testo integrale con note e bibliografia
Come si legge nella relazione illustrativa, la proposta di riforma formulata dal Gruppo Freccia Rossa si pone, tra l'altro, l'obiettivo di «ridare certezza e coerenza sistematica a una materia oggi segnata da una profonda frammentazione normativa, risultato di stratificazioni legislative e interventi giurisprudenziali spesso eterogenei»; uno dei capisaldi della proposta, pertanto, è proprio la «riduzione dei margini di incertezza applicativa».
Tale obiettivo richiede che il testo normativo, oltre a recuperare la necessaria coerenza sistematica, sia chiaro, preciso e univoco nella sua formulazione, onde ridurre il più possibile i margini di discrezionalità dell’interprete in fase applicativa. Lo scopo di queste brevi note è proprio quello di verificare se la proposta di riforma, così come formulata, risponda effettivamente all'esigenza di “certezza del diritto” propugnata dai suoi autori; in questa sede, pertanto, non si valuterà se le norme contenute nella proposta siano condivisibili nel merito ma se siano chiare.
Diciamo subito che, in effetti, la proposta ridisegna in modo organico e coerente - anche alla luce dei principi enunciati dalla Corte costituzionale - la tutela del lavoratore, superando l’attuale differenziazione fondata sulla data di assunzione e definendo meglio il campo di applicazione dei diversi regimi sanzionatori, sulla scorta di un principio di proporzionalità del rimedio alla gravità del vizio del licenziamento.
Poiché, però, il diavolo sta nei dettagli, esaminiamo l'articolato della proposta per verificare, senza alcuna pretesa di completezza, se vi siano residui margini di incertezza.
Art.2, comma 1, lett. b): tra le ipotesi di nullità sanzionate con la reintegrazione compare quella del licenziamento intimato oralmente in violazione dell'art. 2 della legge n. 604/1966. In realtà, ai sensi di tale disposizione il licenziamento orale è inefficace (non nullo); la disciplina vigente (art. 18, comma 1, Stat. Lav. e art.2, comma 1, d. lgs. n. 23/2015) estende espressamente al licenziamento inefficace, perché intimato oralmente, la tutela (reintegrazione) prevista per il licenziamento nullo. Fermo restando che, dal punto di vista pratico, non cambia nulla (la tutela applicabile è sempre la stessa), la formulazione delle disposizioni vigenti appare preferibile a quella della proposta, perché più precisa dal punto di vista tecnico.
Art.3, comma 1, lett. a): ai sensi dell’art. 18, comma 4, Stat. Lav., si applica la c.d. “tutela reintegratoria attenuata” se il fatto contestato rientra tra le condotte punite con sanzione conservativa in base alle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili; quanto al d.lgs. n. 23/2015, secondo la Consulta (cfr. sentenza n. 129/2024) l'art. 3, comma 2, per essere conforme a Costituzione, va interpretato nel senso che, se il licenziamento è irrogato per un fatto specificamente individuato dalla contrattazione collettiva come meritevole di sanzione conservativa, si applica la tutela reale attenuata. La proposta in esame prevede tale rimedio ove il fatto contestato sia riconducibile a infrazioni specificamente tipizzate nel codice disciplinare applicato con espressa previsione di sanzione conservativa. Mentre è condivisibile – in linea con la Consulta - la previsione della necessità di una specifica tipizzazione delle infrazioni punibili con sanzione conservativa, che risolve una questione che ha dato luogo a contrastanti decisioni, lascia invece perplessi il mancato riferimento alla contrattazione collettiva, presente sia nell’art. 18 Stat. Lav. che nella citata sentenza della Corte Cost., perché ciò potrebbe generare incertezze interpretative (seppur discutibili), atteso che contratto collettivo e codice disciplinare sono cose diverse, sebbene nella pratica quest’ultimo riproduca, in genere, le disposizioni del primo in materia di sanzioni disciplinari.
