Testo integrale con note e bibliografia

Introduzione
Per diversi osservatori l’emergenza Covid-19 ha messo in discussione alcuni aspetti chiave su cui si è basato nel dopoguerra lo sviluppo della globalizzazione. Primo fra tutti che la libertà degli scambi possa assicurare una crescita economica duratura e un pacifico sviluppo delle relazioni fra paesi. Quando l’irrompere di una epidemia mette a rischio forniture vitali per una comunità – come sono quelle alimentari, mediche e tecnologiche – è difficile non sorgano dubbi sul sistema che ha portato a tale situazione. La proposta di riportare in patria le produzioni che le imprese avevano in precedenza delocalizzato oltre frontiera – il cosiddetto reshoring – può dunque sembrare una strategia politica convincente. Allo stesso tempo, le decisioni da parte di alcune imprese multinazionali di chiudere in modo improvviso e immotivato le filiali produttive in Italia, licenziando in tronco centinaia di lavoratori, ha messo in luce la parte più cinica e irresponsabile della globalizzazione. Può così sembrare plausibile l’osservazione di una generale inversione di tendenza nei processi di apertura internazionale che avevano segnato gli ultimi 40 anni, e il conseguente tentativo di fissare regole più stringenti agli scambi commerciali e ai movimenti di capitale, oltre che ai processi migratori. Se non un vero e proprio ritorno al nazionalismo economico, la lunga marcia della globalizzazione sembra quanto meno aver subìto un brusco arresto.
Ci sono tuttavia diverse questioni che un’analisi sulle reali tendenze della globalizzazione deve considerare e che proprio la pandemia in corso aiuta a mettere in luce. Innanzitutto i costi economici di una ritirata dal commercio internazionale e gli effetti redistributivi di tale processo, che tendono a penalizzare le categorie più sensibili all’aumento dei prezzi: la crescita dell’inflazione registrata nel corso del 2021 è del resto un primo e preoccupante segnale dei costi generati dal rallentamento delle catene globali di fornitura. In secondo luogo la reale consistenza, fattibilità e, soprattutto, l’efficacia dei processi di reshoring rispetto l’obiettivo di maggiore sicurezza delle forniture, così come anche di difesa dell’occupazione. Ma soprattutto è necessario considerare l’impatto a medio termine delle tecnologie digitali sulle nuove forme di apertura internazionale, considerata la straordinaria accelerazione che proprio l’emergenza Covid-19 ha impresso alla loro diffusione nelle imprese e fra i consumatori. Il concetto di “globotica” introdotto da Richard Baldwin per esprimere l’integrazione fra globalizzazione e robotica indica, in realtà, un fenomeno di portata molto più dirompente rispetto al recente passato (Baldwin 2019). In tale prospettiva, le tradizionali forme di delocalizzazione tendono a essere sostituite non solo, e non tanto, da processi di reshoring, ma da un più radicale ridisegno della geografia della produzione e del lavoro. Su questo ridisegno la politica economica, industriale e commerciale può tuttavia svolgere un ruolo importante, introducendo obiettivi di sostenibilità e inclusione finora poco o nulla considerati. La crisi globale creata dal Coronavirus costituisce, perciò, una straordinaria occasione per guardare al funzionamento dell’economia internazionale e cercare di correggerne gli eccessi, senza tuttavia perdere di vista la sua importanza nell’assicurare sviluppo, prosperità e relazioni pacifiche fra paesi.
Di seguito prenderemo innanzitutto in esame il cambiamento nelle forme di integrazione economica internazionale, focalizzando l’attenzione soprattutto sulle catene globali del valore (GVC), che hanno contraddistinto i processi di delocalizzazione produttiva a partire dagli anni ’80 del XX secolo, e che nell’ultimo decennio hanno tuttavia dato segnali di rallentamento. Il passaggio successivo è analizzare il ruolo delle tecnologie digitali di ultima generazione nell’evoluzione dei modelli di global business e nel ridisegno della geografia della produzione. Infine concentreremo l’attenzione sulle politiche di regolazione della delocalizzazione produttiva, politiche la cui efficacia non può prescindere dalle trasformazioni industriali e tecnologiche che, anche a causa della pandemia, stanno modificando lo scenario economico.

