Testo integrale con note e bibliografia

La consapevolezza dell’imprescindibilità di un approccio ai problemi del diritto del lavoro che tenga conto, in una prospettiva dialogica e multidisciplinare, dei rapporti con l’economia e con le trasformazioni sociali da essa indotte nell’ultimo ventennio, costituisce una costante nel “Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile”.
Dalla lettura della parte introduttiva (cap. I), si percepisce però nitidamente qualcosa di più; la precisa intenzione cioè, da parte degli Autori, di promuovere attivamente e incoraggiare un diverso modo d’intendere quel che è stato “negli ultimi venticinque anni, poco più che un dialogo tra sordi” .
Si tratta di un proposito decisamente condivisibile, tanto più se accompagnato da un sano ancoraggio alla realtà.
Parimenti condivisibile è l’auspicio di una cultura giuslavoristica che sappia inserirsi appieno nelle nuove dinamiche del capitalismo e del mercato, evitando ogni arroccamento ideologico (e idealizzato) che vaneggi di una rimozione della dimensione economica dal dibattito sul futuro del lavoro .
Anche l’approccio giuslavoristico più concretamente ancorato alla realtà oggettiva, che non accetti però di rassegnarsi supinamente alle logiche del “Mercato totale” e che pretenda di opporre una qualche resistenza alla liquefazione del futuro in termini di subordinazione della tutela dei lavoratori (quale che sia l’accezione che s’intenda attribuire a quest’ultima locuzione) alle esigenze della competitività, tuttavia, incontra oggi evidenti ostacoli – di difficile superamento, quantomeno nell’immediato avvenire – nell’assoluta a-territorialità dei fenomeni in atto e nella conseguente sostanziale assenza di un potere politico cui sia pensabile di demandare il compito di governarli e disciplinarli.
Per un verso, si è infatti lucidamente rilevato come “La globalizzazione [abbia] modificato profondamente il sistema delle fonti di produzione del diritto, giacché il diritto essendo destinato a trovare applicazione oltre ogni confine statuale tende a formarsi nei diversi punti del pianeta. […] L’assenza di confini territoriali e di frontiere fisiche, nello spazio virtuale, comporta la necessità di riconsiderare nella regolamentazione giuridica delle relazioni che si dipanano nella rete. Il diritto deve, quindi, porsi alla ricerca di forme di regolazione disancorate dal territorio” .
Per altro verso, si assiste oggi (e ormai da tempo) a un progressivo“svuotamento della democrazia rappresentativa a opera dei «big players»” in cui ci si confronta “da una parte, con i poteri globalizzati quasi del tutto emancipati dal controllo politico; e dall’altra parte, con organi politici territorialmente circoscritti come prima della globalizzazione e, quindi, afflitti da una continua carenza di potere” .
Se è vero, infatti, che potere (di normare) e politica sono “le due condizioni essenziali per un’azione efficace, uniti nello stato-nazione”, è da rilevarsi come – venuta pacificamente meno la capacità di quest’ultimo di fornire risposte all’altezza dei problemi che la società e, con essa, il mercato del lavoro odierno imporrebbero – ci si trovi esposti a forme di darwinismo normativo difficilmente comprimibili in cui prevalgono logiche concorrenziali di valutazione dei diritti nazionali secondo la loro efficacia economica e in cui la manodopera finisce col doversi adattare ai bisogni dei mercati.
In tale ottica, “Gli indicatori elaborati dall’Unione Europea o dalla Banca Mondiale per misurare le performance dei diritti nazionali sono così l’immagine caricaturale di una normatività che ignora se stessa” .
In assenza di soluzioni in grado di rapportarsi efficacemente con la “nuova lex mercatoria globale, l’immane pulviscolo gassoso che ha sostituito le galassie stabili del diritto classico […] cui persino Santi Romano avrebbe oggi difficoltà a riconoscere natura di istituzione” , limitandone gli effetti devastanti, appare realmente difficile addivenire ad una concreta riaffermazione delle ragioni profonde del diritto del lavoro , per definizione argine al «diritto del più forte».
Fra le possibili risposte, vi è chi ha ipotizzato che “Vi [siano] sufficienti elementi per ritenere, almeno in ipotesi, che il futuro della democrazia […] consista nel prodursi di un clima culturale che abbini la riemersione di antichi saperi con le conquiste più avanzate della fisica teorica (quantistica) e della tecnologia elettronica, abbinamento che consentirebbe il controllo dei «big players» attraverso l’elezione diretta, a suffragio universale, di almeno una parte dei loro vertici” .
Altri hanno invocato la realizzazione di “un diritto, finalmente, autenticamente universale” .
Si tratta di strade realmente percorribili? Esistono risposte migliori o più adeguate alle circostanze? Al momento è pressoché impossibile pronunciarsi, ma tra le sfide del giurista contemporaneo e segnatamente del giuslavorista intento a indagare le possibili soluzioni alle problematiche che affliggono il diritto (e il mercato) del lavoro nel mondo globalizzato, v’è senza dubbio anche quella di contribuire alla ricerca di una risposta a tali quesiti.
Diversamente, ogni sforzo di concepire e realizzare un diritto del lavoro sostenibile – per quanto apprezzabile negli intenti – rischierebbe di venire frustrato dall’assenza di strumenti per darvi concreta attuazione.

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