Testo integrale con note e bibliografia

L’economia italiana dopo un anno di pandemia
L’ultimo anno è stato, non solo per l’Italia, uno degli anni più drammatici dal punto di vista economico e sociale. A partire da febbraio 2020, la rapida diffusione della pandemia da Covid-19 ha dato avvio alla più grave crisi della storia recente del nostro Paese e del Vecchio Continente. Per capirne la portata, è sufficiente richiamare alcuni dati.
Nel 2020 tutte le grandi economie europee hanno fatto registrare una pesante recessione, seppur con intensità diverse. Come evidenziato dall’Eurostat, il prodotto interno lordo è crollato del 10,8 per cento in Spagna, del 7,9 in Francia, del 4,8 in Germania, mentre il PIL italiano ha fatto segnare un 8,9 per cento.
Il PIL del nostro Paese è stato trascinato verso il basso dalla caduta della domanda interna e, nonostante la spinta degli incentivi per gli investimenti in tecnologie 4.0, l’impatto del Covid è stato profondo soprattutto sugli investimenti. La crisi generata dalla pandemia, infatti, ha costretto le imprese a rinviare molte scelte di investimento e a rivedere i piani di sviluppo.
Anche le esportazioni, senza dubbio uno dei fattori trainanti dell’economia italiana, hanno subito un duro colpo: -13,8% in un anno.
A dispetto di previsioni che, complice una situazione sanitaria ancora grave, indicavano un inizio 2021 a rilento, l’anno in corso sembra essere partito sotto buoni auspici per il nostro Paese. Tra gennaio e marzo il PIL è aumentato rispetto al trimestre precedente, seppur solo dello 0,1%.
Il segnale importante non sta tanto nell’intensità di questa variazione positiva, beninteso, quanto nel fatto che, per una volta, il prodotto interno lordo italiano fa meglio della media della zona euro (-0,3% nel trimestre), ma anche di Germania, Spagna e Francia che, nello stesso periodo, hanno visto una contrazione rispettivamente dell’1,8, dello 0,5 e dello 0,1 per cento.
Volendo completare il quadro sull’andamento dell’economia, è utile dare uno sguardo alle previsioni di ripresa. Si scopre così che tutti le maggiori istituzioni, da Commissione europea e OCSE, a Banca d’Italia, Istat e Centro Studi di Confindustria, stanno rivedendo al rialzo le stime sul PIL italiano, prevedendo una crescita ben superiore al 4 per cento nei prossimi due anni (e, anzi, più vicina al 5 per cento per l’anno in corso).
D’altra parte, alcune componenti della nostra economia mostrano chiari segni di vitalità. Le previsioni del Centro Studi di Confindustria già a marzo prospettavano che nel 2021 gli investimenti fissi nel nostro Paese potrebbero recuperare quasi tutta la perdita dello scorso anno. A ciò si aggiunge, poi, il commercio mondiale che, nonostante le incertezze nelle forniture e nei prezzi, appare in decisa ripresa, avvantaggiando anche le nostre esportazioni.
Nello specifico, è l’industria a dimostrarsi reattiva in questi ultimi mesi, ma cominciano a vedersi i primi segnali positivi anche nel settore dei servizi, duramente colpito dall’emergenza pandemica. Si tratta, quindi, di una ripresa ancora eterogenea dal punto di vista dei settori economici, che nei prossimi mesi va consolidata.
Tutti questi tasselli compongono il quadro di un’Italia sulla strada della ripresa economica, a tassi di crescita storicamente elevati per la nostra economia. Tuttavia, è bene qui specificare che non possiamo certo parlare di “crescita economica” ma, appunto, di un recupero, dato che a fine 2022 l’economia italiana avrà a stento chiuso il profondo gap aperto dalla pandemia.
