TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1.-Premessa. Le finalità della tutela giurisdizionale collettiva.
Rispetto a condotte illecite plurioffensive, potenziali o attuali, le principali esigenze alle quali la legge processuale è chiamata a far fronte sono:
a) limitare gli effetti della disparità di risorse fra coloro che subiscono o sono minacciati di subire la condotta plurioffensiva (normalmente parti «occasionali» di cause civili) e il loro comune avversario (parte «abituale») , onde evitare che tale disparità si traduca in una eliminazione di fatto della garanzia dell’accesso alla giustizia spettante ai primi;
b) agevolare il ricorso alla tutela giurisdizionale, aggirando la necessità della causa individuale, i cui costi possono essere sproporzionati rispetto a controversie di basso valore economico;
c) colmare lo squilibrio informativo che, rispetto al rischio di subire un pregiudizio, ovvero rispetto a pregiudizi subiti, ma di modesto valore economico, impedisce l’emersione della domanda di giustizia;
d) ottimizzare il risultato, in termini di quantità di controversie risolte, anche in via transattiva, e di impiego delle risorse della giustizia, senza però pregiudicare l’esattezza dell’attuazione della legge sostanziale e senza nemmeno limitare eccessivamente le aspirazioni all’autonomia e alla visibilità individuale dei singoli;
e) estirpare il fenomeno del c.d. contenzioso seriale, nei casi in cui questo tende a radicarsi e ad oberare i ruoli degli organi decidenti.
Sotto il profilo della tecnica processuale, si suole distinguere le ipotesi in cui il processo deve servire a prevenire un evento dannoso plurioffensivo ovvero limitarne le conseguenze, evitando il protrarsi dell’illecito o della sua minaccia, dai casi in cui l’evento dannoso si sia già verificato ed occorra garantire a tutti i singoli individui il diritto al risarcimento per la lesione patita .
Nelle ipotesi del primo gruppo, la verificazione dell’illecito può non produrre alcun danno, il che equivale a dire che, sul piano sostanziale, non emerge alcun diritto soggettivo individuale tutelabile; in questi casi, la tutela collettiva può essere perseguita mediante provvedimenti di tipo inibitorio, in grado di imporre all’autore della condotta illecita l’obbligo, stabilito dal giudice, di non reiterarla, ovvero di astenersi dal commetterla.
Nelle ipotesi del secondo gruppo, la tutela collettiva passa per la soddisfazione individuale dei singoli danneggiati e deve tener conto di un fattore ulteriore, dato dell’eterogeneità delle pretese, connessa alla natura risarcitoria delle stesse, pur in presenza di un unico fatto costitutivo dannoso ovvero di una pluralità di fatti costitutivi di tipo identico o omogeneo.
Si tratta di distinguere la tutela di posizioni giuridiche superindividuali, aventi ad oggetto beni di tipo “collettivo”, insuscettibili cioè di appropriazione esclusiva (ad es. la salubrità dell’ambiente di lavoro), dalla tutela di situazioni giuridiche individuali di tipo omogeneo, riscontrabili in capo ad una pluralità di individui (ad es. il diritto alle mensilità arretrate o a contribuzioni previdenziali e assistenziali).
La morfologia delle controversie di lavoro e gli interessi in gioco nell’ambito del conflitto individuale e collettivo si prestano alla trattazione con le forme dei processi c.d. collettivi, i cui modelli, oggi, sono contenuti nel Titolo VIII bis del Libro IV del c.p.c.
Tuttavia, la compatibilità degli strumenti processuali, costituiti dall’azione risarcitoria di classe e dall’azione inibitoria collettiva, con le peculiarità delle controversie lavoristiche appare tutt’altro che scontata.

2. Le forme delle azioni collettive di cui agli art. 840 bis e ss. c.p.c.
Per il processo di classe, avente ad oggetto la soddisfazione di pretese risarcitorie e restitutorie cumulate aggirando le regole del processo litisconsortile, occorre considerare che ci si trova al cospetto di un procedimento destinato a veicolare due diverse forme di tutela, giacché la domanda, che dovrebbe pur sempre avere ad oggetto i diritti individuali omogenei dei componenti della classe, può essere proposta vuoi da un componente della classe, vuoi da «un’organizzazione o un’associazione senza scopo di lucro i cui obiettivi statutari comprendano la tutela dei predetti diritti».
L’art. 840 bis c.p.c. ha previsto che l’azione possa essere proposta per «l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni».