Cambiamento delle forme di integrazione economica
Dalla seconda metà dell’800 ai primi tre decenni del secondo dopoguerra il commercio internazionale si è principalmente basato sullo scambio di materie prime e beni finali la cui produzione avveniva in gran parte all’interno dei sistemi industriali nazionali. In questa prima fase della globalizzazione tende dunque a prevalere una forma tradizionale di commercio internazionale: ad essere scambiati sono prodotti realizzati in un paese per essere venduti a consumatori o imprese di un altro paese. Perciò, mentre i beni commerciabili sono per definizione “mobili” fra paesi, i fattori che concorrono a tale produzione – capitale e lavoro – rimangono, invece, “immobili”, o comunque con maggiore difficoltà di essere trasferiti da un’economia all’altra.
Ricordiamo che la commerciabilità di un bene è in relazione ai costi di transazione internazionale, ovvero della somma di costi aggiuntivi di trasporto, tariffe e informazioni, oltre al rischio di cambio, che un’impresa deve sostenere per vendere su un mercato estero. Un bene è dunque commerciabile – diventa, in altri termini, concorrenziale sui mercati internazionali – se i costi di transazione sono inferiori al differenziale di prezzo fra economie nazionali.
Lo sviluppo del commercio estero è perciò strettamente legato alla riduzione dei costi di transazione internazionale. Infatti, è dalla seconda metà dell’800, quando si avvia la prima fase della globalizzazione commerciale, che migliorano progressivamente i sistemi di trasporto, considerato che nell’arco di un secolo i costi dello shipping si sono ridotti a un quinto, e quelli aerei a un decimo. Allo stesso tempo si sviluppano accordi commerciali e istituzioni multilaterali che contribuiscono ad abbassare le barriere al libero scambio, nonché ridurre il rischio di cambio, com’è avvenuto in particolare nel dopoguerra e poi con l’istituzione del WTO. Un contributo fondamentale alla riduzione dei costi di transazione internazionale arriva infine dalle innovazioni nelle tecnologie di comunicazione, con il risultato che i costi delle chiamate internazionali si sono praticamente azzerati. La crescita storica del commercio mondiale – nel corso del ’900 il valore dell’export globale è aumentato, in termini reali, di 50 volte! – è anche il risultato della caduta di questi vincoli allo scambio (Baldwin 2018).
Dagli anni ‘80 del ‘900 il commercio internazionale tende tuttavia a cambiare natura. Non sono più solo materie prime e beni finali ad essere scambiati, ma sempre più input intermedi che alimentano sistemi transnazionali di produzione. Il fenomeno nuovo è collegato alla possibilità di frammentare la produzione in fasi distinte del processo di creazione del valore e di dislocare ogni fase in una regione dell’economia mondiale in base alle diverse intensità fattoriali. In particolare le fasi a maggiore intensità di lavoro tenderanno ad essere delocalizzate in aree dove questo fattore è più abbondante, dunque anche più economico, mentre rimarranno nelle economie avanzate le fasi più complesse della catena del valore, che dipendono da fattori – capitale umano qualificato, infrastrutture efficienti, istituzioni inclusive – non facilmente trasferibili. La formazione delle GVC è dunque il risultato di questa seconda fase della globalizzazione, favorita dallo sviluppo delle tecnologie di comunicazione, ma anche dai profondi cambiamenti che intervengono nello scenario geopolitico, come la caduta del Muro di Berlino e, ancora prima, la politica Open Door della Cina, che apre agli investimenti delle multinazionali occidentali, creando le condizioni per un poderoso trasferimento di capacità produttiva e know-how verso l’Asia.

Delocalizzazione, ri-localizzazione e catene globali del valore
Per misurare lo sviluppo delle GVC possiamo considerare tre indicatori. Il primo è rappresentato dallo stock degli investimenti diretti esteri (IDE), che consente di catturare il valore degli asset detenuti all’estero da gruppi multinazionali. In base ai dati Unctad (2021) questo valore era circa 2 trilioni di dollari nel 1990 per crescere fino agli attuali 32 trilioni. La quota in rapporto al Pil mondiale è passata da poco più del 10% nei primi anni ’90 al 35% attuale. Nel corso degli ultimi anni i flussi di IDE hanno mostrato un rallentamento a livello globale, più rilevante nei paesi a maggiore sviluppo, mentre hanno continuato a crescere nelle economie emergenti, oggi destinatarie di oltre la metà degli IDE totali. Nel primo semestre 2020, in corrispondenza della prima ondata Covid-19, i flussi di IDE hanno subito una forte contrazione, ma già nel 2021 la ripresa è stata consistente, soprattutto nelle operazioni M&A (Unctad 2021).
