testo integrale con note e bibliografia
L’analisi del progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti elaborato dal gruppo Freccia Rossa non può non partire da una considerazione preliminare di fondo. Il tentativo operato, prima con la riforma Fornero e poi con il c.d. Jobs Act, di marginalizzare l’istituto della reintegrazione in nome di un diritto del lavoro più moderno (spesso capita, tuttavia, che alcune riforme si traducono in una regressione nella tutela dei diritti dei cittadini) e della esigenza di una lettura economicistica delle posizioni giuridiche in campo è venuto meno non per il sopravvenire di una distinta e legittima opzione politica e legislativa, ma perché non ha superato il vaglio di specifiche disposizioni della Carta costituzionale, così come è stato sancito da numerose sentenze della Corte Costituzionale.
E ciò è accaduto nella consapevolezza generale degli operatori giudiziali che la reintegrazione non ha, nelle aule di giustizia, alcuna attrazione nei confronti dei lavoratori, i quali accettano molto spesso, con le conciliazioni giudiziali, soluzioni meramente economiche e, quando ottengono per via giudiziale la reintegrazione, formalizzano quasi sempre la opzione sostitutiva pari a 15 mensilità di retribuzione. La tesi di fondo della dottrina riformatrice degli ultimi anni è stata sempre quella secondo cui una disciplina che limita fortemente la discrezionalità delle decisioni dei magistrati del lavoro e che riduce gli importi spettanti ai lavoratori vittoriosi in giudizio rappresenta senza alcun dubbio uno stimolo per l’economia, dal momento che conferisce più certezza alle imprese e, soprattutto, elimina e riduce enormemente il rischio per le aziende di affrontare dei costi enormi imprevedibili.
Non avendo questo scritto il compito di analizzare gli effetti poco lusinghieri dei risvolti economici di queste riforme, nella elaborazione di un nuovo testo complessivo non è possibile non partire dal capovolgimento di prospettiva attuato dalle numerose sentenze della Corte costituzionale che hanno fortemente ridimensionato i rimedi indennitari.
A tal proposito occorre ricordare che la proposta di riforma del Gruppo freccia Rossa non tocca affatto la disciplina del pubblico impiego, ove la reintegrazione rappresenta la tutela ordinaria nelle ipotesi di illegittimità del licenziamento. Poiché appare auspicabile, in un’ottica di riavvicinamento dei due regimi, assicurare ai dipendenti pubblici e privati un sistema di tutele quanto più possibile omogeneo, il rimedio della reintegrazione nel lavoro privato non può non rappresentare il sistema di tutela fondamentale. E questo non in nome di una opzione ideologica, ma perché reintegrazione in concreto significa assicurare al lavoratore ingiustamente licenziato, per le motivazioni già esplicitate, un indennizzo più corposo rispetto alle previsioni delle discipline attualmente applicabili.
Nel volgere lo sguardo alla disciplina attualmente vigente non si può non evidenziare il dato che sussistono ancora differenze di trattamento a seconda che si applichi l’art. 18, così come modificato dalla riforma Fornero, oppure il D.Lgs. n. 23 del 2015.
Infatti, il decreto n. 23 del 2015, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 129 del 2024), prevede la reintegrazione nella ipotesi in cui il fatto contestato sia insussistente o il contratto collettivo preveda per quella specifica condotta, in modo espresso, una sanzione diversa dal licenziamento, come il rimprovero scritto, la multa o la sospensione dal lavoro: ciò significa che per un inadempimento lieve, non specificatamente contemplato dal contratto collettivo tra le sanzioni conservative (e ciò accade frequentemente, in quanto le clausole dei contratti collettivi sono spesso generiche), il licenziamento, pur essendo illegittimo, può non comportare la reintegrazione ma un semplice indennizzo.
Ad esempio il lavoratore, assunto dopo il 7 marzo 2015 e licenziato per un ritardo anche minimo nell’inizio della attività lavorativa, se il ritardo non è contemplato in modo espresso dal contratto collettivo applicato come ipotesi di illecito disciplinare cui applicare una sanzione conservativa come la multa o la sospensione dal lavoro, può ottenere giudizialmente un semplice indennizzo, mentre nella stessa ipotesi il lavoratore, assunto prima del 7 marzo 2015 cui si applica l’art. 18, può ottenere la reintegrazione sul posto di lavoro ed il pagamento delle retribuzioni.
