Testo integrale con note e bibliografia

Cinquant’anni or sono, il 20 maggio del 1970, veniva approvata dal Parlamento la Legge 300 che varava lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori. Una grande conquista civile e sociale, una pietra miliare nella storia del diritto del lavoro nel nostro paese ma anche un punto di approdo di straordinaria qualità nello scenario giuslavoristico internazionale. La legge attuava finalmente il dettame costituzionale del riconoscimenti pieno della dignità del lavoratore e faceva varcare i cancelli delle aziende alla Costituzione repubblicana.
La proposta di varare una legge che sostenesse i diritti dei lavoratori e l’agibilità delle organiz-zazioni sindacali nelle aziende era stata avanzata da Giuseppe Di Vittorio, il segretario generale della Cgil, sin dal 1952. La proposta in un primo tempo venne da lui illustrata nel corso del congresso nazionale dei chimici, allora diretti dal giovane Luciano Lama, e fu successivamente approvata dal congresso confederale della Cgil che si tenne a Napoli.
Giuseppe Di Vittorio, che aveva proposto il Piano del Lavoro nel precedente congresso della stessa Cgil tenutosi a Genova nel 1949, completava in tal modo il progetto che la confederazione da lui diretta proponeva al paese affrontando il tema del lavoro e della crescita economica congiuntamente a quello dei diritti dei lavoratori.
Di Vittorio aveva ben compreso quale tipo di sviluppo si profilava per l'Italia nella sua rico-struzione post-bellica in un mondo diviso dalla guerra fredda nel quale l'imprenditoria italiana seguitava a puntare su una competitività basata sul taglio dei costi, a partire da quello del la-voro, anzichè sulla innovazione e sulla valorizzazione della funzione del lavoro ricompensandola con alti salari e con un solido sistema di welfare come invece stava avvenendo in Scandinavia, in Germania e nel Regno Unito.
Si gettavano in tal modo in Italia le basi di quello che sarebbe poi divenuto il "miracolo economico" caratterizzato da bassi salari, da pochi diritti garantiti ai lavoratori e da uno scarno sistema di protezioni sociali.
Di Vittorio sapeva che quando al lavoro non veniva riconosciuta la piena dignità, non erano riconosciuti i diritti fondamentali, quando un lavoratore era licenziabile “ad nutum”, cioè con il semplice gesto del dito di una mano a totale discrezione del datore di lavoro magari a causa delle sue opinioni politiche o perchè aveva in tasca un giornale non gradito alla direzione aziendale, non era il lavoro su cui si fondava la Repubblica come diceva la nostra Costituzione, ma era un’altra cosa.
Di Vittorio era stato un esponente importante della Assemblea Costituente che aveva contribuito al varo della nostra Costituzione che recitava al suo primo punto che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e che conteneva altri importanti articoli che riconoscevano la funzione basilare del lavoro in un paese che fino allora l’aveva avuto in scarsa considerazione.
La nostra Costituzione nasceva così fatta perché aveva avuto alle spalle la Resistenza nella quale affondava le proprie profonde radici; perché aveva avuto alle spalle gli scioperi del mar-zo del ’43 e di quelli ancor più partecipati del marzo del ’44, le più grandi manifestazioni di massa svoltesi in territori governati dai nazi-fascisti che avevano stupito la grande stampa internazionale per la loro dimensione e la loro radicalità. Nell'immediato dopoguerra avevano preso corpo anche grandi lotte bracciantili nel Mezzogiorno d'Italia. La Costituzione ha rappresentato, nella fase storica nella quale è stata approvata, un patto che il lavoro ha imposto alle classi dirigenti di questo nostro paese quale prezzo per potersi rilegittimare dopo le com-promissioni che queste avevano avuto con il fascismo.
E' stato dunque un sindacalista comunista quale era Di Vittorio a proporre l’approvazione dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori che diventerà legge solo dopo diciotto anni nonostante la sua definizione fosse stata ripetutamente proposta dal Psi sin dai primi anni Sessanta come uno dei punti qualificanti nei programmi dei Governi di centro-sinistra che si erano succeduti alla guida del nostro paese.
Vorrei sommessamente invitare tutti noi a riflettere su cosa sarebbe potuta divenire l’Italia se la Costituzione avesse potuto entrare nelle fabbriche subito dopo la sua approvazione. A riflettere su che tipo di sviluppo diverso avremmo potuto avere, su quale tipo di coesione sociale profondamente diversa sarebbe vissuta nella nostra società e quale paese più moderno sa-rebbe potuta essere l’Italia.
