TESTO INTEGRALE IN PDF

1.- Intervenire in una tavola rotonda su “rappresentanza e rappresentatività sindacale” significa per me rivivere l’emozione – ma anche la noia! – dell’eterno ritorno. Da tempo sto sul tema e quindi rischio di ripetere cose scontate, già dette (da me o da altri) e che tenterò di sintetizzare nel discorso di oggi. Convinto che, quando una materia d’importanza sociale arriva a certi livelli di confusione, il legislatore deve mettere ordine con un intervento organico. Urgente in una fase storica di straordinari cambiamenti. Oggi poi, all’esigenza tecnico-giuridica, s’aggiunge il diffuso interesse politico alla “semplificazione normativa”, realizzabile pure con la “delegificazione”. Con “regole di sistema” su rappresentanza sindacale ed efficacia erga omnes dei contratti collettivi, aspetti particolari dei diversi rapporti di lavoro verrebbero naturaliter affidati alla contrattazione, alleggerendo e semplificando la legislazione. Che ora invece è una delle cause della confusione. A differenza della contrattazione, le norme legislative (“generali e astratte”) non possono tener conto della concreta diversità del lavoro nei settori produttivi e in categorie, territori e aziende (agricoltura; industria; commercio; logistica; servizi ecc.). In pratica si può dire: legificare rappresentanza e contrattazione per delegificare la disciplina giuslavoristica. Perciò è giocoforza partire dall’atteggiamento della Costituzione verso i sindacati: sia quali “formazioni sociali” (art. 2); sia come soggetti “tipizzati” nell’organizzazione e nell’azione (art. 39). Eppure da oltre settant’anni si discute del ruolo dei sindacati nell’ordinamento statuale. Nonostante i tentativi del primo decennio post-costituzionale, il legislatore ordinario non è riuscito ad attuare i commi successivi al 1° dell’art. 39. In dissenso da autorevoli studiosi, penso che, per dare senso compiuto e coerente alla scelta costituzionale, non basti fermarsi al 1° comma, basare cioè la complessità del “sistema sindacale” sulla sola libertà dell’ organizzazione sindacale. Il 1° comma dell’art. 39, infatti, fa corpo unico coi commi 2°, 3° e 4°. A parte le critiche sull’opportunità, all’epoca, della scelta del Costituente e sulle difficoltà di renderne operanti le formule. Sta di fatto che quei commi, pur arrugginiti, stanno lì e non sono certo abrogati “per desuetudine”.
2.- Rientra nella logica elementare di una Costituzione, incentrata su pluralismo e partecipazione democratica, la garanzia di libertà delle rappresentanze degl’interessi collettivi, non a caso chiamate ad avere voce in capitolo in varie vicende (micro e macro) politico-sociali. Nella storia post-costituzionale, la c. d. concertazione sociale – informale sul piano giuridico, ma di gran peso politico – ha contribuito a risolvere spinosi problemi del Paese nelle non rare crisi economiche. In molti casi il Governo ha compensato debolezza politica con appoggio sindacale, grazie alla “costituzione materiale”. Ma, piaccia o non piaccia, il Costituente ha fissato, accanto alla libertà d’organizzazione e d’azione, anche regole e procedure quando le rappresentanze dei contrapposti interessi (di datori e lavoratori) vengono investiti della funzione istituzionale di contrattare le regole del lavoro rilevanti nell’ordinamento statuale: destinate cioè ad avere efficacia erga omnes e vincolare così datori e lavoratori, iscritti o non iscritti alle rispettive organizzazioni. Non è campata in aria l’idea di alcuni pubblicisti, primi commentatori della Costituzione, per cui, sul piano giuridico-formale, tali organizzazioni svolgono una funzione paralegislativa. Dettano infatti disposizioni integrative della legge e ne hanno la stessa “efficacia generale” e “inderogabilità”, limitando in egual modo l’autonomia negoziale dei singoli soggetti dei contratti di lavoro. Per l’ordinamento del lavoro sono quindi indispensabili le disposizioni di dettaglio contrattate dalle parti collettive. Il che spiega peraltro l’implicita promozione costituzionale delle rappresentanze dei contrapposti interessi (di imprenditori e lavoratori). Solo la contrattazione collettiva – nell’autonoma e flessibile sua articolazione – può soddisfare l’esigenza di una disciplina capillare e “unica” per l’intera area contrattuale di riferimento. Si pensi alla recente misura generalizzata di blocco dei licenziamenti nell’emergenza della pandemia. La Confindustria ne invoca la rimozione, mentre i sindacati vi si oppongono. In effetti il conflitto nasce dalla generalità del blocco e dalla mancata discussione sindacale sulle diverse esigenze nei diversi settori merceologici. Il Governo media e fa ciò che in autonomia meglio farebbe la contrattazione. La soluzione di conflitti del genere non passa per la generalità della legislazione ma per la specificità della contrattazione (di categoria e di territorio). E ancora: quando di parla di salario minimo “legale” si dimentica che la retribuzione da sempre è materia tipica della contrattazione. E’ vero: esso è previsto da una direttiva europea, ma è altrettanto vero che, se ci fosse un’efficiente contrattazione, spetterebbe a questa e non alla legge fissare i minimi retributivi.
