Testo integrale con note e bibliografia

1. Il Manifesto (d’ora in poi: «M.») che tre illustri colleghi hanno dedicato alla nostra materia - allo scoccare di mezzo secolo di Statuto dei lavoratori (e nel mezzo delle angustianti diffcoltà sopraggiunte con Covid 19) - raccoglie sotto il viatico della «sostenibilità» una cospicua serie di questioni che stanno percorrendo l’Europa e il mondo intero. Prima di apprezzamenti e critiche, sia consentita su tale meritorio e pregevole sforzo una premessa che involge quel che gli autori dicono di voler fare nonchè l’identificazione dei loro interlocutori «naturali».
Il «diritto del lavoro … deve condividere con le altre discipline e con le policies pubbliche la preoccupazione di promuovere uno sviluppo sostenibile da un punto di vista che non trascuri nessuna delle tre dimensioni cui deve essere riferita questa espressione: quella economica, quella sociale e quella ambientale» (p. 5 e s.). Di qui l’erezione di un ambizioso e complesso contesto culturale di riferimento, che funge da cornice motivazionale dell’operazione in esame e ne allarga confini e proiezioni (si veda l’intero punto I).
Non si può sottacere il valore dell’assunto, che gli autori collocano nei presupposti, per il quale quella giuslavoristica deve essere concepita come una «razionalità di sintesi, che benefici del fatto di essere il terminale di un ampio novero di informazioni proveniente dalle varie forme ed esperienze del sapere sociale» (p. 17 e s.): una affermazione sulla necessità che il giurista del lavoro si doti di un sostrato di conoscenze così vasto e intenso, che non si potrà mai ridurre ad homo juridicus «costruito a prescindere dalle realtà vitali» additate nella triade delle dimensioni sopradette. Una affermazione talmente orgogliosa da promuovere il diritto del lavoro a fomento di una razionalità esemplare, capace di essere unità di misura per la società intera.

2. Dove va a parare un discorso sullo stato di una branca giuridica, tanto impegnativo da essere supportato nel segno di quanto si dibatte nel mondo a proposito di «sostenibilità»? Il richiamo a questa, nonostante le argomentazioni a largo raggio con cui viene motivato (p. 14 e ss.), non può valere per il giuslavorista allo stesso modo in cui serve da ammonimento nell’uso anche troppo inflazionato della parola; non è, per intenderci, il richiamo dell’Agenda 2030 dell’ONU, in cui i sustainable development goals sono profilati in ogni campo della natura e delle attività umane al deliberato fine di contrastare il degrado del pianeta e di evitarne il pericolo di estinzione.
Il diritto del lavoro non è nella condizione di sparire, né teme un tale pericolo: ha invece un grande bisogno di cambiamento sia escogitando nuove norme e istituti, sia adattando le regole per cui è nato e si è sviluppato, qui come ovunque, alle esigenze attuali di un mondo sempre più stravolto su ogni aspetto delle condizioni di lavoro e di vita, fino a far temere un regresso della stessa decenza che le deve contraddistinguere. Tanto più in un paese come il nostro, dove il deficit di sapere organizzativo, la predilezione per il particulare e la tendenza all’inerzia e al differimento rendono più impervio che in altri un confronto efficace e costruttivo sulle questioni di fondo e su vizi, vezzi e piaghe che ab antiquo impediscono decisioni.
Insomma, il «M.» fornirà bensì un piedestallo (ricco come non mai) ai ragionamenti e alle proposte affacciate dai suoi autori; ma a me pare anche che, non solo per l’occasione in cui compare, nel mentre suggerisce coraggiosi indirizzi normativi e nuove strumentazioni il «M.» non possa che avere per scopo, ex re, quello di soddisfare l’esigenza di (ambiziose) riforme, abbozzandone il programma e magari la sequenza. Il che in parte avviene, ovviamente, ma un po' «scantonando», come si trattasse di una casuale «rimanenza» dell’imponente quadro di riferimenti e auspici con cui gli autori contornano i loro desideri e le loro preferenze. Del resto, i mutamenti normativi a cui sono protesi potrebbero non essere esplicitamente per evitare la taccia di voler proporre una «ennesima variante dell’idea della “Terza via”» (p. 6) nonché per lo «stile assertivo, più che argomentativo» (p. 1) di cui gli autori dicono di avvalersi.