Per anni si è invece dovuta sviluppare una battaglia politica difficile e impegnativa affinchè la Costituzione italiana potesse finalmente vivere nelle aziende pubbliche come in quelle private.
Ma gli anni Cinquanta sono stati contrassegnati da profonde divisioni sindacali che hanno oggettivamente indebolito l'azione delle forze del lavoro. Sono stati contrassegnati dalla dura repressione che ha colpito numerosi militanti sindacali e politici più impegnati nei luoghi di lavoro attraverso un abbondante ricorso ai licenziamenti effettuati per rappresaglia o attraverso l'organizzazione di specifici e obbrobriosi reparti confino. Attraverso la diffusione della pratica delle schedature di massa con il ricorso ossessivo a guardie e a spioni preposti a controllare i comportamenti individuali di tantissimi lavoratori sia sul posto di lavoro che fuori dalla azienda attivando frequentemente strumenti di controllo irrispettosi della dignità delle persone.
Alla fine di quel decennio i drammatici fatti del luglio Sessanta hanno modificato a fondo lo scenario politico e istituzionale che caratterizzavano la vita del paese. Sul piano sociale invece la grande manifestazione del Natale in Piazza Duomo degli elettromeccanici milanesi unitariamente in lotta per il rinnovo del contratto di settore tenutasi nel dicembre di quell'anno e salutata nel corso dell'omelia natalizia dal cardinale Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, che inneggiava alla realizzazione della giustizia sociale, ha segnato una svolta.
Si avviavano così parallelamente l'esperienza dei Governi di centro-sinistra e la costruzione paziente della iniziativa sindacale in fabbrica, la conquista della contrattazione articolata, la de-finizione di una più attenta legislazione sociale innervando una stimolante e lunga stagione che gli storici hanno definito la "riscossa operaia".
Questa crescita contrassegnata da tanti momenti di unità d'azione realizzatasi sopra tutto tra i lavoratori e i sindacati dell'industria metalmeccanica si è progressivamente consolidata fino a raggiungere un importante approdo con la approvazione della Legge 604 del luglio del 1966 che vietava i licenziamenti senza giusta causa. L'intenso lavorio di quegli anni preparerà l’autunno caldo che rappresenterà il culmine dello straordinario ciclo di lotte del lavoro che nel 1968/69 portarono a compimento le aspirazioni e le spinte che erano state incubate negli anni Sessanta.
Il 1968 è stato definito l'anno degli studenti nel nostro paese come nel mondo. Gli studenti hanno promosso un movimento assai esteso e variegato alimentato dalla ripulsa dell'autoritarismo e dal contrasto della guerra combattuta dagli Usa in Vietnam come anche dalle innovazioni promosse dal Concilio Vaticano II. Ma anche in quell'anno le forze del lavoro in Italia non sono state affatto silenti o assenti a partire dallo sciopero generale sulle pensioni proclamato dalla Cgil il 7 marzo del 1968, dalle clamorose lotte dei lavoratori e delle lavoratrici tessi-li alla Marzotto di Valdagno e da quelle decisamente innovative messe in campo dagli operai della Pirelli Bicocca di Milano dove è stato eletto il primo Consiglio di Fabbrica.
I lavoratori italiani, con i loro bassi salari, con i loro pochi diritti e con un debole sistema di protezione sociale avevano deciso nei fatti che così non si poteva più andare avanti e avevano preso a lottare in un modo unitario con un livello di partecipazione fino ad allora sconosciuti. Si è sprigionata da quegli avvenimenti una spinta partecipativa, democratica e modernizzatrice che ha coinvolto tanti aspetti della vita economica, sociale, politica, culturale e dello stesso costume del nostro paese.
Scadevano nell'autunno del 1969 alcuni grandi contratti nazionali di categoria e i lavoratori si battevano per salari europei e per contestare l'organizzazione del lavoro esistente in azienda a partire dai ritmi, dai carichi, dal rifiuto degli straordinari, dal rivendicare consistenti riduzioni dell’orario di lavoro tese ad ottenere le 40 ore settimanali, ma si battevano anche per il superamento delle gabbie salariali, per grandi riforme sociali riguardanti le pensioni, la sanità, la casa, il fisco, i trasporti. Si battevano per un ambiente di lavoro più salubre. Si sprigionò da quegli avvenimenti una imponente spinta partecipativa, democratica e modernizzatrice.
