TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. – L’art. 19 della legge 11 agosto 1973 n. 533 recante la (nuova, per l’epoca) disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie prevedeva che “presso la Corte di cassazione [fosse] istituita una sezione incaricata esclusivamente della trattazione delle controversie di lavoro e di quelle in materia di previdenza e di assistenza”.
La disposizione, contenuta nel testo originario della proposta di legge presentata il 5 luglio 1972 alla Camera dei deputati e rimasta inalterata durante l’esame parlamentare ( ), trovò pronta applicazione con un decreto del Primo Presidente del 5 ottobre 1973, avente decorrenza dal successivo 13 dicembre. Il testo in maniera asciutta prevedeva: “E’ istituita presso la Corte Suprema di Cassazione una Quarta Sezione civile. Essa tratterà esclusivamente i ricorsi in materia di controversie di lavoro e di previdenza ed assistenza” .
L’istituzione della Sezione chiudeva il circolo della riforma del processo del lavoro. La creazione del giudice specializzato di merito non poteva essere disgiunta dal giudice di legittimità, a sua volta chiamato a dare una sistemazione di principi ai caratteri che propriamente la legge assegnava alla riforma del rito (specialità, sinteticità, speditezza) ed una coerente rappresentazione dei valori della tutela del lavoro posti dalla Costituzione, propri della materia lavoristica e previdenziale. A questi intenti si associava l’obiettivo insito nella giustizia di legittimità di assicurare, grazie alla nomofilachia da essa espressa, che quei valori divenissero patrimonio comune di tutti i giudici e si ponessero a fondamento del dialogo della giurisprudenza con la dottrina lavoristica.
La circostanza che le attribuzioni della Sezione fossero stabilite per legge e che ad essa fossero convogliati esclusivamente i ricorsi concernenti controversie assegnate nel merito ad un giudice specializzato conferiva alla stessa un carattere di specificità, nuovo per la Corte di cassazione, che era ancorata al principio che l’assegnazione dei ricorsi alle sezioni avveniva in base ai criteri (pre)determinati dal Primo Presidente.
In sede di prima attuazione della disposizione nacquero, infatti, dubbi a proposito del rapporto creatosi tra la Sezione lavoro e le Sezioni unite a proposito dell’applicabilità dell’art. 374 c.p.c. Quest’ultimo fissa la competenza delle Sezioni unite ai ricorsi che implicano la soluzione di questioni di giurisdizione, o di questione di diritto oggetto di contrasto tra le sezioni semplici, oppure questioni di massima di particolare importanza. Si pose il dubbio che, in forza del principio della specialità, l’art. 19 della legge 533 portasse una deroga all’art. 374 c.p.c. e che per le controversie di lavoro i “contrasti” potessero realizzarsi solo tra diversi collegi della Sezione Lavoro e che, quindi, all’interno di quest’ultima i contrasti stessi dovessero trovare soluzione. Parimenti ci si chiedeva se, in forza della specializzazione della Sezione, ad essa dovessero competere in via esclusiva anche le questioni lavoristiche “di massima di particolare importanza”.
Ogni dubbio fu superato dal punto di vista pratico all’interno della stessa Corte: il Primo Presidente mantenne invariata la prassi previgente, dato che le questioni di assegnazione degli affari alle Sezioni unite rimanevano pur sempre nella sua competenza esclusiva ( ).
Non va trascurato un ulteriore dato, per l’epoca innovativo, risultante dal richiamato art. 19. La nuova disposizione, infatti, prevedeva che “la Corte di cassazione nella detta sezione giudica col numero invariabile di cinque votanti” ed anticipava di alcuni anni la modifica dell’art. 67 dell’ordinamento giudiziario, intervenuta solo quattro anni dopo, con la legge 8 agosto 1977 n. 532, che portò il numero dei componenti votanti dei collegi giudicanti delle sezioni ordinarie da sette a cinque e quello delle Sezioni unite da quindici a nove.
