TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Una modalità alternativa per il contenzioso laburistico.
La prima disciplina della negoziazione assistita, quale metodo alternativo per la soluzione di controversie in un’ottica di degiurisdizionalizzazione, aveva esplicitamente escluso la possibilità di impiegare questo strumento nelle materie di cui all’art. 409, c.p.c. Questa esclusione era conseguita soprattutto alle posizioni contrarie dei sindacati, ma aveva suscitato fin dall’inizio obiezioni sia dalla dottrina che dalla classe forense. Ove si consideri che già da tempo erano cadute le originarie limitazioni dettate in quell’ambito per la conciliazione e per l’arbitrato, restava in effetti difficile comprendere la diffidenza verso questo particolare ADR, a meno di voler preservare uno spazio privilegiato di negoziazione a determinate sedi escludendone altre. La riforma del codice è stata perciò l’occasione per rimediare all’incongruenza , attribuendo agli accordi raggiunti tramite questo istituto il medesimo regime di stabilità che consegue alle transazioni svolte in “sede protetta” ex art. 2113, c.c.
Le specificità della materia sono comunque mantenute anche sotto ulteriori profili. Ad esempio, in base all’art. 3, l. n. 162 del 2014, il preventivo ricorso alla negoziazione assistita è obbligatorio per tutte le controversie relative al pagamento di somme non superiori a € 50.000; posto che tale disposizione si riferisce alle somme dovute “a qualsiasi titolo”, teoricamente comprenderebbe anche casi in cui la pretesa sia ricondotta a un rapporto di lavoro. Nondimeno, l’art. 2-ter, interamente dedicato alla fattispecie che qui interessa, parla di negoziazione assistita per le controversie di cui all’art. 409 “senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale” e sembra proprio che la perentorietà dell’affermazione non permetta eccezioni. Del resto l’esenzione da qualsivoglia costrizione in proposito è in linea con l’esclusione di tali controversie dalla mediazione c.d. obbligatoria fin dal 2010 e con la piena facoltatività dei procedimenti ex 410 e 412-ter c.p.c.

La convenzione di negoziazione assistita.
Tra le novità in generale apportate dalla riforma, che si applicano pure alle liti in materia di lavoro, spicca la previsione di modelli convenzionali ai quali le parti possono fare ricorso per dare avvio al procedimento, mediante l’accordo di cooperazione nel negoziato. L’elaborazione di tali modelli è affidata al Consiglio nazionale forense, che da parte sua ha provveduto a fornirne tre tipi: uno generico (o standard) e due speciali, destinati uno alle controversie di lavoro e un altro alle controversie in materia di famiglia . Benché l’utilizzo del modello non sia indispensabile, la sua adozione di fatto risulterà prevalente, dato che per escluderla occorre un accordo esplicito (art. 2, comma 7-bis, l. n. 162/2014). In ogni caso, quand’anche le parti optassero per stipulare una convenzione ad hoc, troverebbero dei “paletti” in quanto vi è tutta una serie di norme, sia tra quelle di ambito generale sia tra quelle relative alle liti di lavoro, che non sembrano suscettibili di deroga. Soprattutto, stante l’espressa precisazione a opera dell’art. 2-ter, non sarebbe valido il negoziato condotto con l’assistenza di un solo avvocato e, di conseguenza, neppure l’accordo che ne recepisse l’esito positivo, in quanto verrebbe a mancare uno dei requisiti per applicare l’art. 2113, comma 4, c.c., menzionato dalla previsione in parola. Parimenti inderogabile sembra l’obbligo di trasmettere alle Commissioni di certificazione dei contratti di lavoro l’eventuale accordo raggiunto fra le parti, sebbene sia da chiarire in che misura potrebe incidere sull’accordo medesimo l’inadempimento di questa previsione. Tra le regole generali non suscettibili di modifica vi è indubbiamente la forma scritta ad substantiam, come pure l’applicazione di tutta la normativa richiamata dall’art. 2-bis, con riferimento alla modalità telematica. Sono infine esclusi da deroga i limiti stabiliti dagli artt. 4-bis e 4-ter all’istruttoria stragiudiziale, poiché strettamente correlati agli effetti processuali che la legge attribuisce a quest’ultima solo in presenza di certe condizioni.