Il secondo indicatore è la quota dei beni intermedi scambiati nel commercio internazionale. Questa misura cattura in modo ancora più evidente i processi di frammentazione internazionale della produzione in quanto coglie sia le attività più propriamente multinazionali (gli scambi tra filiali all’interno dello stesso gruppo), sia più in generale le reti di fornitura internazionale cui partecipano anche molte piccole e medie imprese. Ebbene tale quota è cresciuta costantemente dagli anni ’80 fino a raggiungere un picco del 60% nel 2008, con un rallentamento negli anni successivi. Tuttavia, com’è stato rilevato attraverso l’analisi di dati specifici relativi ai soli beni intermedi lavorati, il peso sugli scambi totali è tornato a risalire a partire dal 2013, riflettendo il consolidarsi della ripresa produttiva globale (Iapadre et al., 2018).
Il terzo indicatore è invece rappresentato dal valore aggiunto importato che è contenuto nelle esportazioni nazionali. Si tratta di una misura complessa, diventata tuttavia sempre più rilevante con lo sviluppo delle catene globali del valore. In pratica, per ogni bene o servizio esportato da un’economia si può ricostruire l’origine geografica – nazionale o estera – degli input produttivi impiegati nella sua produzione. Tanto più elevato il contenuto estero nel valore aggiunto di un’industria, tanto maggiore sarà il livello di organizzazione (e dipendenza) internazionale della produzione. Anche in questo caso la misura mostra una crescita nel tempo, che per l’industria manifatturiera ha raggiunto a livello globale il 35%, dieci punti in più rispetto alla metà degli anni ’90 (OECD-WTO 2017).
A livello mondiale i prodotti esportati più dipendenti da input produttivi esteri sono quelli dell’industria elettronica e automotive – le cui catene del valore sono più facilmente scomponibili in moduli decentrabili all’estero – mentre lo sono meno le produzioni alimentari, anche perché spesso collegate a un fattore non delocalizzabile, quale la terra. Tuttavia, anche in questo caso il valore aggiunto estero dei beni esportati supera il 20%. Più elevato il contenuto estero nell’export dei prodotti del sistema moda (27%), della meccanica (30%) e dell’industria farmaceutica (32%). Questa misura consente anche di cogliere il grado di apertura internazionale delle produzioni dei diversi paesi. L’Italia si colloca in una posizione intermedia, con un valore complessivo di valore aggiunto estero incorporato nel proprio export del 27%, inferiore di poco a Germania (30%) e Spagna (32%), ma lontano da paesi che funzionano come piattaforme di multinazionali estere, quali Messico (35%), Taiwan (45%), Irlanda (50%).

Resilienza ed evoluzione delle Catene Globali del Valore
Queste misure fanno comunque capire il grado crescente di interdipendenza creata nell’economia globale, frutto di investimenti diretti, organizzazione internazionale e processi di specializzazione e apprendimento tecnico. Difficile perciò ritenere che le GVC possano essere facilmente ricomposte a scala nazionale. Questa scelta presuppone una flessibilità dell’offerta che non riguarda solo la quantità dei fattori, ma competenze, infrastrutture, ecosistemi produttivi. Se infatti nella prima fase dei processi di offshoring le imprese si sono mosse con l’obiettivo di ridurre i costi di produzione, in particolare quello del lavoro, nelle fasi più recenti è stata invece l’efficienza dei cluster industriali cresciuti nelle economie emergenti, soprattutto in estremo oriente, ad attirare investimenti e rapporti di fornitura. Perciò, anche se non sono da escludere processi di reshoring o nearshoring, la dimensione di tali processi è destinata a rimanere limitata.