Inoltre con il Jobs Act spetta al lavoratore il semplice indennizzo e non la reintegrazione nella ipotesi di licenziamento per motivi economici o organizzativi, ad esempio per soppressione del posto di lavoro o riorganizzazione della struttura, anche quando viene provato in giudizio che il datore di lavoro avrebbe potuto collocare il dipendente in altro posto disponibile (cd. violazione dell’obbligo di repêchage).
Ugualmente al lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 spetta il solo indennizzo e non la reintegrazione nel caso di un licenziamento collettivo in cui vengono violati i criteri di scelta previsti dalla legge, come l’anzianità di servizio o i carichi di famiglia.
La situazione normativa a seguito delle sentenze della Corte costituzionale è quanto mai frantumata. Appare evidente che un tentativo di ricostruzione organica della disciplina non può prescindere dalla esigenza di privilegiare il canone ermeneutico della semplificazione e della chiarezza: se è vero che appare comunque opportuno salvaguardare la discrezionalità del magistrato, in quanto ogni decisione ha una caratterizzazione necessariamente casistica, è anche vero che la normativa attuale si presta ad un mosaico decisionale, anche nell’ambito di una stessa sezione di tribunale, non facilmente tollerabile. Per tali ragioni la chiarezza nella individuazione degli strumenti di tutela deve rappresentare l’altro obiettivo fondamentale di una prospettiva di riforma.
Ed in questa ottica, in disparte la considerazione che si condivide in toto la prospettiva adottata dal progetto di riforma in materia di licenziamenti nulli, appare opportuno individuare una linea di condotta generale che va ad ancorare il rimedio della reintegrazione attenuata a tutte le ipotesi di vizi correlati alla dimensione fattuale del licenziamento intesa in senso ampio, mentre la tutela indennitaria individuata dal progetto di riforma dovrebbe essere applicata in presenza di quei vizi meramente formali che si sostanziano nella violazione delle procedure e/o nella ipotesi di assenza di quelli che sono gli elementi esterni alla sfera fattuale della fattispecie del recesso.
Nell’utilizzare questi due parametri (ossia la necessità di salvaguardare il più possibile il canone della chiarezza e di collegare le ipotesi di reintegrazione ai vizi del fatto inteso ovviamente in termini giuridici), unitamente alla ovvia necessità di eliminare il discrimen temporale del 7 marzo 2015, non appare convincente la opzione del gruppo Freccia Rossa, con riferimento al licenziamento disciplinare, di prevedere la reintegrazione nelle sole ipotesi di insussistenza della condotta contestata o della natura disciplinare della stessa o perché il fatto contestato è riconducibile ad infrazioni specificamente tipizzate nel codice disciplinare con espressa previsione di sanzione conservativa.
In disparte la considerazione della arbitrarietà di una differenziazione di tutele in base al tasso di specificità della previsione della clausola del contratto collettivo, occorre partire dal dato inconfutabile che le clausole del contratto differenziano le tutele in base al requisito della proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato. Dunque, non vi è ragione di distinguere le tutele in base alla previsione di clausole contrattuali oppure in base al tasso di specificità delle stesse.
Sul punto appare assolutamente condivisibile la giurisprudenza della Cassazione formatasi sulle previsioni delle legge Fornero secondo cui, in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18, commi 4 e 5, della L. n. 300 del 1970, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l'illecito con sanzione conservativa.
A tale rilievo si aggiunge il dato, più volte sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la tecnica dell'individuazione di fattispecie generali poi specificate in via esemplificativa attraverso l'individuazione di casi esplicativi, o ancora la catalogazione di una serie di condotte tipizzate accompagnata da una previsione più generale e di chiusura, non preclude al giudice di svolgere quell'attività di interpretazione integrativa del precetto normativo, atteso che l'utilizzazione nei contratti collettivi di norme elastiche o di previsioni di chiusura è connessa all'impossibilità pratica di tipizzare tutte le condotte di rilievo disciplinare oltre che all'indeterminatezza degli obblighi che fanno capo al lavoratore.