A meno di considerare il caso in cui l’ente esponenziale sia esso stesso titolare del diritto omogeneo a quello di altri componenti della classe, la scelta di operare una biforcazione della legittimazione ad agire, ponendo sullo stesso piano gli individui e i soggetti collettivi, rischia di costituire un passo indietro rispetto a quella che appariva un’acquisita consapevolezza che la tutela collettiva risarcitoria coinvolge i diritti soggettivi dei singoli e impone l’adozione di una tecnica processuale affatto diversa da quella che connota la tutela degli interessi collettivi (o diffusi) .
Infatti, la tutela risarcitoria presuppone una pluralità di situazioni individuali, sicché ciascuno dei danneggiati dal medesimo fatto dannoso pretende la reintegrazione del proprio patrimonio.
Nelle ipotesi di illecito plurioffensivo generato da un’unica condotta illecita, ovvero da più condotte illecite contestuali o parallele (o seriali), l’art. 103 c.p.c. consente che più soggetti lesi possano agire in giudizio, cumulando nello stesso processo più cause connesse per il titolo (causa petendi o fatto costitutivo) o per le identiche questioni da cui dipende totalmente o parzialmente la loro decisione.
La scelta dell’azione di classe consente di convogliare all’interno di un medesimo processo «i diritti individuali omogenei» di tutti i soggetti danneggiati da una medesima condotta o da condotte plurime identiche, senza che, però, tutti i presunti danneggiati debbano assumere la veste di parti processuali.
La legittimazione riconosciuta ad enti che abbiano come obiettivo statutario la tutela dei diritti individuali lesi e la presenza dell’espressione «accertamento della responsabilità» congiunta da una «e» al «risarcimento del danno», sono indizi della scelta del legislatore di concepire un nuovo “tipo” di azione di classe destinata a concludersi con un accertamento su questioni comuni.
Gli indizi trovano conferma nell’art. 840 sexies, 1° comma, lett. a) e b), c.p.c., ai sensi delle quali il tribunale «a) provvede in ordine alle domande risarcitorie o restitutorie proposte dal ricorrente, quando l’azione è stata proposta da un soggetto diverso da un’organizzazione o da un’associazione inserita nell’elenco di cui all’articolo 840 bis, secondo comma; b) accerta che il resistente, con la condotta addebitatagli dal ricorrente, ha leso diritti individuali omogenei».
Parrebbe perciò che il processo di classe sia destinato a concludersi, in caso di accoglimento, con una sentenza di condanna che liquida il quantum, qualora ad agire sia stato un soggetto (anche non persona fisica) direttamente danneggiato dalla condotta, ovvero con una sentenza che si limita ad accertare la responsabilità per l’illecito plurioffensivo , qualora ad agire sia stato un ente esponenziale, dotato dei requisiti indicati dall’art. 196-ter disp. att. c.p.c.
Con riferimento alla inibitoria collettiva, la prima e principale novità dell’art. 840-sexiesdecies c.p.c. consiste nella legittimazione ad agire c.d. diffusa, estesa cioè anche ai singoli individui, che vantino un interesse alla condanna del comune convenuto alla cessazione o alla non reiterazione di una condotta commissiva o omissiva.
La rubrica della disposizione recita “Azione inibitoria collettiva”, ma il 1° comma stabilisce che «chiunque abbia interesse alla pronuncia di una inibitoria di atti e comportamenti, posti in essere in pregiudizio di una pluralità di individui o enti, può agire per ottenere l’ordine di cessazione o il divieto di reiterazione»; il secondo periodo del 1° comma prevede che le organizzazioni e le associazioni senza scopo di lucro, purché iscritte nell’elenco pubblico di cui al comb. disp. degli art. 840-bis, 2° comma, c.p.c. e 196-ter, disp. att., c.p.c., sono legittimate parimenti ad agire.
La scelta compiuta dal legislatore appare schizofrenica, giacché la restrizione delle maglie della legittimazione agli enti iscritti in un elenco ministeriale collide con l’estensione rappresentata dal “chiunque”, con cui si apre l’art. 840-sexiesdecies c.p.c.
Sembrerebbe dunque profilarsi un’inibitoria “collettiva in senso proprio”, azionabile soltanto da enti e organizzazioni legittimati per tabulas, a condizione che gli obiettivi statutari comprendano «la tutela degli interessi pregiudicati dalla condotta omissiva o commissiva».