Davanti allo sforzo, alla qualità e alla latitudine di premesse che contraddistingue il «M.», solo per confidenza ed amicizia mi permetto una provocazione: per andare più diritti allo scopo, non era forse meglio evitare tanta carne al fuoco, con una sorta di ammassamento di preferibilità troppo esteso e a raggiera, concentrando invece il discorso selettivamente su un numero più limitato di criticità, e cioè sulle opzioni più rilevanti nel merito giuridico e nella plausibilità politico-sociale, e anche ordinandone le soluzioni secondo priorità (quale prima e quale dopo, o con quale connes-sione). Se poi il «M.» avesse alla fine riepilogato tali selezioni e gerarchie in via sintetica e trasparente (i Zusammenschlüsse o la Zusammenfassung in Thesen all’uso tedesco, specie nelle dissertazioni di dottorato), sarebbe potuta emergere, accanto alle tesi patrocinate, pure una ipotesi della sequenza in cui esse potevano realizzare il cambiamento di fondo della materia.
Il programma degli autori, insomma, sarebbe stato meglio indirizzato se, invece di sorreggerlo su una sostenibilitò del diritto del lavoro, risultasse un compendio politico-giuridico delle situazioni analiticamente da contrastare perché sono insostenibili dal o nel diritto del lavoro (insostenibili sul piano economico, sociale ed ambientale): un passaggio dalla parola magica al suo avversativo che, al di là del gioco linguistico, forse apporterebbe maggior concretezza ed ordine ad un discorso altrimenti fin troppo dilatabile e controvertibile.

3. La timidezza che mi sono azzardato di imputare agli autori, non toglie che, fin dalle «piste tematiche» di orientamento (p. 3 ss.), la loro disamina si avvalga con ricchezza inusitata di fatti, argomenti, contesti, idee, ragionamenti e falsarighe, ricavati con dovizia e acume da scienza e esperienza (anche straniere o transnazionali); tanto che un loro commento non può essere che rapsodico e del tutto incompleto. Mi limiterò quindi ad accennare a qualche assunto, per condividerlo e/o per sollevare perplessità e obiezioni, badando a non farmi più influenzare dal pensiero poc’anzi svolto.
Premesso che le condivisioni e gli apprezzamenti,si estendono alla sua gran parte anche se non ne parlo, nel «M.» mi ha anzitutto colpito una secca e radicale presa di posizione: quella sulla natura del “nuovo” contratto di lavoro e sul contenuto dello «scambio contrattuale», che ne preconizza una «causa “collaborativa e partecipativa”», nel contesto di un pregnante riconoscimento reciproco (secondo la concezione, diciamo filosofica, di Axel Honneth) (p. 24 e s.). Con le considerazioni offerte per giustificare una tale, qualificante, scelta, gli autori si prendono in carico – ancora una volta - un nervo per così dire cariato del diritto del lavoro, su cui va spesa qualche parola.
Come protagonisti storici nella nostra materia agiscono lavoratori, coalizioni, datori, sindacati, unioni e stato (per semplificare); e fra tali soggetti (entità), e anzi pure dentro di essi, intercorrono e giocano interessi sia contrapposti (contrastanti, conflittuali, esclusivi), sia comuni (condivisi, convergenti, inclusivi). E’ precipuo del diritto del lavoro non solo che in esso coesistano tali diversi tipi di interessi, ma che il modo e le misure in cui si combinano sia decisivo nell’identificare la situazione spirituale della materia, imprimendovi il carattere predominante e l’assetto valoriale. La combinazione detta impone perciò la ricerca di un equilibrio fra gli interessi contrapposti e quelli comuni, evitando (non solo la tirannìa, ma) una prevalenza troppo netta degli uni sugli altri - pericolo che, nella secolare lotta fra di essi, non è stato evitato specialmente per il rilievo ideologico e distorsivo delle immagini del mondo sottostanti o invocate.