Questo e altro si mescolò a tante tensioni che ribollivano nel profondo della nostra società legate a volontà di riscatto e a speranze di progresso portate avanti da giovani generazioni che non avevano conosciuto la guerra, dai protagonisti di bibliche migrazioni di massa che avevano lasciato il Mezzogiorno d’Italia dopo aver partecipato alla occupazione delle terre e alle lotte per la riforma agraria. Giunte al Nord si erano mescolate in fabbrica con i lavoratori già sindacalizzati trovandosi così a lavorare quotidianamente gomito a gomito e a condividere una condizione lavorativa abbastanza omogenea con gli attivisti che avevano vissuto la Resistenza, gli anni difficili delle divisioni fra i sindacati e tutti insieme ponevano domande nuo-ve anche su cosa produrre, come e per chi.
E in fabbrica erano arrivate tante donne che divennero rapidamente protagoniste nelle lotte del lavoro a partire dalla distribuzione degli orari e dalla richiesta di salari più adeguati in fabbrica come per nuovi diritti e nuove protezioni sociali nella società, che favorirono nuove esperienze contrattuali in azienda come nel territorio. Il problema della casa era tra quelli più sentiti e sofferti, insieme con il diritto allo studio per i più giovani ma anche per le generazioni che già lavorano da tempo. Si arrivò così a quel 1969 che ha dato il via ad una stagione intensa di battaglie del lavoro, sociali, culturali, civili e democratiche destinata a durare a lungo.
La spinta al cambiamento aveva allentato le divisioni sindacali di un passato ancora assai vicino e aveva innescato la volontà di costruire percorsi e procedure unitarie, processi partecipativi e democratici nuovi. Il protagonismo del lavoro ottenne nei contratti collettivi nazionali di lavoro diritti, salari e orari più europei e pose con forza il suo ruolo e le sua funzione al centro della agenda politica del paese. Pose alle istituzioni, alla politica italiana domande ed esigenze che richiedevano risposte avanzate e nuove. In quelle stagioni si sarebbero gettati quei semi che hanno cambiato nel profondo la società italiana portandola a tante conquiste sindacali e civili, dalla realizzazione di protezioni sociali generali e universali quali furono le pensioni e il servizio sanitario nazionale fino alle leggi sul divorzio, sull’aborto, sull'obbiezione di coscienza, sulla riforma dei manicomi e sul nuovo diritto di famiglia.
Il sindacato è uscito da quegli anni profondamente mutato poiché ha saputo cogliere molte istanze emerse da quella convulsa fase storica misurandosi, non senza pesanti resistenze interne, con la voglia di partecipare che veniva espressa in forme nuove; ha avuto la lungimiranza di comprendere molte delle novità emerse e di integrarne le potenzialità nell’organizzazione.
Quella stagione, dopo la drammatica strage di Piazza Fontana che venne organizzata da forze reazionarie appoggiate da settori dell'atlantismo più oltranzista nel tentativo di contrastare frontalmente quei grandi movimenti che vedevano come protagoniste le forze del lavoro, si è conclusa con la approvazione dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori
Quell’ambizioso obbiettivo diviene definitivamente Legge dello Stato il 20 maggio del 1970 indubbiamente sospinto verso la sua approvazione dal grande movimento di lotta che si era espresso nei mesi precedenti.
Va sottolineato che in numerose intese aziendali siglate in alcun grandi gruppi industriali e successivamente in alcuni importanti contratti collettivi nazionali di lavoro dell’industria, sottoscritti nell'autunno caldo o nella sua immediata vigilia, erano già stati definiti accordi tra le parti sociali che riconoscevano il diritto di assemblea in fabbrica, l’agibilità di nuovi strumenti di contrattazione e l'accettazione di una nuova rappresentanza democratica e partecipata nei luoghi di lavoro, quali erano i neonati Consigli di Fabbrica, corredati per di più da un adeguato monte ore di permessi sindacali finalizzati allo svolgimento della loro attività.
Importanti intese sindacali che vennero sottoscritte in quelle stagioni riguardarono altresì la tutela della salute così come regolamentarono l'esercizio di altri diritti individuali e collettivi importanti. «La salute non si vende» che a partire dalle fabbriche chimiche di Marghera si elevava sempre più prepotentemente e si diffondeva in tutto il paese è stato forse lo slogan più importante di tutto l’autunno caldo.