Il Centro Studi Confindustria indica circa 130 progetti di reshoring all’anno che sarebbero avvenuti a livello globale nel periodo 2011-2015, calati poi negli anni successivi (CSC 2021). Nei primi otto mesi del 2020 il numero aumenta, ma si tiene comunque sotto i cento progetti. Rispetto alla dimensione assunta dalle reti produttive internazionali che abbiamo appena considerato, il fenomeno del reshoring rimane più un’eccezione che la regola.
Questo non esclude possa essere in atto un cambiamento nei processi di offshoring che hanno contraddistinto, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, la seconda fase della globalizzazione. Cambiamento che l’emergenza Covid-19 ha reso ancora più urgente, ma che le cui ragioni di fondo vanno studiate attentamente per le implicazioni che possono avere sui futuri assetti produttivi. Questa conclusione è confermata anche nell’ultimo rapporto WTO sulle Global Value Chain, quando si osserva che, nonostante le evidenti difficoltà create dalla pandemia non ci sono state finora processi generalizzati di reshoring della produzione negli Stati Uniti o in Europa, anche perché non sembra tali processi possano costituire una risposta efficace ai rischi di fornitura emersi in quest’ultimo periodo. (WTO 2021, p. XX).
Tuttavia, guardando in prospettiva sono diversi i motivi che spingono a ripensare le strategie di delocalizzazione produttiva. Innanzitutto è necessario richiamare l’esigenza, da tempo emersa nelle imprese che operano sui mercati più evoluti, di mantenere un controllo diretto sulla produzione, in quanto ci si è accorti che la vicinanza alle operation manifatturiere è una fonte cruciale di apprendimento e innovazione, dunque di creazione di valore. In secondo luogo perché i costi del lavoro nelle economie emergenti non sono più così bassi come un tempo, con l’aggiunta di nuovi costi di transazione internazionale conseguenti alle politiche protezioniste e alle tensioni geo-politiche. Un aspetto cruciale è inoltre l’aumento dell’intensità tecnologica della produzione, che riduce di conseguenza l’intensità di lavoro delle operation manifatturiere, una delle principali ragioni che avevano spinto originariamente l’offshoring (Corò 2018).
Il cambiamento tecnologico pone tuttavia nuovi vincoli in termini di competenze ed economie di scala. Lo conferma una recente ricerca condotta su un campione di imprese europee, che mostra come i progetti di reshoring si accompagnino a due fondamentali scelte strategie delle imprese (Kinkel 2020). La prima è per l’appunto la contestualità con progetti di offshoring, nel senso che il rientro o l’avvicinamento alla base domestica di parti del processo produttivo prima delocalizzate all’estero, avviene all’interno di una strategia che non è affatto una rinuncia alla presenza internazionale, quanto piuttosto parte di una fase più matura e consapevole di organizzazione internazionale della produzione. La seconda è che le imprese che hanno realizzato il reshoring sono anche quelle che presentano una maggiore dotazione tecnologica, in particolare nell’ambito della cosiddetta Industria 4.0. Questo secondo aspetto riduce la probabilità che il rientro delle produzioni si accompagni al ritorno della manodopera precedente. Piuttosto la condizione per il reshoring è la qualità dell’ecosistema produttivo e la disponibilità di capitale umano in grado di governare tecnologie complesse.

Tecnologie digitali e nuovi modelli di internazionalizzazione
Un aspetto rilevante nel cambiamento delle forme di accesso ai mercati internazionali riguarda la trasformazione digitale delle imprese e dei modelli di consumo. Anche in questo caso si tratta di un fenomeno al quale l’emergenza Covid-19 ha impresso una forte accelerazione. L’impatto delle nuove tecnologie sul commercio mondiale è tuttavia ambivalente. Se da un lato lo sviluppo di sistemi di automazione e robotica integrata ha ridotto l’esigenza delle imprese di delocalizzare le fasi a maggior intensità di lavoro, accorciando così alcune catene di fornitura, dall’altro la digitalizzazione ha reso possibile coordinare a distanza i processi produttivi e alcuni servizi, avvicinandoli ai mercati finali (Lund, Manyika, Spence 2019). In questo secondo caso lo sviluppo dell’integrazione internazionale avviene attraverso la crescita di flussi informativi che tendono in parte a sostituirsi ai tradizionali flussi materiali. Paradossalmente, proprio nel decennio in cui rallenta l’interscambio internazionale e frenano gli investimenti diretti esteri, cresce invece di oltre dieci volte il volume di dati scambiati mensilmente da apparati mobili (Bianchi 2020, p. 29).
