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1. È un vero piacere ritrovarsi in una compagnia che per ragione della ragguardevole età ha assistito al varo dello Statuto dei lavoratori, in quel lontano 1970, che ha influenzato tutta la nostra produzione scientifica, restando con la immagine indelebile fissa nella nostra memoria. No, non avremmo voluto che al pari di noi invecchiasse, ma è stato così, sì da esserci oggi restituito ancora circondato da un alone magico, ma come un guscio almeno parzialmente svuotato dall’accelerato mutamento della realtà produttiva ed occupazionale di riferimento.
Se ne ha una chiara impressione se consideriamo la sorte dei suoi tre articoli più rappresentativi, il 18, il 19, il 28. Lasciando stare l’art. 18, ultimo bastione sopravvissuto per lungo tempo, fino a subire una progressiva riduzione dalla legge Fornero al Jobs Act, vorrei dire qualche parola sugli altri due, che sono quelli rilevanti in questa sede.
Per l’art. 19 bisogna ripartire dal referendum abrogativo del 1995, che ha soppresso la lett. a), con ciò cancellando la stessa ratio della politica promozionale iscritta nel titolo III ispirata com’era alla individuazione di confederazioni capaci di aggregare la mobilitazione di base, per accrescere la loro forza di interlocutrici del Governo con riguardo alla politica economica e le grandi riforme, di fatto, sotto la formula astratta di maggiormente rappresentative, Cgil, Cisl, Uil; e ha espunto dalla lett. b) l’espressione “nazionali e provinciali”, sì da legittimare anche i contratti aziendali.
L’espressione “confederazioni maggiormente rappresentative” è sostituita, nella successiva normativa, da “associazioni o organizzazioni comparativamente più rappresentative”, ponendo una serie di problemi, anzitutto quello della fine di una rappresentatività derivante dall’affiliazione alle suddette confederazioni a favore di una rappresentatività acquisita direttamente dalle federazioni affiliate. Ma, poi, come ha giustamente rilevato il prof. Varesi, la nuova formula comporta un doppio giudizio, quello dell’esistenza della rappresentatività e quello della scelta della rappresentatività comparata. Non senza un duplice limite, anzitutto, perché la Corte costituzionale, a suo tempo, aveva dato via libera alla maggiore rappresentatività proprio perché non comparata, ma assoluta, tale da poter essere acquisita da più di una confederazione; mentre la rappresentatività comparata è proprio frutto di una selezione cardinale, senza, peraltro precisare dove debba fermarsi, prima, seconda, terza; d’altronde la legislazione successiva non dà affatto per scontato che siano più, sempre avendo in mente le tre big, Cgil, Cisl, Uil, con una variante nella preposizione, di per sé ambigua, cioè tale da non lasciar capire se consapevole o scappata fuori della penna, oscillante com’è fra “da” e “dalle”. Cosa non poco rilevante, perché ricorrente nella contrattazione delegata, quella, come ben noto, che vede la legge rinviare alla stessa contrattazione in funzione di supplenza, integrazione, modifica, con una conseguente ricaduta sulla sua efficacia.
Ancor più complicata riesce la vicenda della lett. b), così come sopravvissuta all’abrogazione referendaria, che ha conosciuto una evoluzione nella lettura offertane dalla Corte costituzionale, fino ad una sentenza manipolativa, che, in piena discontinuità rispetto alla sua precedente giurisprudenza, riteneva sufficiente l’aver partecipato attivamente alle trattative, senza necessità di sottoscrivere la bozza finale. Questo, però, non risolveva il problema dell’accreditamento effettuato dalla controparte datoriale, perché poteva ancora realizzarsi nell’ammissione alle trattative, eccezion fatta a livello aziendale per le associazioni firmatarie del contratto collettivo nazionale, che avrebbero dovuto essere convocate in forza delle clausole di rinvio. Cosa di cui la stessa Corte pare essere consapevole, con quella apertura rinvenibile nella motivazione, ambiguamente collocata fra lo ius conditum e lo ius condendum, per cui rileverebbe come criterio di legittimazione anche la sola rappresentatività effettiva, declinabile in più di una versione.
La parola passava necessariamente alla legge. Qui occorre distinguere, come ha fatto lo Statuto fra legittimazione, da un lato, a costituire rappresentanze sindacali, plurime o unitarie a livello aziendale e, rispettivamente, legittimazione a concludere contratti con efficacia generale. Per la prima legittimazione, comunque la si inquadri, con l’iniziativa rimessa anche ad associazioni/organizzazioni individuate in base ad una rappresentatività esterna quantitativa/qualitativa, la parola finale almeno circa la sua composizione la devono dire i lavoratori; dall’altro, a sottoscrivere contratti con efficacia generale. A quest’ultimo riguardo mi sembra si sia invertita una pluridecennale conquista dottrinale e giurisprudenziale, per cui a prevalere era il primo comma dell’art. 39 Cost., con una interpretazione della libertà di organizzazione sindacale a tutto tondo, tanto da rendere inattuabile l’art. 39, ultimo comma, perché basato su una perimetrazione preventiva della categoria contrattuale. Ora, invece, si vorrebbe annullare quella conquista, certo non attuando né cancellando i commi 2 ss.: attuarli significherebbe eliminare il sistema sindacale di fatto, considerato compatibile con il testo fondamentale dallo stesso Giudice delle leggi; cancellarlo è ormai da tempo oltre il limite del possibile, essendo incastonato in quella Parte prima che non si è volutamente assolutamente toccare nei recenti tentativi di rivedere il testo costituzionale. No, si tenta di ridimensionare la portata del primo comma dell’art. 39 Cost., per dare spazio ad una perimetrazione della categoria contrattuale, rimettendola non all’amministrazione, ma alla concertazione fra Confederazioni dotate della rappresentatività qualificata richiesta dalla legge, sulla traccia della soluzione introdotta nell’impiego pubblico privatizzato. Certo affrontando la questione frontalmente ma lateralmente, non senza una tolleranza ambigua da parte della Corte costituzionale, con una doppia operazione: riservare la c.d. contrattazione delegata e la determinazione dei trattamenti da rispettare per lucrare dei benefici di legge, ben oltre i trattamenti retributivi minimi ex art. 36 Cost., alle sole organizzazioni/associazioni comparativamente più rappresentative.
Ovviamente il problema della predeterminazione della categoria non sembra esistere per la contrattazione aziendale, che, da un lato, avrebbe una categoria predeterminata e, dall’altro non sarebbe non prevista dall’art. 39, ultimo comma. Ma è ancora dominante nella giurisprudenza, tranne poche aperture con riguardo al contratto gestionale, la tesi per cui anche il contratto aziendale non vincoli i lavoratori iscritti ad un sindacato non firmatario che si dichiarino dissenzienti. Da ultimo, in questo senso si muove la recente giurisprudenza che, appellandosi alla discriminazione per “convinzioni personali”, ha bypassato l’art. 28 Stat. Lav., creando un canale aperto a tutti gli iscritti all’albo presso il Ministero del lavoro, con un ammorbidimento dell’onere della prova; canale utilizzato anche per dichiarare nullo ogni comportamento, diretto e indiretto, che intendesse dissuadere o sanzionare un lavoratore dissenziente rispetto ad un contratto non firmato dal suo sindacato.