Il quadro di riferimento di questa dialettica fra interessi è mutato nel profondo alla fine del novecento, con il sopraggiungere, accanto al crollo del cd. socialismo reale, di cambiamenti fondamentali nell’economia planetaria (globalizzazione dei mercati, nuovi protagonisti nazionali, imposizioni di compatibilità, dumping sociale, migrazioni, neoliberismo e quant’altro). Fra i molti effetti di questo sommovimento deve annoverarsi anche un crescente deficit di giustizia e un funzionamento sbilanciato della regolazione nel diritto del lavoro; con la accresciuta ricerca di nuovi approcci, capaci di assimilare una complessità diversa dal passato.
Avendo a base una temperie prospettica del tipo descritto, nel «M.» si parte dalla struttura fondamentale del contratto individuale, spostandone l’asse portante dagli interessi, in conflitto e in comune, più a favore di questi ultimi: con un arricchimento nella dotazione dei diritti e delle aspettative del lavoratore che consegue al fatto - in qualche misura interiorizzato-tipizzato nella causa del contratto - che «collabora alla realizzazione degli scopi produttivi dell’impresa e alla gestione competente della stessa» (p. 24).
Il concetto emergente in queste interconnessioni è dunque quello di «collaborazione», una parola che il giovane Mancini si ostinava ad asserire che avesse un significato toto coelo diverso quando ricorre nell’art. 2094 cod. civ. (o ancor più nell’art. 2086) e quando invece nell’art. 46 Cost. Del resto sempre il mio Maestro già preconizzava, alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, che il diritto del lavoro poteva cambiare faccia a seconda del modo in cui sarebbe stato attuato il principio affermato nella norma in esame.

4. Il riferimento en passant alla norma costituzionale più negletta dal giuslavorismo, mi induce a rimarcare, in sede di content analysis, che nel «M.» sono citati pochi disposti del codice civile o di qualche legge (v. pp. 21, 23, 32, 37, 40, 48 ss.) e ancora meno disposti contenenti principi costituzionali: fra essi sono ricordati solo gli artt. 35 (p. 23 s.), 36 (p. 56) e 39 (p. 54 ss. suggerendone parziale attuazione); mentre l’art. 38 è per implicito evocato parlando dei «pilastri pensionistici» (p. 68 ss.). La minuziosità non è capziosa ma voluta: mi preme far emergere una carenza che di consueto affligge l’approccio italiano al bisogno di cambiamento e di riforme, e cioè l’insensibilità nel percepirne, e valorizzarne, il collegamento con i valori costituzionali sottostanti, snobbandoli tramite un sistematico disinteresse.
Mi pare un difetto che il «M.» sia così parco e taciturno nell’investigare gli assetti costituzionali dell’economia e del lavoro, quando le soluzioni normative profilate acquisterebbero più consistenza se fossero presidiati con un ancoramento a tali assetti. Come mostra uno sguardo storico-comparato, ogni cambiamento profondo di sistema avviene solo in forza di un intenso e prolungato lavorìo preparatorio, in cui sofferti intendimenti collettivi si traducono in prassi e bisogni sociali: fino a quando i contrassegni e le finalità che identificano la nuova forma giuridica si compenetrano talmente in essa da diventarne consustanziali. Il valore fondativo che riveste il lavoro comporta, non solo che un suo ordinamento normativo dovrà sempre esserci (come affermò Karl Renner), ma che sarà sempre immancabilmente correlato ad altri valori che ne consolidano il basamento. Come concisamente affermò Luigi Mengoni (Diritto e valori, Prefazione, p. 6), «ciò che viene “positivizzato” con un atto di volontà dello stato espresso nella legge fondamentale, è il vincolo del diritto positivo a valori metalegislativi, il rinvio ad essi come a misure di “diritto giusto”».
Si vuol dire che il processo di cambiamento richiesto per metabolizzare la struttura e la funzione del contratto individuale come ora rimodellate nel «M.» si deve confrontare con un antitetico assetto valoriale che a lungo è fortemente prevalso nella costruzione giuslavoristica; e che un siffatto confronto-opposizione è così impegnativo da esigere uno sforzo dogmatico di equivalente portata e prassi conformi di sostegno di paragonabile persistenza. Non possiamo insomma permetterci il lusso di sprecare il vantaggio che un forte basamento costituzionale arreca al discorso riformistico e alla possibilità di realizzarlo.