2. – La creazione di una apposita sezione della Corte di cassazione “incaricata” di trattare “esclusivamente” le controversie di lavoro e previdenziali rispondeva all’esigenza di dare attuazione anche in sede di legittimità alla scelta di fondo della specializzazione del giudice, per dare corpo nell’ambito delle tutele giudiziarie alla lettura coordinata ed armonica dei principi sparsi nella legislazione di settore, nonché alla razionalizzazione giuridica dei valori ideali espressi dalla riforma. Era questa una impostazione coerente con la crescente sensibilità sociale e sindacale per i problemi del mondo del lavoro e con la rinnovata considerazione dei principi desumibili dalla Carta costituzionale. esaltati dal di proco precedente Statuto dei lavoratori.
L’art. 19 della legge n. 533 rappresentava, tuttavia, anche un preciso riferimento nell’ambito della struttura giudiziaria.
La nuova piramide processuale era basata su una competenza per materia diffusa a livello territoriale, che però non sempre si coniugava con la postulata specializzazione, dato che nei piccoli uffici non sempre era possibile la costituzione di una sezione lavoro (si pensi alle preture mandamentali o ai piccoli tribunali con organico modesto). Inoltre, la tipologia del contenzioso era caratterizzata da fattispecie largamente riconducibili a materie ricorrenti (la retribuzione, i licenziamenti, gli inquadramenti contrattuali, ecc.) o a vere e proprie serialità pluriterritoriali (soprattutto in materia previdenziale).
Fin dalla sua originaria formulazione, inoltre, il primo comma dell’art. 429 c.p.c. prevedeva che il giudice, all’esito della discussione orale pronunciasse sentenza dando lettura del dispositivo per “definire il giudizio”. Era la conclusione logica di un giudizio che si voleva concentrato in unica udienza, con assunzione immediata dei mezzi di prova e il divieto dei rinvii dilatori. La motivazione della sentenza avrebbe dovuto uniformarsi a questa impostazione: chiarezza, brevità e concisione erano richieste per una decisione che avesse una rapida esecuzione e non desse adito a dubbi interpretativi.
La celerità della risposta di giustizia, tuttavia, rimase una lodevole opzione, in quanto la pesantezza dei carichi processuali e la scarsità delle risorse determinarono una realtà giudiziaria non sempre rispondente al disegno originario. In particolare, si rivelarono scarsamente efficienti le procedure conciliative della controversia, a più riprese introdotte dal legislatore per prevenire il ricorso al giudice ( ).
Passò, invece, il messaggio lanciato dal legislatore in punto sinteticità della motivazione. In un contesto giudiziario in cui per i magistrati ancora era prevista una progressione di carriera per gradi ed era presente la tendenza a giudicare le motivazioni delle sentenze per la mole (meno per la qualità) delle argomentazioni fornite, si diffuse largamente (anche se le eccezioni non mancarono) ( ) la tecnica di motivazione basata sulla essenzialità degli accertamenti degli elementi di fatto e sul richiamo degli orientamenti prevalenti della giurisprudenza. A ben vedere una tecnica che anticipava di vari decenni le più recenti scelte del legislatore, che solo con gli anni duemila ha generalizzato nel processo civile il principio della chiarezza e sinteticità degli atti ( ).
In questo contesto, la giurisprudenza della Sezione Lavoro della Corte di cassazione (diffusa grazie alla digitalizzazione dei testi, alla concomitante nascente documentazione informatizzata e all’opera delle riviste giuridiche) rappresentò, quindi, un fondamentale veicolo di definizione e di diffusione di importanti concetti giuridici, con un’opera di vero e proprio amalgama della magistratura del lavoro. Il tutto secondo i parametri dell’interpretazione e dell’applicazione delle leggi, nell’ambito della fedeltà alle regole giuridiche del settore ed alle regole primarie del diritto del lavoro presenti nella Costituzione ( ).