Come sempre si è partiti dalla contrattazione e dalla conquista dei diritti e delle tutele in azienda per creare i presupposti perché tali scelte venissero successivamente assunte dal legislatore e fossero in tal modo consolidate ed estese a tutti.
E lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori regolò, codificò ed estese organicamente un ampio sistema di diritti e di doveri determinando uno straordinario fatto democratico e una grande svolta nel paese. L'azione del sindacato in azienda ha così ricevuto pieno riconoscimento e hanno sostanzialmente avuto fine sia le iniziative repressive dei datori di lavoro nei confronti di singoli lavoratori che le attività antisindacali messe in atto nei confronti delle direzioni aziendali contro le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative che vennero espressamente vietate dall'Articolo 28 della Legge 300.
E' indubbio che lo Statuto vide la luce sulla spinta delle grandi battaglie sindacali dell'autunno caldo che lo fecero uscire dall'elenco dei desiderata presenti nei programmi di Governo che si sottoposero finalmente all'esame fattivo delle aule parlamentari. Ma tale passaggio vide un impegno deciso delle forze politiche e va reso onore anche a coloro che ne furono i principali protagonisti: Giacomo Brodolini, Carlo Donat Cattin e Gino Giugni.
Va sottolineato che in Parlamento alla fine degli anni Sessanta, il ministro del Lavoro Giacomo Brodolini era stato tra i protagonisti della preparazione e della approvazione dello Statuto. Già vicesegretario della Cgil negli anni Cinquanta, durante il suo breve mandato ministeriale e prime che la morte lo cogliesse ancora molto giovane, Brodolini aveva garantito dapprima una qualificata mediazione del Governo all’accordo tra imprese e sindacati che aveva permes-so il superamento delle gabbie salariali che differenziavano le retribuzioni tra le singole pro-vince italiane in riferimento all’andamento del costo della vita in ogni specifico territorio. Aveva poi contribuito all’avanzamento del processo di riforma delle pensioni, mai organicamente riassestate dalla precaria condizione in cui lo Stato le aveva ereditate dall’Italia fascista, ma soprattutto aveva determinato il percorso che avrebbe portato finalmente alla approvazione dello Statuto dei Lavoratori, uno dei punti più qualificanti del programma di Governo particolarmente sostenuto dal Partito Socialista Italiano.
Giacomo Brodolini amava definirsi il ministro dei lavoratori in un paese la cui storia aveva troppe volte visto ministri di tanti Governi, che si erano succeduti dall’Unità d’Italia in poi, approcciarsi alle lotte del lavoro come a dei movimenti animati da sovversivi che minavano la coesione sociale. Quasi fossero il nemico interno da contrastare con ogni mezzo.
Alla piena approvazione dello Statuto si è giunti anche per l'opera meritevole del successore di Brodolini, il ministro democristiano Carlo Donat Cattin cui va riconosciuto l’onore e il merito di aver proseguito con coerenza e determinazione il lavoro avviato dal suo predecessore. Entrambi avevano affidato a un qualificato gruppo di studiosi guidato da Gino Giugni, un giova-ne studioso di orientamento socialista, il coordinamento di tanti esperti e di numerosi giuristi che hanno lavorato alla elaborazione del disegno di legge che era dapprima passato per un vivace e laborioso percorso al Senato dove era stato approvato il 12 dicembre del 1969, proprio il giorno della strage di Piazza Fontana, per poi giungere alla Camera dei Deputati.
Lo Statuto venne infine approvato da una larga maggioranza parlamentare comprendente, oltre alle forze di maggioranza che sostenevano il Governo guidato da Mariano Rumor, anche il Partito Liberale Italiano mentre fu supportato dall'astensione del Partito Comunista Italiano, la più grande forza politica dell'opposizione.
Il Pci aveva dato in Commissione Lavoro un contributo impegnato e minuzioso alla stesura integrale del testo attraverso l'azione puntigliosa svolta da un parlamentare milanese Giuseppe Sacchi, il dirigente della Fiom-Cgil che aveva ideato e organizzato nel 1960 il Natale in Piazza Duomo degli elettromeccanici. Il Pci discusse a lungo al proprio interno se votare a favore del provvedimento proposto dal Governo, cosa che era avvenuta qualche anno addietro solo per sostenere la proposta del centro-sinistra di nazionalizzazione dell'industria elettrica, o se astenersi oppure se votare contro come sembrava orientato a fare lo Psiup.