Una siffatta sinergia è ancora più auspicabile in un tempo come l’attuale, segnato dalla incipiente «grande» crisi economica, da pandemia invece che da guerra, in cui crescerà l’urgenza di rendere più visibili nel lavoro le comunioni di interessi, invece che il loro conflitto. Che fare, ad esempio, di fronte all’incivile approfittamento del lavoro precario di nuova generazione, criminalmente perpetrato persino dalle multinazionali nelle guise dell’abborrito «caporalato»? L’aggressione più intensa alla dignità del lavoro – con le sofferenze angoscianti che ne derivano – può e deve avere dunque a disposizione, fra altri argini costituzionali, il controveleno del diritto-principio improvvidamente «disconosciuto» di collaborare alla gestione delle aziende.

5. Anche per il tema su cui sto insistendo si riproduce il dilemma causato dai tempi biblici delle nostre (in)attuazioni costituzionali: lasciar lì come ammennicolo un principio perché nell’incuria continui a mancarne l’indispensabile servizio; oppure avere l’energia di togliere di mezzo il principio infecondo o avversato e/o magari sostituirlo? Nel caso dell’art. 46, piuttosto che in quello della seconda parte dell’art. 39, dimostrerebbe maggior lena costruttiva riprendere sul serio le fila del patto fondativo; e, scommettendo finalmente sui valori contemplati nella norma, por mano con una riaffermazione orgogliosa alle regole legislative che, sole, possono inverare il diritto di collaborazione in esame, non lasciandolo alla mercè di quanto aggrada o meno ad associazioni private, per quanto larghe. Dovrebbe essere ormai trapassato il tempo in cui non si poteva parlare dell’art. 46 perché non era bene e non sarebbe piaciuto (tanto che la norma non fu degnata di analisi, né di semplice citazione, neanche nel volume sulla «costituzione economica», premesso al trattato di diritto commerciale più importante del dopoguerra: eravamo negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso).
La spallata del «M.» all’insipienza del politicamente corretto - inferta investendo direttamente il contratto individuale e cioè il costrutto basico più «sensibile» - prende in effetti il toro per le corna. Ma la modificazione di valori mediante la riponderazione dei due tipi di interessi (in conflitto e in comune), di cui ora parlo, inerisce pure all’area del diritto collettivo di lavoro, dove anzi assume una complessità tematica aggiuntiva. Invero la dimensione partecipativo/ cooperatoria si trova in tale ambito ad essere contrapposta a quella negoziale/conflittuale per la ragione essenziale che procaccia la distinzione basica dei meccanismi escogitati dall’autotutela collettiva al fine di creare le norme volontarie di lavoro (common rules): i quali ovunque, sul piano storico, si bipartiscono nel contratto collettivo e nei congegni partecipativi di codeterminazione.
La duplicità ricavata dalla contrapposizione in esame, al di là della sua portata definitoria sul piano generale, in molti ordinamenti paragonabili al nostro asseconda infatti un «doppio canale» di rappresentanza, grazie al quale si realizzano due guise diverse di formazione delle regole collettive volontarie: quella negoziale-associativa-conflittuale, in cui il contratto può venire o meno in essere (in quanto al soggetto stipulante resta sempre l’ultima decisione); e quella organica-istituzionale-cooperatoria, nel cui procedimento la codeterminazione non può non venire in essere (in quanto, se l’accordo manca, può essere surrogato grazie all’intervento di un ente terzo e neutrale).
Nulla dico sulle circostanze giuridico-politico-sindacali per cui, nell’esperienza italiana, non è attecchito il «doppio canale» neppur per il barlume che vi aveva portato l’auge delle commissioni interne nel primo dopoguerra. Esauritasi in sostanza con lo Statuto dei lavoratori, che in azienda promuove e tutela la sola presenza sindacale, tale possibilità è da allora sparita dall’agenda e non può immaginarsi che sia riproposta; con irreparabile perdita del significato connesso all’idea di «fabbrica costituzionale» e ai suoi rivoli. Senonchè, il radicarsi da noi di un single channel (solo sindacale) ha purtroppo per conseguenza … la mancanza di un secondo canale che a qualcosa pur serviva. Se i due istituti - contratto collettivo e diritti di codeterminazione - svolgono entrambi, come mostra la ricognizione comparata, ruoli e funzioni preminenti se non indispensabili nell’integrare le tutele volontarie di lavoro, una polarizzazione sul solo contratto collettivo non può che rendere incline il sistema di relazioni industriali ad esiti ingorgati e sindacalreferenziali, o a inattendibili forme promiscue dei due archetipi.

