art. 3 d.lgs. 4.3.2015 n. 22, che riconosce la NASpI “ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione” la estende “anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dall'articolo 1, comma 40, della legge n. 92 del 2012.”
L’INPS a sua volta ha esteso, con diversi Messaggi, a tale ipotesi di risoluzione consensuale, anche quella che dovesse intervenire in caso di trasferimento ad altra sede della stessa azienda distante oltre 50 chilometri dalla residenza del lavoratore e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o oltre con i mezzi di trasporto pubblico, ma l’ha espressamente esclusa, del tutto irragionevolmente, in caso di dimissioni per giusta causa fondate sullo stesso presupposto, salvo che il lavoratore non chieda ed ottenga in giudizio la dichiarazione di illegittimità del trasferimento. Un simile onere in capo al lavoratore non trova alcuna giustificazione logica, e potrebbe/dovrebbe essere rimosso, ad esempio con una legge di interpretazione autentica.

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