3.- Sui rapporti di lavoro il legislatore si affatica inutilmente a dettare regole onnicomprensive e finisce col produrre leggi su leggi, spesso contraddicendosi. Confonde gl’interpreti e imbarazza i giudici. Interviene in modo asistematico perché manca un sistema di contrattazione erga omnes. Questa constatazione – elementare per i giuslavoristi – non lascia dubbi: né sull’insufficienza del contratto collettivo “di diritto comune”, né sulla natura del contratto collettivo ex art. 39. Il primo appare svilito dall’attuale scarsa rappresentatività di soggetti sindacali estemporanei e con pochi iscritti. Il secondo invece, nella concezione costituzionale, è “fonte del diritto oggettivo”. Si suole criticare questa scelta perché in qualche modo si rifà alla struttura dell’ordinamento corporativo. Non perché il Costituente lo volesse, ma perché quell’ordinamento, abrogato nel 1943, aveva lasciato tracce notevoli. Tali da influire sul Costituente (dall’ultrattività dei “contratti-fonti del diritto” alla successione, anche patrimoniale, dei sindacati democratici ai sindacati corporativi). Anzi per la verità esso, con l’art. 39, ha preso l’unica strada allora percorribile: togliere spazio al sindacalismo corporativo (prevedendo libertà sindacale e rappresentanza unitaria proporzionata agli iscritti ai sindacati democratici e registrati di categoria); e conciliare così libertà sindacale (co. 1) ed efficacia generale del contratto collettivo di categoria. Da stipulare secondo le disposizioni “a esecuzione differita” dei commi 2, 3 e 4, che poi il legislatore ordinario avrebbe dovuto tradurre in regole specifiche. Sono troppo note per ricordarle qui le ragioni politiche – e le travagliate consequenziali vicende sindacali – che hanno impedito al legislatore l’attuazione del disegno costituzionale. Altrettanto noti sono i decisivi apporti di “supplenza legislativa”, escogitati da dottrina e giurisprudenza. Che meritano però qualche cenno perché il presente è appunto frutto di quella supplenza legislativa. Nel regime di anomia, sono state valorizzate le scelte organizzative e strategiche del movimento sindacale da parte di dottrina e giurisprudenza. Attente all’epoca alla forza della “faticosa unità” delle tre maggiori Confederazioni (Cgil-Cisl-Uil) e all’indiscussa loro rappresentatività. L’epoca cioè di un sindacato forte e unito che in genere (come ricordato da Oronzo Mazzotta) consente la pienezza dell’autonomia e del conflitto sindacale e non fa sentire il disagio dell’anomia. La quale invece si avverte quando – come adesso – il sindacato è debole. All’epoca “unità” e “rappresentatività” hanno consentito alla giurisprudenza di considerare – di fatto – il contratto collettivo, stipulato dalle organizzazioni a esse aderenti, la “legge della categoria”. E hanno consentito alla dottrina: prima, di adattare le categorie giusprivatistiche all’autonomia collettiva (Francesco Santoro-Passarelli); e poi d’inventare categorie nuove d’interpretazione della realtà sindacale (Gino Giugni). Specialmente la prospettiva euristica dell’ordinamento intersindacale – plasmato sull’egemonia delle organizzazioni confederali e sull’autonoma produzione di prassi e regole – ha consentito a Giugni di “istituzionalizzare” la presenza sindacale nei luoghi di lavoro e di gettare le basi di un vero e proprio “sistema di relazioni industriali”, il cui sbocco legislativo, di portata storica, sarà lo “Statuto dei diritti dei lavoratori” nel 1970. Nel ricordarne oggi il mezzo secolo di vita (in ritardo d’un anno causa pandemia), va evitato il rischio della commemorazione. Perché la legge 300 del ‘70 – definita “legislazione di promozione e di sostegno” del sindacato nei luoghi di lavoro – oltre a contenere norme tuttora vigenti, da un lato racchiude il valore simbolico di un’irreversibile svolta culturale, pur negli stravolgimenti del mondo del lavoro; da un altro lato rimane un modello esemplare di tecnica legislativa, utile per eventuali nuovi interventi in materia (per esempio, un nuovo “Statuto dei lavori”).