6. In un sistema a canale unico, insomma, è più probabile, se non inevitabile, che si determini una sorta di corto circuito o di incapsulamento dannoso: ridotte ad una sola le due modalità in cui possono esprimersi la tutela collettiva e la formazione volontaria di regole, non se ne può più concepire l’articolazione, integrazione e coordinamento, che sono più o meno proficuamente realizzati nei sistemi di double channel. Ed è rimarchevole che tale amputazione avvenga nel mentre la libertà di organizzazione sindacale sia riconosciuta al lavoratore con ampiezza inusitata dal (mai abbastanza lodato) 1° comma dell’art. 39, Cost.
In proposito il «M.», senza pervero accostare il problema, appare più realista del re: poiché nella evoluzione postbellica le nostre forze sociali e la stessa dottrina hanno costantemente evitato di misurarsi su un tema tanto impegnativo come quello della partecipazione e delle istituzioni che esige, i nostri autori fanno riferimento solo e anzitutto ad una «contrattazione collettiva» in senso ampio, in cui si sottintende vagamente inclusa pure una qualche forma ancillare di partecipazione. Dopo di che, di fronte ad «un’anomia … che tende a trasformarsi in anarchia», tornano al contratto collettivo stricto sensu, per invocare dal legislatore un provvedimento in cui finalmente vengano fissati criteri certi di rappresentatività e sia adeguatamente rafforzata l’efficacia vincolante dei contratti nazionali (v. p. 51 ss., 55 ss.).
Dopo averli tacciati di mancata esplicitezza propositiva (retro, n. 2), mi guardo bene dal criticare gli autori se, sulla scia animata di progetti di qualche anno fa, indicano in termini specifici una riforma che comunque scuoterebbe l’immoto. Rimarco solo che non si tratta però della ennesima richiesta di attuazione della seconda parte dell’art. 39, essendosi questo «rivelato un ostacolo storicamente insuperabile all’attribuzione di effetti erga omnes a tali contratti» collettivi nazionali. Nel «M.» si addita piuttosto come «strada praticabile … indicata anche dalle parti sociali … operare sui livelli salariali fissati dalla contrattazione di categoria» (p. 56); attraverso, se ben capisco, una legislazione sui minimi (rispetto ai termini della quale le parti sociali sono o saranno, al solito, perplesse).
In conclusione, nel nostro sistema pure la scelta delle riforme auspicabili viene delimitata in modo deficitario, condizionandone le proiezioni l’unicità del canale di rappresentanza. Fermo e saldo il 1° comma dell’art. 39 - su cui poggia l’autotutela collettiva del lavoratore – in un programma di riforme che involge i meccanismi di creazione delle norme volontarie di lavoro non può però non essere contemplata l’attuazione dell’art. 46. In questa norma si annida infatti l’archetipo, ancora in attesa di formazione, che sta alla base del meccanismo partecipativo-cooperatorio; e la constatazione vale che si vogliano o meno attuare i commi da 2 a 4 dell’art. 39, relativi all’archetipo contrattuale collettivo.
Lo spirito del diritto del lavoro – se posso enfaticamente dire – transita dall’individuale al collettivo; e in tale circolazione i contrassegni di base hanno la loro ripercussione e si omologano in ognuna delle due dimensioni della materia. Che il mutamento della struttura del contratto individuale si riverberi pure sull’ampiezza di riconoscimento degli istituti collettivi (e viceversa) rende più chiaro il valore nevralgico della impostazione affacciata nel «M.» (v. retro, n. 3), per conferire un senso nuovo e aggiornato a quella struttura. Per il resto, interessava ancora mostrare che l’avversione all’art. 46 non è solo frutto di incuranza sul piano progettuale, ma va di pari passo con un’avversione parallelamente nutrita verso la prospettiva cooperatoria e gli istituti partecipativi.