3. – La giurisprudenza di legittimità, al di là di queste considerazioni di assetto interno della giustizia del lavoro, però, fu anche chiamata ad un compito più “alto”, quale quello di interpretare e sistemare sul piano giuridico le istanze di tutela, sostanziali e patrimoniali, scaturenti dal complesso dell’ordinamento del lavoro, secondo l’impostazione tipicamente lavoristica che considera la tutela stessa connaturata alla disparità delle posizioni dei soggetti partecipi del rapporto di lavoro.
Questa funzione “nomofilattica”, tipica della giurisprudenza di legittimità, nel settore lavoristico ha assunto nel tempo una sua ulteriore connotazione di carattere sistemico. Il legislatore si è reso conto che la certezza del diritto, pur nella sua connotazione di bene assoluto della collettività, costituisce anche uno strumento che assicura stabilità ai rapporti giuridici e arreca benefici non solo individuali, ma anche collettivi (per la comunità dei cittadini), con evidenti positive ricadute di carattere sociale. La funzione nomofilattica della Corte è stata, pertanto, incoraggiata con specifiche riforme processuali, che, come vedremo, hanno toccato in maniera consistente anche il processo del lavoro.
L’obiettivo di questo breve scritto è quello di verificare quanto dai fattori evidenziati – la “specializzazione” e il supporto a contenuto processuale – la giurisprudenza di legittimità abbia tratto per rafforzare la qualità del suo intervento nell’ambito lavoristico.
Tra i tanti percorsi della giurisprudenza in materia di rapporto di lavoro (e non si dimentichi la materia della previdenza ed assistenza, qui omessa per ragioni di sintesi), un esempio particolarmente probante ritengo possa ravvisarsi nel ruolo avuto dalla Cassazione nella determinazione degli effetti del contratto collettivo. Anche se rimasta per lungo tempo in bilico tra il carattere di negozio individuale del contratto e la funzione strumentale da esso concretamente assunta nella regolazione dei rapporti di lavoro, infatti, in questo campo la giurisprudenza della Corte (anche grazie a strategici innesti legislativi sul processo del lavoro) ha prodotto un vero e proprio strumento “autoprodotto” di regolazione del rapporto di lavoro.
Non a caso, in questo campo la giurisprudenza acquisisce una valenza unica e supera la distinzione tra materia processuale e materia sostanziale.

4. – All’esordio del nuovo processo la giustizia del lavoro era chiamata ad affrontare i grandi temi della crisi economica degli anni Settanta: le ricadute occupazionali, le riconversioni e le ristrutturazioni industriali. I licenziamenti collettivi erano regolati dall’accordo interconfederale del 1965, si discuteva della funzione di sostegno della Cassa integrazione e dei suoi limiti di intervento, soprattutto, dopo la legge 12 agosto 1977 n. 675, a proposito di politica industriale.
La riserva di disciplina sui licenziamenti collettivi a favore della contrattazione collettiva (in presenza dell’esclusione della materia dalle disposizioni della legge 604 del 1966) fu dalla Cassazione intesa nel senso che il controllo giudiziario (rimesso al giudice di merito) dovesse estendersi alla reale sussistenza della fattispecie, per evitare che questa venisse invocata per sottrarre al giudizio di giustificatezza più licenziamenti individuali. Solo la legge 23 luglio 1991 n. 223, con il suo radicale cambio di indirizzo, avrebbe ridimensionato la crisi d’azienda, razionalizzandone lo svolgimento in termini di ammortizzazione sociale e procedimentalizzando la stessa cessazione del rapporto di lavoro ( ).
L’argomento più delicato affrontato dalla Sezione nella sua prima fase di operatività, nella perdurante inattuazione dell’art. 39 della Costituzione, fu sicuramente quello della sistemazione del contratto collettivo nell’ambito delle fonti del diritto del lavoro e dell’individuazione del suo contenuto (non solo normativo, ma anche obbligatorio e compositivo). La giurisprudenza, pur condizionata dai dubbi circa la conciliabilità della natura negoziale dell’accordo con la funzione normativa svolta dal contratto, affrontò inoltre tutta una serie di questioni di fondo – quali la disponibilità sindacale dei diritti individuali, l’ambito di applicazione del contratto collettivo, la sua efficacia spaziale e temporale, i rapporti tra contratti di diverso livello – su cui sindacati ed imprenditori, nel loro costante confronto, chiedevano certezze.