Non è da tralasciare, infine, che tali previsioni sono caratterizzate ancora da un elevato grado di incertezza, poiché dipendono dall’avanzamento della vaccinazione di massa, l’unico vero strumento per superare definitivamente la pandemia e tornare alla normalità, e dalla capacità di impiegare intelligentemente le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

Il PNRR come occasione di ripartenza
L’organizzazione del piano vaccinale e le valutazioni scientifiche sull’efficacia dei vaccini nel contrastare le varianti del virus sono gli argomenti al centro il dibattito pubblico di questi giorni. Accanto a questi, l’altro tema chiave per l’agenda dei prossimi mesi è l’implementazione del piano NextGenerationEU per rimettere rapidamente in moto le economie europee.
«L’Europa si farà attraverso le crisi, e sarà costituita dalla sommatoria delle soluzioni che saranno date a queste crisi», scrisse nel 1976 Jean Monnet. Una delle novità più rilevanti ereditate, sul fronte politico, da questa crisi è appunto la risposta dell’Unione Europea, che, diversamente dal passato, ha messo in campo una risposta straordinaria, costituita dal piano NextGenerationEU.
Si tratta di un ammontare di risorse pari a 750 miliardi di euro: siamo, dunque, ancora lontani dai livelli di risorse stanziate dal governo federale statunitense (1.900 miliardi di dollari solo nel pacchetto di stimolo approvato dall’Amministrazione Biden a marzo scorso), ma il NextGenerationEU rappresenta comunque un passo avanti verso una maggiore integrazione delle politiche economiche tra gli Stati membri dell’Unione europea.
Le risorse assegnate al nostro Paese ammontano a quasi 200 miliardi di euro, ai quali il Governo ha aggiunto ulteriori 30 miliardi di fondi nazionali. Con la recente approvazione da parte della Commissione europea del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) del nostro Paese, l’Italia dovrebbe ricevere i primi 25 miliardi già nel corso delle prossime settimane, tra luglio e agosto.
A questo proposito, è bene ricordare che per accedere queste risorse, i governi hanno dovuto individuare non solo i progetti da finanziare ma anche la loro programmazione temporale e gli obiettivi economici che tali interventi possono generare. Tutto ciò in base al principio per cui l’erogazione finale delle risorse avviene solo se anche gli obiettivi vengono raggiunti.
La rilevanza di NextGenerationEU e del PNRR, dunque, non sta soltanto nelle ingenti risorse a disposizione, ma soprattutto nell’imporre la necessità di ben progettare, valutare e realizzare i progetti in tempi definiti. In questo senso, si tratta di una vera e propria sfida per il nostro Paese.
Dato lo storico deficit di capacità amministrativa e la conflittualità tra i diversi livelli di governo che caratterizzano il nostro sistema istituzionale, la sfida non è banale. Dal modello di governance che accompagnerà l’attuazione del Piano dipenderà il suo successo.
In particolare, è necessaria una interlocuzione continua tra gli attori economico-sociali, sia pubblici che privati, e il coinvolgimento degli enti territoriali. Abbiamo bisogno delle migliori professionalità selezionate nelle singole amministrazioni e di processi efficienti di coordinamento e monitoraggio a livello centrale.
I primi provvedimenti presi dal Governo, in effetti, incidono positivamente su alcuni di questi nodi e centrano determinati obiettivi di razionalizzazione normativa, disegnando una governance del PNRR efficiente, rafforzando la capacità amministrativa in settori ad alta complessità tecnica e prevedendo procedure ad hoc per alcune opere strategiche. In altre parole, si avvia un processo riformatore che, ancorché derivato dal PNRR, potrà contribuire a innovare l’ordinamento a regime.
Per comprendere appieno la sfida che attende, in particolare, il nostro Paese, occorre considerare ulteriori tre aspetti.
Primo. Come detto, la contrazione economica registrata nel 2020 è stata molto forte: il -8,9 per cento di PIL fatto registrare nel 2020 costituisce un record negativo nella storia del nostro Paese. Ciò nondimeno, tale crollo è intervenuto in una fase di complessiva debolezza della nostra economia.