Accanto a questa forma di tutela, ben nota alla nostra esperienza, si aggiunge quella individuale, quella cioè del singolo (persona fisica, persona giuridica o ente dotato di soggettività giuridica), che vanti un interesse alla cessazione di una condotta, che curiosamente non è indicata come illecita.
Presupposto per l’esperimento dell’«inibitoria individuale», ma con finalità collettiva, è che l’interesse del singolo coincida con quello di un gruppo (o di una classe), giacché il pregiudizio — che comunque dovrebbe essere ingiusto — deve essere diffuso o collettivo, deve cioè riguardare “una pluralità di individui o enti”.
Le implicazioni sistematiche poste da questa nuova norma appaiono numerose, ma, in prima battuta, parrebbero non in sintonia con l’atipicità dell’inibitoria, a meno di ritenere che il singolo possa esperirla, con le forme ordinarie, fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 840-sexiesdecies c.p.c., nelle ipotesi in cui non esista o non si deduca l’esistenza di una pluralità di individui o enti pregiudicati dalla medesima condotta.
Sennonché, sul versante lavoristico, tanto l’azione di classe, quanto quella inibitoria, paiono armi spuntate giacché il legislatore all’art. 1, lett. c) del D.M. 17 febbraio 2022, n. 27, ha espressamente sancito che gli enti legittimati all’iscrizione nel registro ex artt. 840-bis c.p.c. e 193-ter disp. att. c.p.c. sono «gli enti individuati dall’articolo 4 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, diversi dalle imprese sociali incluse le cooperative sociali, i cui obiettivi statutari comprendono la tutela di diritti individuali omogenei». La norma rinvia alla disciplina degli enti del c.d. terzo settore, i quali soltanto possono essere iscritti nel suddetto registro.
Specificamente, all’art. 4, 1° comma del citato d.lgs. vengono intesi quali enti del terzo settore «le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore».
Al comma 2° del citato articolo, vengono altresì espressamente esclusi, dalla nozione di enti del Terzo settore, i sindacati.
Tale esclusione si appalesa del tutto irragionevole e determina che, in linea teorica, l’azione di classe e quella inibitoria possano essere esercitate soltanto da singoli lavoratori.
In questo senso è, peraltro, Trib. Milano 13 ottobre 2022, secondo la quale alle organizzazioni sindacali è preclusa la possibilità di proporre l’azione inibitoria collettiva, non essendo queste incluse fra gli enti legittimati ex artt. 840-bis, comma 2, c.p.c. e 196-ter disp. att. c.p.c. .
Un’ultima considerazione si impone, rispetto alla appetibilità dell’azione di classe nell’ambito di controversie lavoristiche.
Con l’azione ex art. 840-bis e ss. c.p.c. sembrano potersi conseguire soltanto il risarcimento per equivalente e le restituzioni di somme di denaro o di cose e non sembra esservi spazio alcuno per la richiesta di rimedi in forma specifica: i lavoratori destinatari di licenziamenti collettivi o accomunati da condotte che ne hanno determinato il demansionamento o il trasferimento, che volessero agire con l’azione di classe, non potrebbero chiedere la condanna al ripristino dello status quo ante rispetto all’adozione della condotta collettiva illegittima datoriale.

3.- Compatibilità con le controversie di lavoro.
Fermo restando che l’esperimento delle azioni ex art. 840-bis e 840-sexiesdecies c.p.c. pare riservato, in caso di controversie di lavoro, ad essere appannaggio soltanto dei lavoratori (salva l’ipotesi, comunque recondita, che qualche associazione iscritta nell’elenco non si faccia carico di proporre un’azione tutelando l’interesse collettivo dei lavoratori), appare ragionevole ipotizzare comunque l’applicabilità delle azioni collettive nell’ambito di controversie attinenti a rapporti di lavoro ex art. 409 c.p.c. .
Se l’azione di classe risarcitoria e l’azione inibitoria collettiva avessero ad oggetto la cessazione di una condotta rilevante nell’ambito di rapporti ex art. 409 c.p.c., occorre chiedersi se debbano considerarsi prevalenti i criteri di competenza speciali dettati dall’art. 413 c.p.c., ovvero quelli che, ai sensi dell’art. 840-ter, comma 1°, e 840-sexiesdecies, comma 3°, c.p.c., indicano come competente la sezione specializzata in materia di impresa del luogo in cui ha sede la parte resistente. Inoltre, quanto al rito, il processo di classe continua ad essere regolato dalle forme del procedimento sommario di cognizione ex art. 702 bis e ss. c.p.c., ancorché abrogato dalla riforma operata dal d.lgs. 149/2022; l’azione inibitoria segue invece le forme del rito in camera di consiglio ex art. 737 e ss. c.p.c.