La giurisprudenza dei giudici del lavoro, nel suo complesso, ha sempre accostato la legge e l’autonomia negoziale in un rapporto di reciproca integrazione regolatoria del rapporto di lavoro, alla ricerca del massimo di tutela giuridica, avendo ben presente il gioco dei rinvii che le due fonti operano tra di loro, offrendone una lettura di reciproca integrazione. Questa impostazione, tutta indirizzata verso la centralità dell’autonomia collettiva, è del resto testimoniata dal preminente rilievo assegnato al canone interpretativo dell'art. 1363 c.c., per cui l'interpretazione delle clausole del contratto collettivo di diritto comune non può limitarsi all’esame di singole clausole tralasciando l'esame delle altre in considerazione dell'esigenza di apprestare una disciplina completa della realtà lavorativa del settore regolato ( ).

5. – La Sezione Lavoro, pur nella specificità del suo ruolo, ha condiviso la mutazione vissuta dalla Corte di cassazione negli anni a cavallo del nuovo millennio, quando il legislatore si è reso conto che l’incremento del grado di certezza dei rapporti giuridici costituisce strumento di rafforzamento del contesto sociale ed economico del Paese. La funzione apicale della Corte e l’autorevolezza della sua giurisprudenza sono da allora divenute strumento privilegiato per creare stabilità nell’interpretazione della legge e dare certezza ai privati (soprattutto agli imprenditori), che della legge stessa fanno costante applicazione nella regolazione della loro attività economica.
Nell’ambito specifico della giustizia gli anni Novanta videro una crisi di funzionalità del rito del lavoro, riconducibile alla sproporzione creatasi tra le risorse della magistratura e il numero delle controversie. La causa scatenante solitamente si individua nella crescita del contenzioso concernente i rapporti di lavoro dei dipendenti di alcune aziende statali gerenti pubblici servizi, dapprima trasformate in ente pubblico e successivamente privatizzate (si pensi alle ferrovie ed al servizio postale), o nella gran quantità di controversie seriali per il riconoscimento di prestazioni previdenziali e assistenziali. A queste indubbie criticità si aggiungeva la contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico e si associavano nuove problematiche giuridiche del lavoro privato: la flessibilità dell’organizzazione produttiva e della prestazione, la stabilità, la durata del rapporto stesso.
In questa nuova prospettiva il giudice del lavoro, grazie ad alcune innovazioni processuali intervenute tra la fine del Novecento ed i primi anni Duemila, nel tempo ha visto accresciuta la sua dimensione istituzionale: da “semplice” giudice specializzato caratterizzato dalla specificità del settore di competenza e, quindi, legato ad una problematica giuridica definita, a soggetto chiamato a risolvere problematiche giuridiche lavoristiche tali da incidere sul funzionamento di settori specifici dell’amministrazione e dell’economia.
È quanto accadde con la privatizzazione del lavoro pubblico e la devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative ai rapporti di lavoro contrattualizzati dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
La riforma del pubblico impiego rientrava in un più largo disegno normativo di razionalizzazione dell’amministrazione e della funzione pubblica intrapreso nel corso degli anni Novanta, cui non poteva rimanere estranea la giurisdizione. La posizione soggettiva del dipendente contrattualizzato nei confronti del datore di lavoro pubblico veniva ad essere qualificata come diritto pieno ( ), il che imponeva non solo lo spostamento al giudice ordinario (in funzione di giudice del lavoro) della giurisdizione, ma anche il conferimento allo stesso del potere di adottare “nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati” e di emettere sentenze in materia di diritto all'assunzione aventi “anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro” (art. 63 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165).