Va ricordato, volgendo lo sguardo indietro all’ultimo decennio, che l’Italia ha fatto registrare un andamento del PIL sempre inferiore alla media europea. Tant’è che la nostra era l'unica grande economia a non essere ancora tornata ai livelli di ricchezza precedenti alla crisi finanziaria del 2008.
Questo dimostra la presenza nel nostro sistema di alcune criticità mai risolte: in materia di giustizia, ad esempio, è cruciale velocizzare la macchina giudiziaria, anche implementando soluzioni digitali; in materia fiscale, è necessaria una riforma complessiva, improntata alla semplificazione, ad una maggiore equità nel prelievo e a un approccio efficace nel contrasto all’evasione fiscale; in tema di capacità amministrativa, come detto, vi è la necessità di innalzare i livelli di produttività delle nostre PA.
Secondo. Le regole e gli schemi con cui finora abbiamo guardato e analizzato l'economia stanno cambiando.
Il progresso tecnologico e la rivoluzione digitale hanno raggiunto una qualità nuova, mai sperimentata in passato. Le tecnologie, sempre più veloci e sempre meno costose, da una parte, e i software, sempre più sofisticati e adattabili, dall’altra, stanno facendo al lavoro della mente umana quello che il motore a vapore ha fatto al lavoro delle braccia, per di più a una velocità maggiore.
In concreto, la tecnologia ha le potenzialità di aprire la strada a nuove occupazioni, più intense da un punto di vista cognitivo e quindi più gratificanti, e di creare migliori condizioni di lavoro, in termini di bilanciamento con la vita privata e di salute e sicurezza. Da un punto di vista più macro, poi, la tecnologia ha le potenzialità di rendere i sistemi economici più resilienti a shock inaspettati e sostenibili dal punto di vista ambientale.
L’obiettivo, dunque, non può che essere rispondere a queste spinte innovative e fare in modo che il nostro sistema economico sia pronto a gestire i cambiamenti, favorendo gli investimenti, l’acquisizione di competenze nuove e sempre aggiornate e, in ultima analisi, le transizioni verso i nuovi modelli produttivi.
Terzo. L’emergenza sanitaria ha rappresentato uno spartiacque, in particolare per quanto riguarda il mondo del lavoro, avendo certamente accelerato tendenze già in atto (si pensi alla diffusione dello smart working) ma soprattutto mettendo in luce problemi non più trascurabili sul lato delle politiche per il lavoro.

La centralità delle competenze e (delle politiche) del lavoro
I dati brevemente riepilogati all’inizio danno un’idea dell’entità della crisi scoppiata nel 2020. C’è, tuttavia, ancora un aspetto da citare, che, fuori dalle considerazioni – quasi “contabili” – su PIL, investimenti ed esportazioni, dà il senso dell’impatto diretto della pandemia sul tessuto sociale. Si tratta, chiaramente, del mercato del lavoro, sulle cui dinamiche la crisi sanitaria ha inciso in maniera profonda, nonostante i numerosi provvedimenti di sostegno adottati.
La pandemia, infatti, ha determinato un calo dell’occupazione senza precedenti. Secondo l’ultimo aggiornamento dell’Istat, il tasso di occupazione a maggio scorso è intorno al 57 per cento: si tratta di una diminuzione nell’ordine di circa 2 punti percentuali rispetto al pre-pandemia che ci riporta, sostanzialmente, ai livelli di inizio 2016.
Per avere ancora meglio contezza di quanto accaduto, al termine dell’anno della pandemia, da febbraio 2020 a febbraio 2021, si contano 900 mila occupati in meno. Un calo che ha quasi del tutto cancellato la crescita dell’occupazione che avevamo avuto ininterrottamente dal 2013 al 2019 (anche se con intensità in calo negli ultimi anni): sei anni consecutivi in cui gli occupati erano aumentati di oltre 1,1 milioni.