4. – E’ vero che il legislatore del ‘70, allineandosi alla tutela costituzionale del lavoro, si è limitato a regolare la presenza sindacale nel “luogo di lavoro” per non incappare nei commi 2, 3 e 4 dell’art. 39. Ed è vero pure che il luogo di lavoro (come ha notato Maria Vittoria Ballestrero nell’introduzione alla tavola rotonda) ha perso la sua centralità col tramonto della grande impresa industriale. Questa però se ha perso centralità non è certo scomparsa. Se mai ha molto ristrutturato la sua configurazione tradizionale per i cambiamenti che, dagli ultimi decenni del ‘900 ai primi di questo secolo, hanno rivoluzionato il mondo della produzione e del lavoro (dalla globalizzazione all’evoluzione tecnologica ecc.). Ma il parziale venir meno del luogo di lavoro, quale architrave della disciplina dello Statuto, non ne fa perdere smalto e mordente. Esso infatti si regge su altri due pilastri, che racchiudono l’essenza del diritto sindacale: (a) l’asse individuale/collettivo; e (b) l’asse rappresentanza aziendale/ rappresentanza nazionale. a). Asse individuale/collettivo. Nello statuto è rilevante la circolarità tra garanzie individuali dei lavoratori e garanzie sindacali. Le prime, tuttora vigenti, non solo segnano una storica innovazione culturale (l’ha puntualmente sottolineato Mattia Persiani), ma servono altresì a dare linfa vitale alle seconde. In effetti il singolo lavoratore, col riconoscimento dei diritti di libertà, dignità e professionalità, si sente libero di aderire e rafforzare il sindacato. La cui forza a sua volta garantisce al singolo il rispetto di tali diritti tramite il controllo costante del potere datoriale per impedirne lo sconfinamento in zone della “persona” del lavoratore non dedotte nell’obbligazione lavorativa. Tutti ricordiamo l’aforisma allora in voga: “con lo Statuto dei lavoratori finalmente la Costituzione varca i cancelli della fabbrica”. b). Asse rappresentanza aziendale/rappresentanza nazionale. Con lo Statuto, il legislatore ha giuridificato nell’ordinamento statuale – mutuandolo dall’ordinamento intersindacale e trasfigurandone il significato politico – il concetto di “sindacato maggiormente rappresentativo”. Ma ha legato la sua rilevanza dentro l’azienda a strutture sindacali fuori dell’azienda: sindacato confederale o sindacato firmatario di contratto collettivo nazionale o provinciale (non aziendale) applicato nell’unità produttiva (art. 19 versione originaria).