6. – A proposito del pubblico impiego il giudice (di merito e di legittimità, come vedremo) ha avuto nuove occasioni per misurarsi con il contratto collettivo, non più di diritto comune, ma come conformato dagli artt. 40 e seguenti del d.lgs. n. 165 del 2001.
A commento dell’art. 2, c. 2, di quest’ultimo – per il quale, a livello di normazione primaria, i rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici sono regolati dalle fonti proprie del lavoro privato “fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo” – è stato rilevato che nella progressione del processo riformatore iniziato nel 1992, la disciplina del rapporto di lavoro pubblico si è diversificata da quella del rapporto privato, pur rimanendo nell’ambito della comune matrice civilistica ( ). Il rapporto di lavoro pubblico, infatti, pur nella sua unitarietà concettuale con quello privato, sconta una divaricazione al momento di individuare le fonti della sua disciplina, a causa della diversa incidenza assegnata alla contrattazione collettiva, prima dal d.lgs n. 150 del 2009 (c.d. riforma Brunetta) e successivamente dal d.lgs. n. 75 del 2017 (c.d. riforma Madia).
Proprio a seguito della contrattualizzazione, dunque, i giudici sono chiamati a svolgere una sottile opera di demarcazione del lavoro pubblico da quello privato, basata sulla diversa considerazione della norma inderogabile, che nell’impiego privato è funzionale alla tutela del lavoratore e nel lavoro pubblico tende alla garanzia di più generali interessi collettivi ( ).
Questa rinnovata problematicità ha avuto riflessi anche a livello processuale, dato che assieme alla giurisdizione del giudice ordinario, nel 1998 furono introdotte norme processuali ad hoc, originate dalla particolare conformazione del rapporto di lavoro pubblico: quali l’accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi nazionali del pubblico impiego, la possibilità di intervento in giudizio dell’ARAN e dell’Organizzazioni sindacali, un procedimento dedicato per la conciliazione, la possibilità di ricorrere per cassazione anche per violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi.
Lo stesso originario schema del processo del lavoro risultò adeguato alle esigenze del contenzioso del pubblico impiego, tanto in sede conciliativa quanto in sede contenziosa, con norme apposite per la competenza territoriale, nonché per la difesa e la presenza in causa del rappresentante della pubblica amministrazione (artt. 413, c. 4 e 5, e 417 bis). Si precisò che l’avvenuta conciliazione della lite, tanto in sede preliminare che in sede contenziosa, non può essere, inoltre, occasione di responsabilità di carattere erariale del rappresentante dell’amministrazione (art. 410, ult. c.).
Con il tempo, tuttavia, quello che sembrava un rito processuale parallelo si è sostanzialmente fuso con il processo del lavoro “ordinario”. La chiave di lettura di questa fusione è costituita ancora dalla interpretazione del contratto collettivo.
Il procedimento di accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione del contratto collettivo del pubblico impiego consente al giudice della controversia di rimettere con ordinanza all’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) una specifica questione interpretativa. Entro 120 giorni, l’Agenzia e le organizzazioni sindacali firmatarie, debbono definire la questione con accordo interpretativo o con modifica della clausola controversa. In mancanza di accordo sindacale, il giudice deciderà con sentenza sulla questione interpretativa e disporrà la prosecuzione della causa. In questo caso, la sentenza può essere impugnata con ricorso immediato per cassazione, con sospensione del processo. La sentenza della Corte di legittimità sulla questione interpretativa produrrà i suoi effetti non solo nell’ambito del giudizio, ma anche nelle altre controversie in cui si ponga la stessa questione, salva la possibilità per il giudice di procedere ad una differente interpretazione, concedendo alle parti la possibilità di un nuovo ricorso per cassazione ( ).