7. Ho a lungo posto l’accento sull’importanza di appoggiarsi, perché le riforme abbiano una testa, pure alle determinanti costituzionali, anche rivisitate, assecondando ciò che i padri fondatori ebbero in mente e soppesarono in un periodo di angustiante durezza e perciò garante della serietà dei loro intenti. Nonostante con questo pensiero possano ben terminare i presenti appunti, confesso che mi dispiace staccarmi dal dialogo con il «M.» e i suoi autori. Avverto in effetti come un privilegio il potersi misurare con pensieri di intenso sapere e progettualità, perché la condivisione aggiunge spessore ad essi e arricchisce al pari della loro critica.
Sempre nel punto II. del «M.», ad esempio, si incontrano notevoli pagine sulla fattispecie, come componente indispensabile del procedimento o metodo, grazie a cui viene deciso l’accesso alle risorse normative. Al funzionamento ottimale di tale tecnica non basta più la duttilità che ha da tempo acquisito, grazie alla bivalenza fornita dalla sussunzione del concetto, fondata sulla equivalenza-identità, e dalla riconduzione al tipo, fondata sulla approssimazione-simiglianza. Per l’insoddisfazione che serpeggia sullo strumento in esame, verrebbe da confrontarsi a lungo, perché il tema attiene al modo (meglio dire: al mistero) in cui si realizza l’applicazione del diritto. Evito di affrontare qui e ora un quesito così complesso: se non tradisco una lontana reminiscenza, Franco Cordero diceva che «fattispecie» è il concetto più essenziale del diritto. La sua funzione viene però spesso investita da troppo scetticismo. Non dico che nel «M.» lo si faccia, ma si resta un po' in sospeso: del resto gli stessi tre autori, se intendo bene loro precedenti scritti, non dovrebbero avere idee collimanti in proposito.
Senza altro addentrarmi, osservo solo che se si è insoddisfatti della tecnica che per antonomasia presiede all’applicazione, se ne deve indicare o costruire un’altra; ed essendomi un po' consumato in varie rincorse al proposito, sono persuaso che non sarà facile escogitare un meccanismo in cui si concentri in modo paragonabile la sapienza logica e la duttilità contenute nel sillogismo giudiziale. Sicuramente non possono essere coonestate le «bizzarrìe» (p. 21 ss.) - apparse nell’ultimo decennio con riguardo al trattamento dei «dintorni della subordinazione» - che sono il frutto di una sorta di qualunquismo concettuale (se non, banalmente, di dilettantismo e improvvisazione).
Anche sui licenziamenti (o sulla flessibilità in uscita) mi piacerebbe un confronto con gli autori che ne parlano nel VII punto (p- 44 ss.). Come commentatore dell’art. 30 della Carta di Nizza (CDFUE), non direi nulla contro l’esigenza della giustificazione per decidere se il licenziamento sia o meno legittimo; ma insisto nel credere che, rispetto al «licenziamento oggettivo», nell’art. 3 della l. 603/1966 le «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» si riferiscano ai motivi che vengono (siano dichiarati o considerati) addotti (accampati) da chi il licenziamento dispone o dal giudice. Ciò basta ad escludere che, nel caso di specie, sia da osservare l’art. 7, Statuto; ma non sufficit a giustificare o meno il licenziamento, perché nella definizione dell’art. 3 sopradetto, non viene esplicato quali, fra le «ragioni inerenti ecc. ecc.» lo giustificano e quali no.
Invero la giustificazione implica una valutazione, che sta oltre la motivazione addotta, i cui elementi e circostanze devono essere tipizzate ad opera del legislatore: se sono determinati invece dal giudice o dal dottore, per quanto influenti, si è in presenza di una fattispecie «farlocca» (incostante e mutevole, nonostante la violenta nomofilassi che la Cassazione a volte esercita). Tutto si può fare: una stessa adulterazione opportunistica della premessa maggiore del sillogismo giudiziale è invalsa più di recente nella esperienza giurisprudenziale in tema di cd. mobbing. Ma questo modo di procedere apporta nella nervralgica materia del licenziamento una incertezza e controvertibilità talmente eccessive che, negli altri paesi , come si evince dall’indagine comparata, la via d’uscita è sempre quella di affidare al legislatore la previsione - a volte, ad esempio in Francia e Spagna, oltremodo analitica - degli elementi costitutivi della fattispecie.