L’intreccio tra competenza e rito impone di scegliere tra varie opzioni interpretative, che appaiono tutte plausibili.
Alla luce della specialità dell’art. 413 c.p.c., che non potrebbe considerarsi derogato da una disciplina che, ancorché successiva, appare generale, nonché del favor lavoratoris, il foro competente dovrebbe essere quello regolato dall’art. 413 c.p.c. ; se così fosse, l’azione di classe e l’azione inibitoria potrebbero considerarsi proponibili dinanzi alla sezione lavoro, con l’applicazione, rispettivamente, del rito sommario o di quello camerale; ma potrebbe anche essere plausibile ritenere che l’azione di classe e quella inibitoria debbano essere proposte dinanzi alla sezione lavoro, con l’applicazione del rito del lavoro, nel quale innestare le regole speciali dall’art. 840-bis e ss. e 840-sexiesdecies c.p.c.
Sarebbe però anche possibile sostenere che l’azione di classe e quella inibitoria possano essere correttamente incardinate presso la sezione specializzata in materia di impresa, ma identificata secondo i criteri di competenza territoriale dell’art. 413 c.p.c., e trattate con le forme, rispettivamente, del procedimento sommario e di quello camerale.
Le norme non consentono neppure di escludere che l’azione inibitoria possa essere proposta dinanzi alla sezione specializzata in materia di impresa, ma identificata secondo i criteri di competenza territoriale dell’art. 413 c.p.c., e trattata con le forme del rito del lavoro su cui innestare le regole speciali del processo di classe e di quello avente ad oggetto l’inibitoria.
Diversamente, sarebbe anche possibile sostenere che il foro competente debba essere sempre quello della sede dell’impresa: l’azione di classe e quella inibitoria potrebbero essere instaurate dinanzi al giudice del lavoro del tribunale presso cui è la sezione specializzata in materia di impresa competente e il giudice del lavoro dovrebbe applicare il rito del lavoro, integrato ad hoc dalle norme dall’art. 840-bis e ss. e 840-sexiesdecies c.p.c.; alternativamente, il giudice del lavoro dovrebbe applicare solo i riti sommario e camerale, senza complicate integrazioni con le regole degli art. 414 e ss. c.p.c.
Quale ultima ipotesi, le azioni dovrebbero poter essere instaurate sempre dinanzi alla sezione specializzata competente per territorio e la causa trattata comunque sempre con le forme dei procedimenti sommario e camerale, dettate dagli art. 840-bis e ss. e 840-sexiesdecies c.p.c.
Come altrove evidenziato, comunque, né l’errore sulla competenza, alla luce dei principii generali indicati nell’art. 38 c.p.c., né l’errore sul rito dovrebbero mai pregiudicare il conseguimento di una decisione di merito.
Vale la pena riprendere, da ultimo, una valutazione imposta dall’ultimo comma dell’art. 840-sexiesdecies c.p.c., il quale dispone che «sono fatte salve le disposizioni previste in materia dalle leggi speciali».
La norma parrebbe riferirsi ai casi in cui, extra codicem, il legislatore ha regolato azioni inibitorie collettive, le quali non possono considerarsi abrogate: si pensi, per la materia del lavoro, all’art. 28 st. lav., ma anche all’art. 28 d. leg. 150/2011 e al suo ampio ambito di applicazione.
Sembra ragionevole ritenere che, là dove esista un’inibitoria speciale, non vi sia spazio per quella generale dell’art. 840-sexiesdecies c.p.c.; peraltro, anche a voler ammetterne il regime di alternatività, probabilmente i margini di efficienza garantiti dall’applicazione delle inibitorie ex art. 28 st. lav. e 28 d.lgs. 150/2011 sconsiglierebbero il ricorso alle complicate regole dell’inibitoria collettiva codicistica.

4.- L’azione collettiva per la repressione di condotte discriminatorie nei confronti dei lavoratori e il coordinamento con l’impugnativa del licenziamento discriminatorio.