5. – Ora per la ricostruzione teorica della logica statutaria (da non trascurare nell’attualità) conta poco il buco nero lasciato nell’art. 19 della legge 300 dal taglio referendario del 1995: frutto dell’anarchismo ignorante (e antisindacale) dei radicali e dell’estrema sinistra. Taglio che ha totalmente snaturato il disegno legislativo originario di fondare il concetto di “maggiore rappresentatività sindacale” sull’asse sindacato aziendale/sindacato nazionale. E ha dato spazio al “sindacalismo aziendale”, che consente all’imprenditore di concludere accordi con un sindacato più o meno “di comodo” (generando così “contratti pirata” e “contrattazioni separate”). Una strada pericolosa per gli equilibri endosindacali e financo per gl’interessi del mondo imprenditoriale: aumenta la conflittualità con effetti deleteri sulla produttività e sull’economia in generale. Apro una parentesi: forse accorgendosi di queste insidie, con l’art. 51del d.lgs. 81 del 2015, il legislatore ha tentato di arginare le spinte disgreganti del sistema contrattuale dettando una regola “generale”: quando il testo di una norma di legge rinvia al contratto collettivo per integrazione o deroga della legge, intende riferirsi: a) ai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale; oppure b) ai contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze aziendali o dalla rappresentanza sindacale unitaria. Formula che per un verso istituzionalizza – si direbbe: “una volta per tutte” – un principio di equiordinazione tra livelli negoziali, ma per un altro verso, non stando in Costituzione, non impedisce a una successiva legge ordinaria “speciale” di disporre diversamente. Rimane il problema che sindacalismo aziendale e sindacati autonomi possono arrecare danni rilevanti, soprattutto nei servizi pubblici essenziali. Dove sindacati piccoli e di scarsa rappresentatività possono bloccare interi servizi, aggirando persino i limiti allo sciopero della legge 146 del 1990. Chiudo la parentesi.
Ma gli effetti negativi del referendum del ’95 si proiettando sull’intero sistema giuslavoristico, già confuso con l’affermarsi di teorie neo-liberiste, secondo cui la crescita economica si ha con la riduzione delle tutele del lavoro. Con l’aumento delle forme di lavoro flessibile – causa della precarietà, ora peggiorata col “lavoro agile” e le “partite Iva” – diminuisce la sindacalizzazione: i precari, è ovvio, non s’iscrivono al sindacato! Sicché il sindacalismo nazionale e confederale perde d’autorevolezza e il contratto nazionale viene svuotato della sua funzione costituzionale. Un’operazione culminata nel mostro giuridico dell’art. 8 del d. 148/2011, col titolo di “contrattazione di prossimità”. Con questa si consentono ai contratti aziendali deroghe peggiorative dei contratti nazionali e persino delle leggi di tutela dei lavoratori. Così nell’azienda il datore di lavoro può scegliersi surrettiziamente l’interlocutore sindacale privilegiato e costruirsi una sorta di diritto del lavoro “domestico”. La legittimità di tale norma potrebbe essere negata se la Consulta si ponesse nel filone della sua sentenza 231 del 2011, che riconosce i diritti sindacali nell’unità produttiva anche al sindacato rappresentativo che però ha rifiutato di trattare e/o di firmare il contratto aziendale. Riconosce cioè il peso di un sindacato confederale, di sicura rappresentatività ma “dissenziente” dalle determinazioni di sindacati non rappresentativi ma firmatari di un contratto aziendale (magari forti della “rappresentanza corporativa aziendale”). La Consulta in sostanza ha rotto così quel flebile legame formalistico, ricavato dal monco art. 19, per cui i diritti sindacali in azienda sarebbero stati consentiti ai “soli” sindacati firmatari di un contratto aziendale. L’esaltazione del “sindacalismo aziendale” peraltro non crea solo diseguaglianze tra i lavoratori ma colpisce pure gl’imprenditori: ovviamente provoca concorrenza sleale tra imprese.
Sulla ricostruzione teorica non incide nemmeno che l’azienda appaia attualmente frammentata (tra esternalizzazioni; rami d’azienda; somministrazioni; appalti e subappalti); e, con essa, sia frammentato, oltre che precario, pure il lavoro. Ciò infatti non rompe il circolo virtuoso, esistente per così dire “in natura”, che lo Statuto ha semplicemente legificato: (a) promozione della libertà del singolo lavoratore d’iscriversi al sindacato e (b) sostegno dell’unità dell’interesse collettivo. Sono requisiti della “maggiore rappresentatività”: che nasce nell’azienda e si proietta nella categoria per poi tornare a rafforzare la rappresentatività aziendale. Nella storia del sindacalismo italiano l’interesse collettivo dei lavoratori si è sempre consolidato per cerchi concentrici: azienda/territorio/categoria nazionale/confederazione. Gioco che prescinde dalla centralità dell’azienda come luogo fisico. Tutt’al più si può dire – come osservato da Edoardo Ghera – che attualmente la piramide appare capovolta: ora l’interesse collettivo, anziché nascere alla base per proiettarsi al vertice, percorre il tragitto inverso.