In altri termini, l’economia sta in realtà impiegando canali di internazionalizzazione diversi dallo scambio di beni finali e intermedi, ovvero le modalità cresciute nelle due precedenti fasi della globalizzazione. Come abbiamo visto, questo fenomeno è legato allo sviluppo e alla diffusione delle tecnologie digitali di ultima generazione definito da Richard Baldwin con il termine “globotica”.
La pandemia ha impresso una straordinaria accelerazione a tali tecnologie, che molte imprese sono state costrette ad adottare per far fronte alle difficoltà di spostamento di persone e cose. Un’indagine condotta da McKinsey nel luglio 2020 su un panel di mille imprese ha stimato che solo nei primi sei mesi della pandemia sono state introdotte innovazioni digitali che, in condizioni normali, avrebbero richiesto fino a sette anni di tempo!
La trasformazione ha riguardato diverse aree e funzioni aziendali: dall’organizzazione dello smart working, all’interazione con i consumatori, alle relazioni con la catena di fornitura, ai servizi di assistenza in remoto, all’introduzione di tecnologie avanzate nelle operations. Anche se l’accelerazione è stata indotta dall’emergenza sanitaria, è importante sottolineare che la maggior parte dei cambiamenti è destinata a rimanere, sia pure in misura diversa, anche dopo che la pandemia sarà superata (McKinsey 2020). Alcune tecnologie digitali adottate per far fronte all’emergenza – software per teleconferenza e telepresenza, training a distanza, piattaforme per collaborazione in remoto, Internet of the Things, Virtual-augmented-mixed realty, Digital twins, sistemi di automazione e robotica – abilitano inoltre un maggiore coordinamento a distanza delle attività produttive, quando non l’integrazione vera e propria delle operations a scala globale. L’impiego di tecnologie blockchain apre nuovi modelli di regolazione degli scambi, assicurando la tracciabilità di processi e componenti in cui si compone la catena del valore. La possibilità di impiegare il Cloud per alcune di queste tecnologie riduce i costi fissi di accesso e abbassa, di conseguenza, le barriere all’entrata anche per le PMI, purché dotate di adeguato capitale umano per gestirne l’uso. Ancora più dirompente per la geografia della produzione saranno gli sviluppi della manifattura additiva (3D printing), che rendono possibile “materializzare” in prossimità dell’utilizzatore un prodotto generato da un flusso di informazioni originate da un luogo remoto. Per quanto alcune di tecnologie siano solo all’inizio, il loro sviluppo tende a seguire una dinamica esponenziale, spinta sia da processi di apprendimento tecnico e sociale, sia da esternalità di rete (Brynjolfsson, McAfee 2014).
Osservando gli effetti della pandemia in questa prospettiva emerge dunque una situazione paradossale: se da un lato, infatti, l’emergenza sanitaria ha messo in crisi le tradizionali catene globali di fornitura, dall’altro sta spingendo imprese e consumatori verso processi di adozione e apprendimento di tecnologie digitali con le quali si sta preparando una nuova e più avanzata fase della globalizzazione. Per le imprese si tratta dunque di prepararsi a questa nuova fase, che porterà a rivedere non solo l’organizzazione della produzione, ma lo stesso modello di creazione del valore sui mercati internazionali. L’export continuerà ovviamente a svolgere un ruolo fondamentale, ma non sarà più la modalità esclusiva per raggiungere i consumatori oltre frontiera. Altri modelli di entrata sui mercati esteri dovranno dunque diventare più familiari anche alle piccole e medie imprese: dai contratti di fornitura, al licencing, alle joint venture, fino agli investimenti diretti.