7. – Il complesso procedimento interpretativo, definito in termini sistematici dall’art. 64 del testo unico n. 165 del 2001, fu comunque in origine motivato con esigenze di gestione del contenzioso dei lavoratori privatizzati, in quanto, attese le modalità di svolgimento della contrattazione nel pubblico impiego, una risposta pregiudiziale della Corte di cassazione avrebbe potuto indirizzare la soluzione delle controversie seriali. Esso si saldava con la disposizione dell’art. 63 dello stesso testo unico per la quale nelle controversie di lavoro pubblico privatizzato (come nel caso di impugnazione della sentenza interpretativa), il ricorso per cassazione avrebbe potuto essere proposto anche “per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di cui all'articolo 40”, ovvero dei contratti stipulati a regolazione dei rapporti privatizzati.
Quest’ultima disposizione creò un certo sconcerto in quanto il giudizio della Corte di cassazione in materia di fonti collettive era pur sempre condizionato dai già richiamati limiti in materia di interpretazione dei contratti collettivi, i quali, anche nel pubblico impiego, continuavano a mantenere una matrice negoziale ( ).
Un punto di equilibrio fu raggiunto, nel 2005-2006 con la riscrittura dell’art. 360, n. 3, c.p.c., per il quale è ora consentita l’impugnazione per cassazione anche in caso di violazione o falsa applicazione “dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro”. Inoltre, seppure con procedura più agile rispetto al lavoro pubblico, con l’introduzione dell’art. art. 420 bis c.p.c., anche per il lavoro privato fu previsto che il giudice di primo grado potesse con sentenza statuire in via pregiudiziale circa l’efficacia, validità o interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale e che le parti potessero impugnare immediatamente la pronunzia per cassazione.
A regime, dunque, in entrambi i casi di ricorso immediato la pronunzia di legittimità interviene in via incidentale e non solo interpreta la norma applicabile nel caso di specie, ma costituisce giurisprudenza circa la norma collettiva applicabile nelle controversie analoghe. Si è attivato, in altri termini, un meccanismo che pone il confronto-dialogo tra il giudice di merito ed il giudice di legittimità alla base di una produzione giurisprudenziale che, con il suo naturale impulso nomofilattico, persegue obiettivi di certezza giuridica diretti a creare maggiore stabilità nel settore del lavoro ( ).

8. – Le innovazioni del 2006, peraltro, andavano oltre queste considerazioni di carattere funzionale, in quanto nella modifica dell’art. 360 e nell’introduzione del procedimento interpretativo pregiudiziale alcuni commentatori ravvisano una presa di posizione di ben altro profilo del legislatore, il quale, seppure in misura informale, a fronte della perdurante inattuazione dell’art. 39 della Costituzione, per altra via avrebbe inteso perseguire la finalità di assegnare stabilità alla normativa dei contratti nazionali e di evitare le disparità di trattamento derivanti dalle possibili diverse interpretazioni degli stessi ( ).
Sul piano strettamente processuale, invece, l’interpretazione pregiudiziale deviava dal modello tradizionale del processo del lavoro, che vedeva nella condensazione di tutte le attività giudiziali in unica udienza e nella conseguente celerità decisionale la sua caratteristica principale. Tuttavia, poneva riparo alla possibilità (non teorica) che contrastanti soluzioni interpretative adottate dai giudici di merito venissero ritenute incensurabili per cassazione, in quanto entrambe correttamente motivate ( ).
Parimenti, per la Corte di cassazione – nel caso di impugnazione ex art. 360, n. 3, e, a maggior ragione, nel caso di impugnazione ex art. 420 bis (o ex art. 64 d.lgs. 165) – si poneva il problema dell’individuazione dei canoni ermeneutici da adottare. In particolare, ci si chiedeva se il legislatore, in considerazione dei ben noti limiti di accesso al merito del giudice di legittimità, avesse voluto consentire il ricorso ai principi propri dell’interpretazione del diritto oggettivo fissati dalle preleggi, o se con la riscrittura dell’art. 369, n. 4, c.p.c. (che impone il deposito dei “contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”, introdotto contestualmente all’art. 420 bis), avesse voluto rimarcare la tradizionale tecnica interpretativa dei negozi privati prevista dagli artt. 1362 c.c. ( ).