Per tali ragioni sarebbe auspicabile che la tutela reintegratoria attenuata sia prevista anche nella ipotesi di un comportamento del lavoratore non previsto dall’autonomia collettiva né in base ad una esemplificazione specifica, né riconducibile a una clausola generale o elastica nelle varie formulazioni già analizzate, che sia tuttavia di una gravità pari o inferiore a quelli diversi contemplati dal ccnl .
In tali casi, sono i fondamentali principi di ragionevolezza ed effettività a imporre la previsione della reintegrazione, giacché non è ragionevole ritenere che un fatto non previsto dal contratto collettivo ma di valore analogo rispetto ad altri comportamenti per i quali sono stabilite sanzioni conservative possa essere considerato come tale da giustificare il licenziamento e possa per ciò stesso ricevere una tutela diversa da quella spettante per le ipotesi connotate da analogo rilievo sostanziale nella scala valoriale disciplinare.
Ed invece tutte quelle ipotesi riconducibili a vizi procedurali come la omessa contestazione disciplinare, la genericità e la tardività della contestazione disciplinare, poiché non sono attinenti al profilo della sussistenza del fatto possono essere assistiti dalla sola tutela indennitaria, a condizione, tuttavia, che il licenziamento sia caratterizzato da una motivazione specifica. In questa ottica anche per il licenziamento disciplinare deve assumere importanza la motivazione del licenziamento. Una motivazione assente o generica deve tradursi necessariamente in un fatto illecito insussistente con la conseguenza della applicazione della reintegrazione attenuata.
Appare, dunque, illogico prevedere la reintegrazione nella ipotesi di assenza di contestazione disciplinare e la tutela indennitaria nella ipotesi di contestazione non immediata. Una contestazione disciplinare comunicata al lavoratore dopo molto tempo rispetto alla commissione del fatto perde rilevanza ed è assimilabile concettualmente ad una “non contestazione”. Ed allora sarebbe opportuno che tutte le ipotesi di contestazione omessa, tardiva e generica ricevano una medesima disciplina e siano ricondotte alla tutela indennitaria forte, poiché sono vizi che riguardano la procedura disciplinare e non il fatto illecito del lavoratore che ha indotto il datore di lavoro a comminare il licenziamento.
A tal proposito, non appare convincente la tesi secondo cui la assenza di contestazione è equipollente alla assenza del fatto illecito, in quanto nella dimensione empirica è ben possibile che, a fronte di un licenziamento con una motivazione esplicita (e solo a condizione che ci sia una motivazione specifica del recesso) e con la assenza di una preventiva contestazione disciplinare, il datore di lavoro riesca a fornire la prova dell’inadempimento del lavoratore.
Alla stessa conclusione deve pervenirsi nella ipotesi di violazione, da parte del datore di lavoro, della disciplina a tutela del lavoratore in materia di riservatezza. Sul punto il progetto di riforma non contiene alcun riferimento. Occorrerebbe una adeguata riflessione su questo tema, dal momento che gli strumenti tecnologici hanno raggiunto anche nel mondo del lavoro un livello di pervasività molto alto.
A tal proposito, occorre ricordare il pacifico orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte secondo cui, nel caso in cui il datore di lavoro non riesca a fornire la prova che i dati di matrice tecnologica posti a fondamento della procedura disciplinare siano stati legittimamente acquisiti, la sanzione prevista dall’ordinamento discende dalla previsione generale in materia di protezione della privacy secondo cui i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati.