L’attività produttiva all’estero delle multinazionali italiane appare del resto in gran fermento. Secondo l’ultima rilevazione Istat (dicembre 2021): “Tra il 2020 e il 2021 il 52,5% dei principali gruppi multinazionali italiani dell’industria e dei servizi ha avviato investimenti di controllo all’estero, il 44,1% li ha progettati.” Difficile ricordare momenti di tale intraprendenza internazionale delle imprese italiane, che grazie all’aumento delle attività estere contribuiscono al miglioramento della nostra posizione finanziaria netta, nonostante sia in crescita anche il valore delle passività estere (l’acquisizione di asset nazionali da parte di multinazionali estere che investono in Italia). Perciò, nonostante l’impressione di una tendenza alla de-globalizzazione, le imprese italiane stanno invece sempre più intrecciando i propri destini con basi produttive e commerciali all’estero.
Questi processi sono a loro volta collegati all’innovazione tecnologica. Indagini svolte fra la prima e seconda ondata della pandemia hanno messo in luce come le imprese con maggiori dotazioni di tecnologie Industria 4.0 sono anche quelle che hanno mostrato una maggiore capacità di reazione alla crisi, avendo di fatto maggiori strumenti per mantenere i rapporti con clienti e fornitori, ma anche maggiori capacità di sviluppare nuovi mercati e modelli di business (Corò et al 2020, 2021).

Regolare la nuova fase della globalizzazione
Come è avvenuto in passato, anche l’attuale crisi può diventare l’occasione per definire nuove regole e nuove istituzioni che aprono la strada a una nuova e più avanzata fase dell’economia globale (James 2021). Una fase che deve tuttavia fare i conti con le contraddizioni create in precedenza, cercando invece di favorire uno sviluppo più equo e sostenibile. Forse non è un caso che, dopo decenni di discussioni, sia stato finalmente raggiunto un accordo nel G20 sulla corporate tax per limitare il dumping fiscale praticato dalle multinazionali, in particolare dalle Big Tech. Fondamentale è anche l’orientamento verso il carbon pricing da parte dell’UE. Secondo Nordhaus (2020) questa politica potrebbe essere estesa a un Climate Club formato dalle principali economie mondiali, il cui obiettivo è regolare, attraverso specifiche tariffe alle importazioni, le emissioni di CO2 da parte di paesi terzi. Questo modello pragmatico di relazioni internazionali – definito anche principled plurilateralism (Posen 2021) – potrebbe venire applicato anche ad altri aspetti cruciali per le democrazie, come labour standard e diritti politici.
Nuove regole del commercio internazionale avrebbero evidenti ripercussioni nelle scelte (de)localizzative delle imprese. Ma ci sono anche specifiche politiche fiscali, industriali e dell’impresa cui è necessario guardare.
La politica fiscale è parte essenziale di una strategia di redistribuzione dei costi e dei benefici dell’apertura internazionale. Come ha ben documentato Milanovic (2016, 2019) i guadagni che la globalizzazione ha creato a livello aggregato si sono distribuiti in modo profondamente diseguale nella società, in particolare all’interno delle economie più sviluppate, dove i ceti medi hanno subito un duplice trasferimento di ricchezza relativa: verso i ceti medi delle economie emergenti, in particolare dell’Asia, e verso i ceti più ricchi all’interno delle economie avanzate, che hanno così contribuito ad accrescere i livelli di disuguaglianza. La politica fiscale deve dunque tornare a svolgere quel ruolo fondamentale di riequilibrio economico, senza il quale una democrazia può difficilmente assicurare coesione e pace sociale. I movimenti politici populisti che si sono affermati negli ultimi anni, che hanno alimentato politiche protezioniste e di chiusura verso investimenti esteri e migranti, hanno trovato un terreno fertile proprio nelle profonde disuguaglianze interne alle economie ricche. Un aspetto ancora poco considerato nello sviluppo di questi movimenti è stata la loro forte caratterizzazione territoriale, in quanto i processi di apertura internazionale e, in particolare, di delocalizzazione produttiva sono stati anche da questo punto di vista molto selettivi, premiando le aree urbane e metropolitane più attrezzate per partecipare alla nuova economia globale, e penalizzando per contro regioni manifatturiere e aree periferiche (Rodriguez-Pose 2018). Ciò significa che le politiche fiscali dovranno accompagnarsi a politiche industriali mirate sui territori più colpiti dalle trasformazioni tecnologiche e dalla riorganizzazione internazionale della produzione, favorendo progetti per attrarre investimenti e processi di sviluppo decentrati nei quali un ruolo chiave deve essere svolto dal sistema educativo e dall’istruzione superiore (Bianchi 2020).