Come noto, l’art. 28 d.lgs. 150/2011 regola vari tipi di azioni per la repressione delle condotte discriminatorie:
- l’azione generale di repressione di condotte discriminatorie, di cui all’art. 44 d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286, testo unico sull’immigrazione, che disciplina anche, al comma 10°, l’azione collettiva, esperibile dalle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale, per la repressione di condotte discriminatorie poste in essere dal datore di lavoro;
- l’azione – che può essere individuale o collettiva, a mente dell’art. 5 – per la repressione di comportamenti discriminatori per ragioni di razza o di origine etnica, di cui all’art. 4 d. lgs. 9 luglio 2003, n. 215, recante l’attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica;
- l’azione – che può essere individuale o collettiva, a mente dell’art. 5 – per la repressione di comportamenti discriminatori nell’ambito dei luoghi di lavoro e relativi alle condizioni di lavoro, di cui all’art. 4 d. lgs. 9 luglio 2003, n. 216, recante l’attuazione della dir. 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro;
- l’azione – che può essere individuale o collettiva, a mente dell’art. 4 – per la repressione di comportamenti discriminatori in danno di persone con disabilità, di cui alla l. 1º marzo 2006, n. 67, recante misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni;
- l’azione – che può essere individuale o collettiva, a mente dell’art. 55 septies – per la repressione delle condotte discriminatorie per ragioni di sesso nell’accesso a beni e servizi e loro fornitura, di cui all’art. 55 quinquies, d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, recante il codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’art. 6 della l. 28 novembre 2005, n. 246.
Inoltre, l’azione speciale, prevista dall’art. 37, 4° comma, e 38 del codice per le pari opportunità integra le forme di un’azione sommaria non cautelare che era stata introdotta già dall’art. 15, l. n. 903/1977, seguendo lo schema del procedimento per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 st. lav.
La riforma di cui al d.lgs. 149/2022 ha introdotto il nuovo art. 441-quater c.p.c.
La nuova disposizione ha positivizzato l’ammissibilità delle azioni di nullità del licenziamento discriminatorio con forme diverse da quelle del rito del lavoro ex art. 414 c.p.c. e ss.
Una delle finalità perseguite sembra essere quella di sancire che, indipendentemente dal modello processuale prescelto, il nucleo dell’azione resti pur sempre subordinato alle regole dell’impugnativa e al relativo regime decadenziale; anche se esercitata con le forme di un rito speciale (quale quello dell’art. 28 d.lgs. 150/2011 o dell’art. 38 cod. pari opportunità), l’azione volta a far dichiarare la nullità del licenziamento discriminatorio dovrà comunque soggiacere alla disciplina relativa agli oneri di impugnativa stragiudiziale e ai relativi termini.
La norma prevede, inoltre che «La proposizione della domanda relativa alla nullità del licenziamento discriminatorio e alle sue conseguenze, nell’una o nell’altra forma, preclude la possibilità di agire successivamente in giudizio con rito diverso per quella stessa domanda».
Sennonché, l’azione ex art. 28 d.lgs. 150/2011, che di regola è assoggettata al nuovo rito semplificato di cognizione, di cui agli art. 281-decies e ss. c.p.c., può anche essere collettiva, esercitata cioè da enti esponenziali, i sindacati, che si fanno portatori degli interessi dei lavoratori; anche i soggetti legittimati a proporre l’azione ex art. 38 cod. pari opportunità possono essere diversi (consigliera o consigliere di parità competente) dalle lavoratrici o dai lavoratori colpiti dalla condotta.
L’espressione «preclude la possibilità di agire successivamente in giudizio con rito diverso per quella stessa domanda» non chiarisce se la domanda proposta per seconda debba essere dichiarata inammissibile, il che potrebbe, per esempio, determinare conseguenze in ordine al regime delle spese processuali, o se, invece, il provvedimento con cui il giudice accerta tale «preclusione» dia luogo ad un meccanismo analogo a quello dell’art. 39 c.p.c.; inoltre, a seconda che si opti per l’una o per l’altra soluzione, cambia il regime impugnatorio del provvedimento.
Il dato più rilevante però è costituito dall’estensione della preclusione.
Se l’aggettivo «stessa», riferito alla domanda, dovesse essere riferito soltanto agli elementi oggettivi, con conseguente preclusione della proposizione della domanda volta ad ottenere la medesima tutela, ma proposta da un soggetto diverso, emergerebbero forti dubbi di legittimità costituzionale, per contrasto con gli art. 24 e 111 Cost.

 

 

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