testo integrale con note e bibliografia

In riferimento all’art. 3 lett. a)
Con la disposizione in oggetto, per l’ipotesi di licenziamento disciplinare “ingiustificato” in quanto relativo a fattispecie che, alla stregua del codice disciplinare, sia passibile di sanzione non espulsiva, è stato scelto di limitare la tutela reale alle sole “infrazioni specificamente tipizzate nel codice disciplinare applicato con espressa previsione di sanzione conservativa”.
Nella relazione illustrativa si legge che tale opzione risponde a finalità di “ossequio ai pronunciamenti della Consulta”, “in ciò prendendo partito, in uno con la Consulta, a favore dell’indirizzo restrittivo della Corte di Cassazione”. Il tutto – è da supporre – in attuazione del “principio ispiratore” costituito dal “rispetto della giurisprudenza costituzionale” e con implicito riferimento a Corte Costituzionale n. 129 del 2024, unica tra le pronunce del Giudice delle Leggi sulla disciplina limitativa del licenziamento ad essersi imbattuta nel tema.
Poiché il contenuto di questa pronuncia della Consulta e il dibattito che ne è conseguito, così come l’orientamento di legittimità cui si riferisce la relazione, sono sicuramente a tutti noti, si omette ogni altra premessa espositiva, anche in ragione delle esigenze di stretta sinteticità del contributo e si passa immediatamente ad indicare le ragioni che inducono a manifestare alcuni motivi di dissenso rispetto alla scelta operata.
Il dubbio rinvio ai “pronunciamenti della Consulta”
In primo luogo, a sommesso parere di chi scrive, la giustificazione della scelta del criterio di “tipizzazione” siccome imposta dai “pronunciamenti della Consulta”, che avrebbe addirittura aderito al risalente orientamento restrittivo della Corte di Cassazione, non appare molto convincente, già solo se si considera che, nella stessa sentenza n. 129/24, la Consulta ha ricondotto “al rango di diritto vivente” (punto 6.2) il contrapposto orientamento del Giudice di legittimità accolto a partire dall’ordinanza interlocutoria della Sesta Sezione n. 14777/21 e dalla successiva pronuncia della Sezione Lavoro n. 11665/22; inoltre, come osservato da un’acuta dottrina (RIVERSO), con la sentenza n. 129/2024, la Corte Costituzionale “non aveva motivo di occuparsi di questa questione perché il caso in concreto rilevante era diverso”, senza considerare la natura interpretativa di rigetto della pronuncia, come tale priva di vincolo per l’interprete in relazione a questioni differenti da quelle oggetto del giudizio di costituzionalità, come la sussumibilità del fatto contestato in una clausola elastica o indeterminata del contratto collettivo, mentre il giudizio “a quo” aveva riguardo solo a condotte tipizzate.
Qualche sospetto di incostituzionalità
Ciò premesso, per fondare le ragioni del dissenso rispetto alla adozione della “tipizzazione” delle infrazioni passibili di sanzione conservativa come criterio discretivo per l’applicazione della tutela reintegratoria o di quella indennitaria, al di là della considerazione del grave arretramento generalizzato delle tutele rispetto al quadro attuale, basterebbe rinviare alle conclusioni con le quali la citata ordinanza interlocutoria della Sesta Sezione della Corte di Cassazione n. 14777/21 ha liquidato, tacciandolo di irragionevolezza, quell’orientamento “restrittivo” che, sino ad allora, aveva adottato, per l’appunto, il criterio della tipizzazione nella applicazione dell’art. 18, comma 4 S.L.
Come si ricorderà, l’ordinanza denunciava “il rischio di una irrazionale disparità di trattamento” operata da una interpretazione della norma che reputasse “legittima una diversità di tutela, rispettivamente reintegratoria e indennitaria, tra comportamenti non gravi, tipizzati dal contratto collettivo e puniti con sanzioni conservative, e fatti di pari o minore rilevanza disciplinare solo perché non espressamente contemplati dalla disciplina contrattuale”, ma riconducibili ad una clausola generale od elastica in essa contenuta; osservava, infine, che un momento di ancor più eclatante emersione dell’irrazionalità di quel criterio era rivelato dalla sua applicazione al codice disciplinare unilaterale, “essendo agevole per il datore di lavoro redigere il regolamento disciplinare senza inserire tipizzazioni di condotte punibili con misure conservative, così da evitare sempre il rischio della tutela reintegratoria”. Va, tra l’altro, ricordato come questa critica al preesistente orientamento della stessa Corte sia stata radicata proprio nell’insegnamento offerto dalla Consulta, laddove, nella sentenza n. 59 del 2021 (punto 10.1), aveva analogamente tacciato di irragionevolezza la “scelta di riconnettere a ‘fattori contingenti’ impropri o privi di attinenza con il disvalore del licenziamento ... il discrimine tra le due forme di tutela applicabile”.