Ancor più dovrei soffermarmi sul problema dei problemi, quello su cui Pietro Ichino si spende ogni giorno: l’inefficienza, cosi disperante nel nostro paese, dei congegni amministrativi e delle istituzioni che dovrebbero registrare i fabbisogni di lavoro, per farne incontrare offerta e domanda in un modo corrispondente alle capacità e ai bisogni sul mercato; esigenza inevasa nonostante gli innumerevoli posti di lavoro vacanti …
Ma ora debbo veramente concludere.

8. Mi è recentemente capitato, in un webinar, di patrocinare un po' d’attenzione a favore dell’attuazione dell’art. 46, Cost. e dell’approfondimento ab imis del principio contenutovi e delle sue proiezioni (ancora una volta … tanto per cambiare). E mi domandavo: «Non varrebbe la pena immaginare qualcosa …. che emerge come bisogno di adeguamento scientifico e di completamento interpretativo per migliorare un sistema replicante e ingorgato e farlo funzionare meglio?». Nell’l’occasione mi è venuto da denotare come «scalpitìo» ciò che avviene quando si reagisce vigorosamente di fronte a situazioni che nel diritto del lavoro non sono (più) sostenibili (eccola di nuovo la parola magica, seppur ella forma negativa che ho auspicato retro, n. 2), vale a dire non più consone alla sua realtà, impossibili e/o troppo gravose a mantenersi, causa non più tollerabile di inefficienza e di disfunzionamento, ecc.).
Alcune delle situazioni-obiettivi per la cui esigenza nel diritto del lavoro si può «scalpitare», con più o meno forza, sono state accennate (riequilibrare gli interessi in conflitto con quelli in comune; agguantare conoscenze comparate per meglio affrontare questioni in cui siamo indietro; ancorare le riforme ai principi e valori costituzionali; escogitare meccanismi che favoriscono o consentono l’incontro fra domanda e offerta di lavoro). Sono tutte questioni che non possono che essere rivolte a quei giuslavoristi, e mi paiono molti, che sono alla ricerca di ciò che nella materia esige di essere inventato, cambiato, innovato o rifatto. E a tal fine, confrontarsi con quanto sta scritto nel «M.», per approfittare dei ricchi spunti e dell’intelligenza dei suoi autori, è una indispensabile palestra. Il dialogo con loro induce infatti pensieri positivi, anzitutto quello che si possa fare qualcosa di importante per il diritto del lavoro.
Sono tornato ai ragionamenti sotto traccia che ho provato a premettere (supra, nn. 1 e 2), sugli intenti e sugli interlocutori del «M.». Capisco il ritegno dei suoi autori ad essere più espliciti su ciò che ne sarebbe il senso compiuto e la modestia che li ha trattenuti dall’annunciare un disegno di riforma, magari organico, che si intravvede in falsariga. Ma i tre non sono autori qualunque; e per fronteggiare uno status quo imbolsito dalla diffusa inettitudine a decidere e dal prevalere di pensieri conservativi o di rinvio, occorre chiamare più deliberatamente a raccolta energie nuove, promuovere critiche, adesioni e contributi (dalla giurisprudenza, da forze politiche e sociali, dalla stessa opinione pubblica), senza cui non possono essere neppur pensabili i grandi cambiamenti che fanno uscire dalle secche.
La conclusione è che, mentre è impossibile a farsi la riforma di tutto il diritto del lavoro, le riforme su una qualche parte qualificante di esso, invece, non solo sono possibili, ma anche alla portata. Il criterio per identificare tali nuclei di criticità è un sentimento di avversione o di obiezione; che si prova quando si è di fonte a qualcosa che percepisce, secondo scienza e coscienza, è diventato «insostenibile» nel diritto del lavoro (con riguardo a una o all’altra delle tre dimensioni canonizzate nel «M.»). Questo sentimento mi pare il segno che nel ceto intellettuale dei giuslavoristi è aperto pure lo spazio per un’attività creativa e qualificante, che amplia l’orizzonte del loro saper fare. Grosso modo: isolando punto per punto ciò che sarebbe da eliminare, sostituire o migliorare – e su ciò, la ricchezza conoscitiva e critica del «M.» costituisce un’ottima base di partenza- un’associazione di «giuslavoristi scalpitanti» sarebbe in grado di individuare e selezionare i molti nodi da sciogliere; per poi coordinare i suoi adepti nell’impresa di riformarli uno a uno.

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