La Corte di cassazione, pur con qualche incertezza iniziale, ha in proposito superato la distinzione tra giudizio di diritto e giudizio di fatto ed è approdata alla conclusione che la parificazione nell’art. 360, n. 3, della violazione o falsa applicazione delle norme di diritto a quella dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ha portato sul piano processuale al “distacco del contratto collettivo dallo schema del negozio giuridico” e che la doglianza debba essere ascritta all’errore di diritto “direttamente denunciabile per cassazione senza (più) la necessità di indicazione … del criterio ermeneutico violato …, così come analoga indicazione non è necessaria per le altre norme di diritto (con riferimento, in particolare, all’art. 12 preleggi)” ( ).

9. – Nella sostanza, dunque, è sul contratto collettivo, sulla sua natura di fonte di norma regolatrice del rapporto di lavoro e sulla sua interpretazione, che si è creato il ponte che ha consentito l’incontro delle due strutture processuali, superando la divaricazione originaria, apparentemente comprensibile sul piano giudiziale, ma ingiustificata sul piano delle tutele sostanziali. La circostanza che il motore sia costituito dall’esigenza di assicurare funzionalità al sistema e che sia stato l’ultimo arrivato (il processo del pubblico impiego) a procurare innovazioni sostanziali in un assetto di principi consolidato, è la conferma che la norma processuale è viva quando è in grado di adeguarsi alle esigenze concrete che è chiamata ad affrontare.
E’, inoltre, importante che la giurisprudenza abbia contribuito a questo passaggio in collaborazione (non esclusivamente occasionale) con il legislatore, che pure dalle innovazioni processuali cerca di trarre benefici di carattere extragiudiziario.
Del resto, anche prendendo a riferimento altre tematiche, emerge questo ruolo strumentale della giurisprudenza, dato che il legislatore fin dal 1973 ha utilizzato lo chiave processuale per affrontare problematiche lavoristiche derivanti da veri e propri nodi che, prima di essere normativi o giudiziari, erano (e sono) allo stesso tempo politici, sociali ed economici.
Si pensi al rilievo che ha assunto negli anni il tema dei licenziamenti e quanta parte la modalità di trattazione processuale delle controversie relative rappresenta (non solo sotto l’aspetto della celerità del giudizio) nell’ambito delle riforme del mercato del lavoro. È nota la scomposizione procedurale delle controversie in materia di licenziamento illegittimo, dove il giudizio è sede non solo della pronunzia di diritto, ma anche della valutazione di basilari interessi delle parti in causa. Sulla stessa linea si è posta la legge delega sulla riforma del processo civile n. 206 del 2021, che ha disposto che la trattazione delle cause di licenziamento in cui sia proposta domanda di reintegrazione abbia carattere prioritario, assieme alla razionalizzazione delle azioni di impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative, e delle azioni di nullità dei licenziamenti discriminatori. Nell’attuare la delega il legislatore non ha mancato di munire il giudice di ulteriori poteri di accelerazione della controversia ( ).
Nonostante i numerosi e ripetuti interventi sul suo corpo originale il processo del lavoro, dunque, ha assunto un’impronta unitaria, derivante non solo dalla generalità degli obiettivi che il legislatore suo tramite vuole perseguire, ma anche dalla considerazione che la giurisprudenza, non solo di legittimità, ha avuto del processo stesso, motivandola con l’unicità del concetto di lavoro accolto dal nostro ordinamento e facendo del concetto stesso la base della sua analisi.
È il caso, dunque, di riprendere quanto detto da un illustre giurista di recente scomparso, il quale rilevava che, nel considerare la funzione del giudice del lavoro, “bisogna sottolineare il ruolo centrale che gli viene affidato dall’ordinamento quando dà corpo e sostanza normativa a fatti e valori propri del sistema costituzionale e a fattispecie definite quando il caso può essere ad essi ricondotto” ( ).

 

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