Solo a partire dalla primavera di quest’anno, con i primi segnali di ripresa economica, l’occupazione ha cominciato a puntare verso l’alto. Nei primi mesi del 2021, infatti, si segnala un piccolo “rimbalzo” (si registrano 180 mila occupati in più a maggio rispetto al minimo di gennaio scorso), tutto trainato dalla componente dei dipendenti a termine (+300 mila tra gennaio e maggio), tradizionalmente quella più reattiva al ciclo economico. Nei mesi a venire è su questa componente che è più probabile che si concentreranno i guadagni in termini di posizioni lavorative.
In questo contesto, se si vuole davvero accompagnare la ripresa, è necessario cominciare a ragionare non più in termini emergenziali bensì progettando misure strutturali, a partire da una chiara indicazione delle tappe della riforma degli ammortizzatori sociali, più volte sollecitata da Confindustria.
Una riforma che Confindustria auspica per chiudere una fase in cui, seguendo una strategia prettamente conservativa, con il blocco dei licenziamenti, si è scommesso in modo azzardato sul fatto che tutto sarebbe ritornato istantaneamente come prima.
Invece, il mercato del lavoro va curato giorno per giorno e, in questo senso, sin dal maggio 2020 abbiamo avanzato proposte per immaginare diversi step per uscire dalla crisi, affrontando quelle che sono, a nostro avviso, due priorità.
In primo luogo, dobbiamo curare i meccanismi mercato del lavoro, prevedendo chiaramente delle tutele per le situazioni di bisogno, ma senza ingessarlo. In questo senso, uno dei primi interventi riguarda i contratti a termine.
Tutte le più importanti istituzioni, nazionali e internazionali, che si occupano di previsioni economiche concordano nel dire che il triennio 2021-2023 sarà cruciale per consolidare un ciclo economico che consenta di recuperare le perdite causate dalla crisi pandemica.
Poiché, come si nota dai dati di questi primi mesi del 2021, è il lavoro a termine a guidare la ripresa occupazionale, diventa essenziale stemperare le rigide regole sui contratti a termine, in particolare sulle causali, caratterizzate da un campo di applicazione estremamente limitato. L’idea è quella di dare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare ulteriori causali rispetto a quelle previste dalla legge, in modo da rispondere in maniera puntuale alle esigenze dei singoli settori e delle singole aziende.
In secondo luogo, dobbiamo occuparci non più solo della difesa dell’esistente, attraverso strumenti come la cassa integrazione e il divieto generalizzato di licenziamento, ma favorire anche l’avviamento di nuove imprese, la creazione di nuovi posti di lavoro e le transizioni occupazionali verso i settori più avanzati e in crescita. In questo modo si migliorerebbe l’allocazione dei fattori produttivi, con un impatto positivo su quello che è l’altro grande “male” della nostra economia, ovvero la produttività.
Siamo di fronte a un contesto di partenza non semplice. Abbiamo già evidenziato, in diverse occasioni, che la quasi totalità delle risorse che lo Stato spende annualmente per le politiche del lavoro sono destinate alle misure passive di sostegno al reddito. Tali misure hanno, sì, rappresentato una “diga” a difesa dell’economia nei momenti di crisi più grave, ora però serve un deciso cambio di passo verso le politiche attive.
La vera svolta potrà avvenire, dunque, solo riequilibrando complessivamente il sistema di politiche del lavoro. Non è più sufficiente tutelare i singoli posti di lavoro; bisogna concentrarsi sulle politiche per l’occupabilità dei lavoratori, in primis attraverso la formazione.
Diventa, quindi, urgente intervenire sui processi per gestire le crisi, ma anche accompagnare i percorsi di rinnovamento aziendale, le transizioni occupazionali e la ripresa economica. Dobbiamo potenziare gli strumenti utili a riattivare al lavoro gli individui scoraggiati e a riqualificare chi è impiegato in un settore in difficoltà.