Art. 4, comma 1: la disposizione (unitamente agli artt. 2 e 3) limita – rispetto alle originarie previsioni del Jobs Act – il campo di applicazione della tutela indennitaria, prendendo atto – così si legge nella relazione illustrativa - «del mutamento di asse a favore della reintegrazione come regola generale posto in essere dalla Corte costituzionale superando il diverso equilibrio voluto con il contratto a tutele crescenti» (si osserva, per inciso, che tale rilievo mette in discussione le ragioni per cui la giurisprudenza più recente esclude il decorso della prescrizione in costanza di rapporto). La norma contiene un elenco - esemplificativo e non tassativo- dei casi in cui si applica la tutela indennitaria, che include il mancato rispetto del principio di immediatezza della contestazione disciplinare, mentre nulla si dice per l'ipotesi di sua genericità; il silenzio sul punto può comportare incertezze interpretative, atteso che tale vizio potrebbe rientrare nella tutela ex art.4, stante il carattere residuale di quest'ultima, ma potrebbe pure essere ricondotto tra i vizi procedurali per cui l'art. 5 prevede la tutela indennitaria attenuata, oppure assimilato all'ipotesi di insussistenza della condotta contestata, ai sensi dell'art. 3 (entrambe le opzioni interpretative sono state già sostenute dalla giurisprudenza con riferimento alla normativa vigente, per cui un chiarimento sarebbe stato opportuno).
Art. 5: il comma 1 dispone la tutela indennitaria debole per l'ipotesi in cui il licenziamento «sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'art.2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n.604»; ciò pare contrastare con quanto previsto dall'art. 3, comma 1, lett. e), ai sensi del quale si applica la reintegrazione qualora «manchi la motivazione del licenziamento ai sensi dell'art. 2, comma 2, della legge n. 604/1966». È davvero difficile comprendere quale sia la differenza tra le due fattispecie, sanzionate in modo così diverso. Forse l'art.3 si riferisce al caso di totale mancanza della motivazione e l'art. 5 all'ipotesi di motivazione non specifica (ma, allora, perché non si è espressamente ricondotto all’art. 5 anche il caso – del tutto analogo nella sostanza – di genericità della contestazione?): se davvero è questo il senso della proposta, però, sarebbe opportuno essere più chiari, per evitare incertezze interpretative.
Il comma 2, poi, è una ripetizione, francamente superflua, dell’art. 3, comma 1, lett. e).
Art.6: sono condivisibili le ragioni, esposte nella relazione illustrativa, per cui si è ritenuto – proprio per evitare situazioni di incertezza - di non introdurre criteri alternativi o aggiuntivi a quello del numero dei dipendenti per la identificazione delle “imprese minori”. La norma raddoppia l'importo massimo dell'indennità previsto dal Jobs Act (6 mensilità); tale previsione pare legittima anche alla luce di quanto in seguito statuito da Corte cost. n. 118/2025, che ha dichiarato illegittimo l'art.9, comma 1, del d. lgs. n. 23/2015 limitatamente alle parole “e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”. Infatti, la Corte, pur sottolineando la necessità di una personalizzazione del risarcimento, non ha escluso che possa essere previsto un limite massimo dell'indennità, ma ha affermato che il tetto previsto dall’art.9 comprime in modo eccessivo la tutela del lavoratore, pure in caso di licenziamenti viziati da gravi forme di illegittimità; il raddoppio del tetto consente una liquidazione più adeguata dell’indennità, il cui ammontare va individuato tenendo conto anche dell’anzianità del lavoratore, del comportamento delle parti e delle loro condizioni (ivi incluso l’andamento economico del datore di lavoro).
Art.7: i primi tre commi riguardano la disciplina sostanziale dei licenziamenti collettivi, che non è oggetto di questo scritto; sia solo consentito dire – per restare in tema di certezza del diritto – che si condivide l’abrogazione della legge 234/2021 sulle c.d. “delocalizzazioni” (termine, in realtà, assolutamente improprio), perché – come rilevato nella relazione illustrativa – la disciplina ivi dettata determina eccessive incertezze interpretative. Il regime sanzionatorio del licenziamento collettivo illegittimo (comma 4) ricalca quello attualmente stabilito dall’art. 10 del d.lgs. n. 23/2015, che prevede la tutela indennitaria non solo per la violazione delle procedure ma anche per quella dei criteri di scelta; si segnala solo un refuso nel richiamo al codice della crisi e dell’insolvenza, che è contenuto nel d.lgs. n. 14 (e non 12) del 2019.
Art. 8: nel ricalcare pedissequamente il regime della revoca del recesso di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 23/2015, la norma ha conservato il riferimento ivi contenuto al “presente decreto”; pare trattarsi di una svista, perché negli artt. 1, 2 e 11 il provvedimento attuativo della riforma viene – condivisibilmente – qualificato come “legge”.