Venne infine decisa l'astensione nonostante i pubblici rimbrotti di Bruno Trentin, il segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, che ricordò al suo partito che la proposta originaria di uno Statuto dei Diritti dei Lavoratori era stata avanzata da Giuseppe Di Vittorio.
Nelle dichiarazioni di voto finali il Pci, motivando la sua astensione sul provvedimento, espresse apprezzamenti per il testo in discussione ma avanzò anche critiche serrate in particolare su tre punti. Criticò l'eccesso di pariteticità nelle agibilità concesse ai sindacati in azienda a prescindere dalla loro rappresentanza e dalla loro consistenza reale, denunciò il mancato riconoscimento della agibilità per le organizzazioni di partito che pur operavano nella grandi e nelle medie aziende sia private che a partecipazione statale e criticò infine il limite dei quindici addetti come tetto sotto il quale non veniva applicato l'Articolo 18, un articolo importante teso a impedire i licenziamenti discriminatori.
Vale la pena sottolineare, anche se solo schematicamente, alcuni equilibri politico-sindacali che nella ideazione dello Statuto sono stati faticosamente composti e infine positivamente raggiunti. Con gli accordi contrattuali positivamente sottoscritti nell'autunno caldo e con il varo dello Statuto si sancì nei fatti che le regole fondamentali che normavano il mondo del lavoro nel nostro paese erano prodotte da un accorto mix tra contrattazione e legislazione. Leggi votate dal Parlamento e contratti liberamente sottoscritti tra le parti sociali sia a livello nazio-nale che nella singola azienda.
Un equilibrio non scontato sia per la storica ritrosia delle parti datoriali italiane a definire un sistema di relazioni sindacali strutturato e duraturo nel tempo sia per le diverse e spesso con-trastanti opinioni che hanno attraversato e che attraversano tuttora il sindacalismo italiano orgogliosamente geloso delle proprie culture e dei propri pluralismi.
Sappiamo che si sono sviluppate storie e culture nel mondo del lavoro, sia nei paesi industrialmente avanzati che nella esperienza italiana del secondo dopo guerra, che incentrano la propria azione sulla contrattazione e sulla autogestione delle agibilità sindacali e che hanno sempre diffidato profondamente dell'intervento legislativo. Da noi queste culture hanno animato e che ancor oggi animano grandi organizzazioni come la Cisl e una parte importante delle Acli. Parallelamente si sono invece consolidate visioni diverse che sono vissute e che segui-tano a vivere soprattutto nella Cgil, nella Uil, ma anche in un sindacato di destra come la Ugl che ha raccolto l'eredità storica della Cisnal, che rivendicano la piena autonomia dell'iniziativa sindacale ma che auspicano poi l'intervento del legislatore teso a consolidare per tutti le normative dapprima conquistate sindacalmente che successivamente, divenute leggi, estendono diritti e doveri all'universalità del mondo del lavoro.
Nel dibattito parlamentare sviluppatosi alla fine anni Sessanta va tuttavia sottolineato che le Acli hanno giocato un ruolo particolarmente impegnato nel cercare di raccordare tra loro le diverse sensibilità esistenti anche se alla fine dell'iter parlamentare alcuni parlamentari aclisti, eletti nelle file della Democrazia Cristiana e rimasti pervicacemente diffidenti verso lo stru-mento legislativo, si sono astenuti nel voto finale sulla Legge 300 dissociandosi dalla posizione assunta dal gruppo politico al quale appartenevano.
Ritengo che nel nostro paese l’equilibrio realizzato tra contrattazione e legislazione costituisca un approdo importante e che sia divenuto uno dei punti di forza dell'azione del sindacalismo confederale italiano che gli ha permesso di conseguire risultati straordinari e di difendere ade-guatamente i lavoratori nelle aziende così come più complessivamente nella società italiana. E di averlo fatto attraverso le tante conquiste che sono state realizzate dalle forze del lavoro te-nendo sempre ben ferma l’idea di "sindacato generale", di un sindacato capace di costruire le proprie rivendicazioni partendo dalla difesa della condizione immediata dei lavoratori che rappresenta ma di rapportarla sempre a un disegno che abbia come proprio orizzonte gli interessi più generali del paese.
