testo integrale con note e bibliografia

ART. 2 –
La prassi applicativa del sistema vigente delle tutele lascia, con estrema frequenza, prive di adeguata risposta sanzionatoria fattispecie in cui, malgrado il lavoratore sia riuscito (faticosamente) a dimostrare come il recesso fosse pretestuoso o fosse scaturito da intenti ritorsivi, non sia possibile tuttavia dichiarare la nullità del licenziamento, per difetto dell’unicità del motivo illecito. In tale assetto, la prevedibilità della risposta sanzionatoria assume un ruolo tiranno e svilisce le possibilità di tutela del lavoratore, proprio con riguardo ai casi degni di maggiore attenzione. Si potrebbe perciò affiancare, alla tutela reintegratoria forte per “il licenziamento per motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 c.c.”, una tutela reintegratoria debole per il caso in cui, oltre al motivo illecito, ricorra una delle ipotesi di illegittimità previste dall’art. 4, comma 1, della Proposta. Tra l’altro, lasciando immutato l’attuale testo della Proposta, il vaglio di proporzionalità del recesso datoriale ai fini della individuazione del regime sanzionatorio applicabile sarebbe ugualmente frutto dell’interpretazione delle disposizioni di riforma (si vedano, a tale proposito, i principi di diritto sanciti da Cass. n. 741/2024 a proposito della L. n. 92/2012).
Si potrebbe allora aggiungere all’attuale elencazione dell’art. 3, comma 1, della Proposta la seguente lettera
“f) sia accertato un motivo illecito e contemporaneamente il licenziamento sia affetto da uno dei vizi di cui all’art. 4, comma 1”.
ART. 3, comma 1 –
Tra le ipotesi che danno accesso alla tutela reintegratoria di cui all’art. 3 della Proposta, v’è quella della mancanza della “motivazione del licenziamento ai sensi dell’articolo 2, comma 2 della legge n. 604/1966”, cui si affianca la radicale omissione della “procedura di cui all’art. 7, l. n. 300/1970”.
Ritengo tuttavia utile, nella prospettiva della tutela reintegratoria del predetto art. 3, aggiungere espressamente il riferimento ai casi della genericità della motivazione (per quanto concerne il licenziamento per giustificato motivo oggettivo) e della genericità della contestazione disciplinare (per quanto concerne il licenziamento per giusta causa ed il licenziamento per giustificato motivo soggettivo).
Tale soluzione mi pare percorribile, innanzitutto sul rilievo che la motivazione condiziona le scelte del lavoratore circa l’opportunità di impugnare il licenziamento entro i termini di decadenza. Accanto a tale osservazione, v’è il rilievo che l’accertamento giudiziale della sussistenza, rispettivamente, della condotta o della sua natura disciplinare nonché della modifica organizzativa o del nesso di causalità, presuppone inevitabilmente che tali profili siano stati sufficientemente resi noti nell’ambito della contestazione e della motivazione. Diversamente, non potendosene verificare la sussistenza, la tutela non potrebbe che essere esclusivamente quella reintegratoria (ai sensi dell’art. 3 della Proposta di Riforma), garantendo la riduzione dei margini di incertezza applicativa e la modularità della risposta sanzionatoria.
In definitiva, si potrebbe sostituire la dicitura attuale
con la dicitura “e) manchi o sia generica la motivazione del licenziamento ai sensi dell’articolo 2, comma 2 della legge n. 604/1966, sia del tutto omessa la procedura di cui all’art. 7, l. n. 300/1970 o sia generica la contestazione disciplinare;”.
Naturalmente, ciò comporta che, dal novero delle fattispecie di tutela indennitaria (art. 5 della Proposta) per licenziamento affetto da vizi formali o procedurali, sia espunto il caso di recesso datoriale intimato “con violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
Quanto, poi, all’aliunde percipiendum, la Proposta fa riferimento a quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 181/2001. La disposizione potrebbe essere aggiornata alla sopravvenuta disciplina ex art. 21, comma 7, lett. d), D.Lgs. 150/2015 ed ai criteri di congruità dell’offerta di lavoro stabiliti dal Ministero del Lavoro.
ART. 3, comma 3 –
A proposito di siffatta disposizione suggerisco di tenere conto della (sopravvenuta) sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 23476/2025), in base alla quale la restituzione delle prestazioni previdenziali di disoccupazione presuppone, a fronte della sentenza che dispone la reintegrazione, il ripristino de facto del rapporto di lavoro. A ben vedere, la Proposta di Riforma già pare essere coerente con la soluzione indicata dalle Sezioni Unite, nella misura in cui la prima limita l’obbligo restitutorio all’importo (del trattamento di disoccupazione) che risulti superiore alla retribuzione “effettivamente persa”.
Per sgombrare il campo da ogni dubbio residuo, si potrebbe sostituire la dicitura attuale
con la dicitura “A seguito del passaggio in giudicato della sentenza che dispone la reintegrazione il lavoratore è tenuto alla restituzione del trattamento di disoccupazione che abbia ricevuto per effetto del licenziamento dichiarato illegittimo, nel limite dell’importo che risulti superiore alla retribuzione effettivamente persa nel periodo dal licenziamento alla concreta esecuzione della sentenza di reintegrazione, sottratto quanto percepito a titolo di indennità risarcitoria”.
ART. 3, comma 4 –
Il presupposto della possibilità per il giudice di elevare la misura dell’indennità risarcitoria (fino al limite massimo di 24 mensilità), costituito dalla considerevole durata del processo, rischia di risultare indeterminato, dando luogo ad applicazioni giudiziali troppo eterogenee.
Nella prospettiva di maggiore certezza, potrebbero perciò essere richiamati i parametri previsti dalla L. n. 89/2001 (equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo).
Si potrebbe sostituire la dicitura attuale
con la dicitura “In ogni stato e grado del giudizio il giudice, quando in ragione della considerevole durata del processo ritenga insufficiente il limite di cui al comma secondo, può elevare la misura dell’indennità risarcitoria fino al limite massimo di 24 mensilità tenendo altresì conto del comportamento processuale delle parti, dell’impegno del lavoratore nella ricerca di una nuova occupazione, della misura del trattamento di disoccupazione percepito. Può giudicarsi considerevole solo la durata del processo eccedente quella prevista dall’art. 2, comma 2-bis, primo periodo, L. n. 89/2001”.
Art. 6 –
A proposito del regime di tutela previsto in relazione ai licenziamenti illegittimi irrogati dalle piccole imprese, v’è da osservare come la soluzione prescelta sia in linea con la pronuncia resa da Corte Cost. 118/2025 (sopravvenuta alla Proposta di Riforma), poiché l’intervallo tra tre e dodici mensilità dell’ultima retribuzione di cui all’art. 2121 c.c. si manifesta idoneo a garantire un congruo ristoro ed anche la personalizzazione della risposta sanzionatoria.

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