6.- Posso ora riannodare i fili del discorso e tornare alla configurazione del contratto collettivo: tra diritto comune e diritto costituzionale. Giuridicamente il contratto collettivo non può fare a meno della “rappresentanza civilistica”, conferita dai singoli iscritti col mandato al sindacato stipulante. Ma neppure può fare a meno della “rappresentatività”, che nella strategia politico-sindacale ha un peso notevole al tavolo delle trattative con la controparte. La rappresentanza dipende dalla “quantità” degl’iscritti al sindacato (asse individuale/collettivo), mentre la rappresentatività dipende dalla “qualità” delle scelte di fondo, specie confederali, nella difesa degl’interessi collettivi in una logica non corporativa. Giustamente Treu ha detto che il sistema di relazioni industriali deve dotarsi di “riconoscibilità”, “effettività” e “autorevolezza”. Tratti che danno agli attori (sindacali e imprenditoriali) peso politico reale ma si acquisiscono grazie a una “base” trasversale e diffusa: più aziende e più categorie (asse rappresentanza aziendale/rappresentanza categoriale e confederale). Logicamente il contratto collettivo è la “fonte” delle regole di un efficiente sistema di relazioni industriali. Una fonte che ha le sue radici nell’autonomia collettiva – o se si vuole nell’ordinamento intersindacale – ma ha effetti nell’ordinamento generale. Per il Costituente, infatti, il sindacato nasce come “formazione sociale”, semplice associazione con “soggettività e capacità giuridica” di diritto privato. Poi però lo stesso Costituente va oltre: propone all’associazione (non l’obbligo ma l’onere) di registrarsi per acquistare la “personalità giuridica” (sempre di diritto privato) e porsi così nella condizione di partecipare alla rappresentanza unitaria – in proporzione al numero degli iscritti (rappresentanza civilistica) – legittimata a stipulare il contratto erga omnes. Perciò è l’insieme delle disposizioni dell’art. 39 a fungere da “cerniera costituzionale” tra l’autonomo ordinamento sindacale e l’ordinamento statuale. In sostanza l’art. 39 mira a coniugare “sindacato-movimento” (comma 1) e “sindacato-istituzione” (commi 2, 3 e 4). Di per sé l’associazione sindacale non si trasforma mai in “istituzione” (nel senso pubblicistico del termine). Solo se decide di far parte della “rappresentanza unitaria” – questa sì “istituzione” – per stipulare il contratto erga omnes, deve seguire i dettati del 39. Il legislatore ordinario poi stabilisce specifiche regole di raccordo fra i due ordinamenti nel rispetto delle tappe costituzionali. In ciò dissento da quanti affermano, de iure condendo (come Varesi nella relazione al Convegno) che basterebbe definire per legge il concetto di “sindacato comparativamente più rappresentativo” per assicurare l’efficacia erga omnes del contratto collettivo. In primo luogo non si capiscono i criteri della “comparazione” tra tante sigle sindacali (forse proprio il numero degli iscritti ex co. 4° del 39?). Ma c’è un’altra ragione che taglia la testa al toro: la seconda parte dell’art. 39 contiene un apparato dispositivo – che solo la Costituzione può dettare – sulla produzione di una fonte giuridica extra ordinem rilevante nell’ordinamento statuale. Dunque, giacché per garantire efficacia generale e inderogabilità del contratto collettivo occorre una norma ad hoc, nell’intervenire il legislatore ordinario deve rispettare, in tutto e per tutto, il “corpo unico” dell’art. 39.