Ad avviso di chi scrive questi sospetti di incostituzionalità non sarebbero di certo fugati sol perché il nuovo dettato normativo abbia esplicitato la adesione al criterio della “tipizzazione”.
Le note obiezioni al criterio di “tipicità qualificata”
Mi limito, infine, a ricordare, in via di assoluta sintesi definitoria, i principali argomenti che hanno indotto anche tutte le pronunce della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione successive alla citata ordinanza interlocutoria della Sesta Sezione (il già citato “diritto vivente”) a ripudiare l’orientamento restrittivo nell’interpretazione dell’art. 18 S.L. Si tratta, infatti, di ragioni che si attagliano perfettamente, ovviamente in una chiave critica, alla nuova ipotesi normativa.
Al fine di ritenere ineludibile la scelta per la “tipizzazione”, non va confusa la “sussunzione del fatto contestato nella disposizione contrattuale” con la valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto all’addebito mosso; anche in presenza di “clausole generali”, la prima attività “non trasmoda nel giudizio di proporzionalità ... ma si arresta alla interpretazione ed applicazione della norma contrattuale”, anche laddove vi riconduca la fattispecie concreta.
In secondo luogo, il principio di tassatività degli illeciti non è di rigorosa applicazione alle sanzioni disciplinari, così come lo è per gli illeciti penali (a sensi dell’art. 25 Cost.) ed a tale prassi regolatoria si uniformano anche le normative disciplinari di fonte collettiva, generalmente sulla base di una fenomenologia priva di omogeneità, che non consente di ritenere l’utilizzo di mere clausole generali un indice significativo e plausibile della volontà delle parti sociali di escludere le condotte ad esse riconducibili dal novero di quelle meritevoli delle sanzioni disciplinari conservative e di “attribuire alla tipizzazione ... il ruolo di discrimine per la selezione, in ipotesi di illegittimità del licenziamento, tra la tutela reintegratoria e quella indennitaria”; di talché, l’invocazione di un siffatto discrimine rischia di “far ricadere sui lavoratori le lacune e la approssimazione della disciplina contrattuale collettiva”.
In ogni caso, il riferimento, anche ai fini dell’applicazione della sanzione per il licenziamento illegittimo, al codice disciplinare, non esclude che si possa demandare alle parti sociali e/o al datore di lavoro la scelta del grado di analiticità mediante cui predeterminare l’applicazione di sanzioni conservative. Con la conseguenza che, ove tale scelta sia nel senso di avvalersi di formule elastiche, non v’è ragione per escludere la tutela reintegratoria nei casi in cui il Giudice possa sussumere il fatto nella relativa disposizione collettiva.
Nè può ritenersi che, in tal caso, sia frustrata l’esigenza di prevedibilità della sanzione reintegratoria. Anche in detta ipotesi, infatti, il presupposto per l’applicazione della tutela ripristinatoria non è rinvenibile nella mera applicazione del principio di proporzionalità, ma trova la sua fonte nella disciplina liberamente dettata dalle parti collettive o dallo stesso datore di lavoro.
Volontà alla quale va, quindi, ascritto l’eventuale minor grado di prevedibilità ex ante della sanzione concretamente irrogabile. In altri termini: se è lo stesso codice disciplinare a rimettere al Giudice un’attività integrativa delle previsioni disciplinari ai fini della valutazione di gravità delle infrazioni agli effetti sanzionatori, perché ciò dovrebbe escludere la applicazione della tutela reintegratoria? La delega al giudice, in questo caso, sarebbe riconducibile alla stessa volontà datoriale (presente ovviamente anche nel caso di codice disciplinare di fonte collettiva).
Ed anzi, “ove si valorizzasse esclusivamente la tipizzazione delle fattispecie a scapito dell’utilizzo delle clausole generali ed elastiche … si finirebbe per andare in contrasto con la stessa volontà delle parti sociali” (Cass.S.L. n. 11665/22).
Nè si pone l’esigenza di un “abuso consapevole del potere disciplinare” da parte del datore di lavoro nell’adottare il licenziamento, al fine di giustificare l’applicazione della sanzione reintegratoria. Peraltro, la teoria della “tipicità qualificata”, sviluppata da qualche Autore all’indomani delle modifiche all’art. 18 ad opera della l. 92/2012, è stata respinta dalla dottrina prevalente, oltre che per il contrasto con la previsione normativa, anche perché fonte di incertezze applicative ancora maggiori di quelle che assume di voler evitare, costringendo il datore di lavoro ad individuare, tra le previsioni del codice disciplinare, “quelle che ‘tipizzano le mancanze in modo tale che la valutazione della gravità delle stesse sia incorporata nelle norme’, il che non sembra davvero un’impresa dall’esito maggiormente scontato” (P.SORDI).

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