La radicale inutilizzabilità del materiale probatorio acquisito dal datore di lavoro in violazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori comporta che il fatto contestato sia da considerare insussistente con la conseguente reintegrazione del lavoratore. Tale epilogo processuale potrebbe essere de iure condendo modificato, in quanto appare oltremodo confliggente con un senso di giustizia sostanziale la circostanza che, ad esempio, una condotta di appropriazione indebita sul posto di lavoro da parte di un lavoratore che viene contestata in forza di una videoregistrazione effettuata illegittimamente possa comportare la reintegrazione del lavoratore sullo stesso posto di lavoro. Anche in questa ipotesi si potrebbe introdurre una disposizione normativa che preveda il riconoscimento in favore del lavoratore di una tutela meramente indennitaria, in quanto le esigenze della giustizia sostanziale debbono essere considerate prevalenti rispetto al diritto alla sfera di riservatezza dei lavoratori.
Lo stesso filo conduttore (ampliamento delle ipotesi di reintegrazione e differenziazione in termini di tutela delle sole ipotesi esterne agli elementi oggettivi del fatto costitutivo del licenziamento) deve essere seguito in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Sul punto appare condivisibile la disciplina elaborata dalla proposta del Gruppo Freccia Rossa che prevede la reintegrazione nella ipotesi di insussistenza della modifica organizzativa posta alla base del licenziamento e del nesso di causalità e l’indennizzo nella ipotesi di violazione dell’onere di repêchage.
Secondo una determinata impostazione dottrinale e giurisprudenziale il fatto è insussistente se la modifica organizzativa e la conseguente soppressione del posto di lavoro non sono effettive, se non vi è un nesso causale tra la riorganizzazione e il licenziamento del lavoratore, se non è provata dal datore di lavoro la impossibilità di collocare su altre postazioni il lavoratore licenziando. In questa ottica anche il repêchage assurge ad elemento del “fatto” la cui insussistenza comporta l’obbligo datoriale di reintegrazione.
Alla stregua di tale orientamento, l’unica ipotesi di licenziamento illegittimo per motivi diversi dal fatto insussistente da collocare entro gli altri casi che comportano una reazione puramente indennitaria è la violazione del criterio di buona fede e correttezza nella scelta del lavoratore da licenziare in presenza di una pluralità di lavoratori con mansioni fungibili o omogenee.
Una simile ricostruzione, tuttavia, non convince.
Il mancato repêchage costituisce una ipotesi di assenza del giustificato motivo oggettivo, con conseguente illegittimità del licenziamento, ma non costituisce una ipotesi di “insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento”. Infatti, il riutilizzo del lavoratore in esubero costituisce un posterius rispetto alla modifica organizzativa che comporta la soppressione del posto. Solo successivamente al momento in cui si è manifestata l’esigenza soppressiva (ossia il fatto posto a fondamento del licenziamento) si pone la esigenza di verificare un ulteriore aspetto e cioè se il datore ha o meno la possibilità di un riutilizzo su altra postazione aziendale.
L’omessa riutilizzazione del lavoratore non costituisce affatto una modifica organizzativa bensì soltanto un ulteriore elemento che condiziona la legittimità del licenziamento: si tratterebbe di un altro caso, distinto dal fatto della modifica organizzativa, ma pur sempre in grado di invalidare il licenziamento.
Se si entra in una valutazione comparativa, il primo comportamento datoriale è sicuramente meno grave rispetto al secondo e merita una sanzione meno severa, tenuto altresì conto della difficoltà per il datore di fornire la prova di un fatto in negativo e della impossibilità di ricollocazione nell’ambito di mansioni inferiori e nella intera area aziendale e non soltanto nell’unità produttiva interessata dal licenziamento.
Non appare, invece, condivisibile la inclusione delle violazioni dei criteri di buona fede e correttezza nella scelta dei lavoratori da licenziare nell’alveo esterno del fatto costitutivo, in quanto la buona fede contrattuale genera degli obblighi integrativi in capo alla parte datoriale. In sostanza tali obblighi si porrebbero in termini di integrazione degli oneri di scelta riconducibili alla sfera del nesso di causalità.
Per le stesse ragioni non appare convincente la proposta di introdurre una tutela esclusivamente indennitaria nelle ipotesi di violazione dei criteri di scelta nei licenziamenti collettivi.
Infine, una esortazione: quando ci occupiamo in termini normativi del licenziamento per scarso rendimento del lavoratore?