7.- Per concludere – siccome il problema urgente non è la “rappresentanza e rappresentatività sindacale” in sé, ma queste in funzione dell’efficacia generale e inderogabile del contratto collettivo – le strade percorribili, entrambe complicate, sono due: (a) l’abrogazione della seconda parte del 39. Oppure (b) l’attuazione di questa seconda parte. a) L’abrogazione pura e semplice delle disposizioni, ovviamente sempre con legge costituzionale, della seconda parte del 39 apre più problemi di quanti ne chiude: lascia soltanto monco e confuso il sistema sindacale. Né risolve alcun problema l’eventuale aggiunta, al 1° comma del 39, di un unico 2° comma, che si limiti a rinviare a una legge ordinaria le regole su rappresentatività sindacale ed efficacia del contratto collettivo. Non mi soffermo sull’irrealistica realizzabilità, nell’attuale fase politica, di una tale “pilatesca” legge costituzionale. Ho appena detto che le disposizioni abrogate non possono non essere sostituite da altrettante disposizioni costituzionali sulla complessa procedura per l’efficacia generale del contratto collettivo. E ripeto che i commi 2, 3 e 4 dell’art. 39 sono regole sulla produzione di una fonte giuridica legittimata a produrre a sua volta norme rilevanti nell’ordinamento statuale; e che di una tale “fonte” solo la Costituzione può stabilire soggetti procedure ed effetti. Non a caso la contrattazione collettiva, proprio per la sua natura, è la sola “fonte” espressamente prevista e regolata dalla Costituzione (accanto alla legislazione statale e regionale e atti equiparati). b) Può sembrare paradossale, ma al momento è più semplice attuare che abrogare la seconda parte del 39: certo attualizzandone la lettura e cogliendone la ratio (anche alla luce dei numerosi documenti prodotti dalle maggiori Confederazioni storiche negli ultimi anni). Del resto appaiono superate le maggiori difficoltà, sempre politiche e non tecniche, che finora ne hanno impedito l’attuazione. Anzitutto, consolidatesi struttura e cultura democratiche, è superato il timore (del primo periodo post-corporativo) di indebite intrusioni dei pubblici poteri nell’autonomia collettiva o di atti comunque lesivi delle libertà sindacali. Politicamente quindi la “registrazione” dei sindacati – considerata la breccia d’ingerenze inappropriate – è più che altro un atto formale. Lo stesso può dirsi dello statuto democratico interno all’associazione. C’è infatti una tale sete di “democrazia sindacale” a largo raggio da far ritenere scontata la democrazia interna al sindacato. La conta degli iscritti non pare più un tabù: in epoca di “social”, “digitale” e “trasparenza”, tutti sanno tutto di tutti; ed è difficile occultare il numero di aderenti a un sindacato. Altrettanto facilmente reperibili sono i bilanci sindacali, di solito tenuti “riservati”: la loro pubblicità fa aumentare credibilità e autorevolezza delle organizzazioni, spesso sospettate di finanziamenti opachi che influenzano scelte strategiche.
8.- Più complicato è forse il problema (politico-sindacale ma pure tecnico-giuridico) della c. d. “perimetrazione” delle categorie contrattuali. Senza dubbio spetta esclusivamente all’autonomia collettiva determinare l’area di applicazione dei diversi contratti collettivi. Specie poi se – a seguito della frammentazione del lavoro e del sorgere di nuove professionalità – dovessero nascere “sindacati di mestiere”, destinati a mutare gli assetti tradizionali della rappresentanza e della contrattazione. D’altronde le più importanti organizzazioni, sia datoriali sia sindacali, da tempo sono interessate a ristrutturare e razionalizzare in autonomia la contrattazione (semplificazione; numero e articolazione di contratti). Un’operazione tanto complessa quanto indispensabile alla normale fisiologia del diritto del lavoro. Essa potrebbe essere agevolata dal Cnel, il quale già svolge l’utile compito di raccolta dei contratti collettivi e d’informazione sull’andamento della contrattazione. Il Presidente Treu, segnalando la solita difficoltà della rappresentanza, ha sorpreso dicendo che essa è più divisa sul versante datoriale che su quello sindacale. Tuttavia è forse più facile ottenere, dai rappresentanti delle diverse categorie produttive presenti nel Cnel, l’adesione unitaria ad appositi “Protocolli” (interconfederali o intercategoriali) sulla determinazione delle “categorie contrattuali”, precondizione di un efficiente sistema di relazioni industriali. Il vantaggio di protocolli in materia sta nel poterli rivedere periodicamente secondo le mutevoli esigenze organizzative della produzione e del lavoro. Tali protocolli potrebbero poi essere recepiti in decreti legislativi – ispirandosi al modello della legge Vigorelli del 1959 – ma senza il rischio d’incorrere nel raggio dispositivo dell’art. 39 Cost.. I protocolli infatti non sono contratti, ma il frutto di una speciale “concertazione”, avvenuta nell’ambito di un Organo di rilevanza costituzionale qual è il Cnel ai sensi dell’art. 99 della Costituzione.

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.