Finora l’unica forma di transizione nel mercato del lavoro che, nel nostro Paese, sembriamo capaci di gestire è quella verso forme di pensionamento anticipato. È necessario, invece, un riequilibrio complessivo del sistema, affinché, anche attraverso l’occasione storica del NextGenerationEU, siamo in grado di governare le transizioni verso l’economia verde e la digitalizzazione.
Non partiamo da zero. Bisogna proseguire sulla strada del potenziamento di strumenti quali l’assegno di ricollocazione e il contratto di espansione e dare più peso alle politiche attive e alla formazione.
In conclusione, non si può tralasciare quello che da molti è indicato come il tema dei prossimi anni, ovvero le disuguaglianze tra generi, tra generazioni, tra territori, tra conoscenze (in particolare, digitali) e tra competenze. Sono cinque dimensioni di uno stesso fenomeno, la disuguaglianza, che, con differente intensità, caratterizzano la nostra economia.
Non esiste una risposta semplice a una questione complessa come quella delle disuguaglianze. Tuttavia, a guardar bene, le cinque dimensioni citate sono tra loro interdipendenti: la radice delle disuguaglianze tra generi, generazioni e territori sta, infatti, nelle disuguaglianze di conoscenze e competenze. Abbiamo il record di NEET in Europa (2 milioni), con un ascensore sociale bloccato per le fasce deboli; una disoccupazione giovanile stabile al 30%, e anche più alta al Sud; un numero insufficiente di ragazzi e, soprattutto, ragazze con la laurea (in particolare STEM) o un diploma ITS, considerando l’ossatura manifatturiera del nostro sistema produttivo.
La strada, quindi, non può che essere quella di occuparsi del tema del capitale umano.
Sulla base di questa analisi, Confindustria ha definito tre progetti, presentati al Governo, che rispondono a specifiche esigenze di investimento sul nostro capitale umano e aiutano a contrastare il forte mismatch tra domanda e offerta di competenze, specie tecniche, che limita lo sviluppo e la diffusione di competenze 4.0 nelle imprese italiane.
Il primo livello su cui bisogna incidere è senz’altro la scuola media, l’anello più debole del sistema. Per accompagnare le scelte che a questo livello ragazzi e ragazze fanno sui successivi percorsi formativi, è centrale la creazione in tutte le scuole medie italiane di spazi per l’orientamento scolastico, gli STEAM Space: aule ipertecnologiche, fisico-digitali, in cui approcciare la bellezza di materie come la scienza, la tecnologia, la matematica, l’arte.
In secondo luogo, per la scuola superiore, miriamo a diffondere, attraverso una riforma puntuale, la filiera alternanza-apprendistato, come strumento principe per il trasferimento di competenze e l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro.
Infine, il “post-diploma” e in particolare gli ITS, perché abbiamo assoluta necessità di una filiera terziaria professionalizzante funzionante e diffusa sul territorio. Dobbiamo semplificare la Governance degli ITS, stabilizzare i finanziamenti, regolare le collaborazioni tra ITS e Università (specie nell’assorbimento negli ITS dell’abbandono universitario), incentivare la partecipazione delle imprese.

In conclusione, NextGenerationEU e la sua declinazione nazionale costituita dal PNRR assumono, allo stesso tempo, le vesti di importante atto politico di livello europeo, come passo verso una maggiore integrazione; di irripetibile occasione per attuare riforme non più rinviabili, a partire da giustizia, fisco e PA, per l’ammodernamento del nostro Paese; di grande opportunità per investire nelle competenze e nel lavoro di qualità.
Si tratta di creare le condizioni per continuare a competere come Paese in un mondo che, fuori dalla tragica parentesi della pandemia, rimarrà comunque un mondo globalizzato. Insomma, la direzione da seguire non può che essere quella dello sviluppo di un modello sociale più dinamico, in cui, guardando anche alle migliori esperienze europee, diventi centrale l’occupabilità delle persone, elemento determinante per lo sviluppo di una società davvero inclusiva, solidale e moderna.

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.