2. C’è ben dell’altro che rende almeno parzialmente anacronistico il Titolo III dello Statuto, cioè il mutamento del mondo produttivo e occupazionale su cui era stato costruito, caratterizzato dal prevalere del lavoro a tempo indeterminato e tempo pieno, con un preciso profilo spazio-temporale. Il movimento sindacale confederale si è speso nella ostinata difesa dell’intera disciplina della subordinazione anche oltre la fattispecie tipica offerta dall’art. 2094 c.c. Il legislatore l’ha seguito ricollegando a fattispecie diverse come l’etero-organizzazione o il lavoro agile eseguito in forza del patto allegato, tale disciplina, senza farsi carico del fatto che era stata costruita a stretta misura di quella fattispecie per quanto dilatata dalla dottrina e dalla giurisprudenza. A scalare la parte relativa all’esercizio dei poteri tipici dell’etero-direzione, ci ha pensato, per l’etero-organizzazione, l’interprete, senza, però, venirne a capo in maniera persuasiva; per il lavoro agile, in vigenza dell’apposito patto, lo stesso legislatore, rimettendo all’accordo fra datore e lavoratore le forme del potere direttivo e di controllo, nonché la previsione delle sanzioni disciplinari.
Esemplare è la vicenda dei rider. A prescindere qui dalla difficile lettura di quanto li riguarda nel d.lgs. n. 81/2015, così come rivisto nel 2019, a fronte del tentativo di farne una fattispecie autonoma, affidata largamente alla contrattazione collettiva, in grado di selezionare e adattare la disciplina della subordinazione a loro misura; a fronte di tutto questo c’è stata l’ostinazione sindacale a riportarli sotto il contratto della logistica, casomai con una integrazione a livello aziendale.

3. Secondo un detto i giovani si lamentano di quello che hanno perduto, i vecchi si consolano con quello che hanno avuto. Allora, noi che paghiamo cogli anni l’essere stati presenti allora, non possiamo che rallegrarci di aver vissuto quella splendida stagione, dove si trattava di rendere onore ai maestri che l’avevano redatto e commentato per primi, contribuendo a costruire un diritto del lavoro “costituzionalizzato”, passato alla storia come il “diritto classico del lavoro”.

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