Del resto, come ha osservato Richard Baldwin, proprio la rivoluzione globotica tende a far riemerge anche una dimensione più propriamente locale dell’economia. Infatti, se le tecnologie liberano la possibilità di scambiare conoscenze nelle reti globali, i processi di creazione e continuo rinnovamento di queste conoscenze richiedono ecosistemi locali dove condividere idee complesse e sviluppare nuovi progetti grazie anche a linguaggi comuni, relazioni fiduciarie e il collegamento nel territorio con scuole politecniche. In tale contesto la tradizione italiana dei distretti industriali potrebbe tornare a essere un modello interessante, grazie al quale implementare politiche place-sensitive anche in periferia (Buciuni, Corò 2020).
Rimane in ogni caso il problema di regolare le GVC per ridurre il rischio di interrompere le linee di fornitura, specie per alcune produzioni strategiche. Tuttavia chi propone la soluzione del reshoring non considera un fatto importante, e cioè che la vicinanza spaziale del fornitore non elimina il rischio di fornitura. In realtà, la sicurezza dipende soprattutto dalla varietà del pool di fornitori dislocati in aree diverse del mondo, e da un buffer a magazzino che spetta al committente garantirsi. Entrambi queste strategie – diversificazione dei fornitori e maggiori scorte – possono risultare costose e possono andare contro le idee di efficienza e lean production che da anni si insegnano nelle Business School. Tuttavia, come ha mostrato il razionamento di attrezzature e materiali biomedicali vissuto sia nelle fasi più acute dell’emergenza Covid-19, e poi i colli di bottiglia negli approvvigionamenti durante la ripresa dell’ultimo anno, questa idea ristretta di efficienza aziendale tende a esternalizzare i rischi di fornitura, scaricando sui consumatori, quando non su intere comunità, i costi del razionamento. Perciò, senza affatto escludere strategie di reshoring, è opportuno assicurarsi contro il rischio delle forniture strategiche attraverso strategie di ridondanza (O’Neil 2020). Questa assicurazione al rischio accresce la resilienza della filiera, dunque anche il valore economico e finanziario di chi vi partecipa. Certificare la resilienza di filiera – in base alla diversificazione dei fornitori, la loro localizzazione, le scorte disponibili, ecc. – potrebbe perciò diventare una nuova forma di regolazione e governance delle catene globali del valore.
Un tema cruciale nella regolazione della globalizzazione riguarda inoltre la governance dell’impresa. Si potrebbe discutere a lungo sulla consistenza e l’effettiva portata economica dei casi di cosiddetta “delocalizzazione selvaggia”. L’ultima rilevazione Istat su struttura e competitività delle imprese multinazionali ha documentato che, in realtà, tra le controllate estere in Italia il 22,1% aveva in programma un incremento dei livelli di attività per il biennio 2021-2022, il 62,5% un mantenimento della dimensione economica, e solo il 5,3% un ridimensionamento (Istat 2021).
Tuttavia, è indubbio come i casi di delocalizzazione mettano in luce la crescente volatilità degli investimenti produttivi in quella parte crescente dell’economia in cui si riduce il peso del capitale tangibile nelle imprese e tendono, per contro, a prevalere logiche finanziarie di breve periodo (Lazonick, Shin 2020). In Italia il clamore mediatico si è per lo più concentrato nelle filiali di alcune multinazionali estere, ma in realtà si tratta di un fenomeno molto più generale, destinato a diventare ancora più dirompente con l’uscita dalla pandemia, quando l’enorme liquidità parcheggiata nei mercati finanziari, per proteggersi dall’inflazione, fluirà anche verso l’acquisizione di asset aziendali. Il problema sarà allora come creare condizioni di governance aziendale per dare più peso e potere decisionale anche agli altri stakeholder dell’impresa, a partire dai lavoratori, i fornitori e le comunità in cui le imprese operano. Riformare la governance dell’impresa diventa perciò una delle politiche di riforma più importanti per tutelare il lavoro nel capitalismo della conoscenza (Grandori 2010).

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