Questa è stata ed è una concezione specifica della Cgil che ne ha costantemente caratterizzato la storia sin dalla sua fondazione avvenuta nel 1906 ma che nella realizzazione della unità d’azione praticata dagli anni ’60 in poi ha contaminato anche gli altri grandi sindacati confederali.
Va da se che l'approvazione dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori ha palesemente rappresentato una svolta di straordinario valore civile e sociale e ha rappresentato una pietra miliare nella storia del giuslavorismo in Italia come anche nel nostro continente. Lo Statuto ha realizzato sintesi importanti su molti fronti ma ha lasciato anche dei problemi irrisolti. In particolare quello posto dalla mancata applicazione dell'Articolo 39 della Costituzione sul chi rappresenta chi e come; la complessa questione della democrazia sindacale, della rappresentanza e il tema delicatissimo della validazione degli accordi.
Problemi irrisolti che tali rimangono ancora oggi anche di fronte alle novità portate dalle trasformazioni profonde del lavoro e della società che tuttavia ci ripongono costantemente l’esigenza di avere nel campo della rappresentanza e della rappresentatività regole chiare, certe ed esigibili. sia per la validazione degli accordi da parte dei diretti interessati che ne sono coin-volti che nel nevralgico rapporto tra lavoratori ed utenti in caso di proclamazione di scioperi nei servizi pubblici essenziali.
Nel ricordare l'anniversario del 20 maggio del 1970 e nel riproporre l’importanza dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori siamo tutti coscienti di quanto sia impellente la necessità di definire e di estendere un sistema di regole e di diritti ai lavoro antichi e nuovi, di misurarli con le realtà variegata e complessa del mondo del lavoro di oggi, con l’organizzazione specifica del lavoro di oggi, con il mercato del lavoro di oggi. Un sistema di diritti capace di durare nel tempo, di misurarsi con la mutevolezza vivace, quasi frenetica ormai, dei processi tecnologici e produttivi. Vi è la necessità di farlo per tutte le tipologie del lavoro e per tutte le dimensioni di impre-sa. Cosciente che servano nuovi diritti e nuove tutele per tutti la stessa Cgil ha recentemente proposto con la stesura di una “Carta dei Diritti Universali del Lavoro, ovvero di un nuovo Statuto di tutte le Lavoratrici e di tutti i Lavoratori”. Ha proposto la necessità di rimettere mano a tale immane problema. Il testo di una nuova carta dei diritti è stato supportata dalla raccolta di oltre 5 milioni di firme che lo ha sostenuto nel suo iter; a tutt'oggi questa proposta è depositata in Parlamento ma viene sostanzialmente ignorata dalla politica italiana. Occorrerebbe invece l'impegno di tutte la parti interessate per un nuovo e aggiornato sistema di regole, di diritti e di doveri che sappia contribuire a ricomporre l'unità del mondo del lavoro andando anche oltre i confini tradizionali del solo lavoro dipendente.
A nessuno può sfuggire come lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori abbia rappresentato un grande approdo capace di intestarsi una straordinaria estensione dei diritti sostenendo l'azione sindacale nei luoghi di lavoro come nell'insieme della società italiana.
Tuttavia è noto che lo Statuto sia stato sottoposto nel corso degli anni ad attacchi insidiosi e pesanti da parte di numerosi Governi di diversa matrice politica che si sono accaniti in parti-colare contro il suo Articolo 18.
Nonostante alcuni stravolgimenti portati a questa legge fondamentale essa è tutt'ora valida e di notevole significato politico e sociale.
Lo Statuto riafferma con determinazione che il lavoro rimane importante nella società poichè è un elemento costituente della società stessa, della democrazia, della vita delle persone alla quale conferisce piena cittadinanza. Riafferma che anche in questa epoca storica, nella quale in molti hanno puntato a svalorizzarlo, il lavoro rimane centrale in una società moderna anche se fa fatica a rimanere posizionato nei punti alti nell’agenda politica.
E’ dunque auspicabile che il tema del lavoro e della sua dignità, del suo valore sociale e dei suoi diritti si ridislochino stabilmente nel punto più alto di questa agenda.
La riflessione e la riproposizione del valore dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori, che compie 50 anni e che, nonostante tutto, li porta bene può rappresentare uno stimolo importante in tal senso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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