La convenzione CNF.
Il modello convenzionale predisposto dal Consiglio nazionale forense si caratterizza per offrire all’utenza una panoramica assai dettagliata per ciascuna tappa del procedimento di negoziazione, riportando pressoché tutte le norme che lo disciplinano.
Partendo dagli aspetti più generali, che comprendono la necessaria individuazione della controversia e la disponibilità del suo oggetto, si chiede alle parti di dichiarare che in relazione alla stessa non vi sono procedimenti giurisdizionali in corso e di impegnarsi a non intraprendere azioni giudiziali di alcun tipo fin quando la negoziazione non sia conclusa. Si chiede, inoltre, di dare atto che è stata resa un’informativa adeguata sugli altri strumenti di risoluzione alternativa disponibili e sull’assenza di condizioni relative alla procedibilità giudiziale. Vengono anche precisati gli effetti che la convenzione produce in ordine agli istituti della prescrizione e della decadenza, l’idoneità della negoziazione a dar vita a un accordo con valore di titolo esecutivo e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, fermo restando che per trascrivere tale accordo le parti dovranno rivolgersi a un pubblico ufficiale per l’autenticazione . Circa gli aspetti specifici della materia, l’informativa comprende l’obbligatoria assistenza di almeno un avvocato per parte, la sottrazione dell’eventuale accordo al regime di rinunce e transazioni del lavoratore al pari delle conciliazioni individuate dal quarto comma dell’art. 2113 c.c., la necessità di depositare l’accordo medesimo presso uno degli organismi deputati alla certificazione. Uno dei punti più delicati, data l’importanza che riveste per la buona riuscita della negoziazione, è l’impegno di riservatezza che si chiede a tutti coloro che vi partecipano. Il richiamo è da farsi alla previsione contenuta nell’art. 9 della legge, che concerne l’obbligo di mantenere il riserbo sulle proposte avanzate nelle diverse fasi della trattativa e su ogni dichiarazione o informazione acquisita nel corso della negoziazione. Si tratta di un’essenziale premessa per l’effettiva realizzazione della c.d. riservatezza esterna, poiché sarà proprio il novero di tali conoscenze e di attività a disegnare l’ambito delle strategie difensive impedite o permesse in un giudizio futuro che abbia, anche solo in parte, lo stesso oggetto e il ruolo degli avvocati a riguardo è determinante, sebbene la violazione da parte loro comporti soltanto un illecito disciplinare. Da ultimo, dando corso alle innovazioni della riforma, il modello prevede delle clausole aggiuntive che le parti possono inserire qualora vogliano svolgere la negoziazione in modalità telematica o quando concordino per ricorrere all’istruttoria stragiudiziale; per entrambi i casi le clausole riproducono quasi integralmente le norme di legge. La parte interessante rimane perciò quella dedicata al procedimento, dove sono scandite le attività e i contenuti degli incontri prospettando così alle parti, fin dall’inizio, l’iter completo e gli effetti che ne derivano.

Il procedimento.
L’impegno a negoziare nasce determinato nel tempo. L’art. 2, l. n. 162/2014, stabilisce una durata minima di un mese e una massima di tre mesi, prorogabili concordemente di altri trenta giorni. Il modello CNF opportunamente prevede che nei limiti di legge (quindi non prima di un mese) le parti possano dare atto che il procedimento si è concluso in anticipo rispetto al termine originario. Ciò può avvenire in due ipotesi: se l’accordo è raggiunto oppure se è impossibile ottenerlo, ma in quest’ultimo caso occorre che non vi siano incertezze, poiché si richiede che l’impossibilità di trovare un accordo “si palesi in maniera manifesta e condivisa”. Naturalmente il rispetto di questa formalità è necessaria esclusivamente qualora si intenda far conseguire all’accordo ottenuto gli effetti previsti dall’art. 5 della legge cit., o per produrre in giudizio le dichiarazioni eventualmente raccolte alle condizioni dettate dagli articoli 4-bis e 4-ter.
Il modello di convenzione richiede l’impegno delle parti a partecipare personalmente agli incontri “per favorire il raggiungimento di un’intesa”. Si tratta di un obbligo non previsto dalla normativa, che il CNF ha evidentemente mutuato dalla disciplina della mediazione civile e commerciale, stabilendo come in quel caso la possibilità di una delega solo per giustificato motivo, a persona informata sui fatti e munita del potere dispositivo . Il primo incontro è destinato a discutere le pretese reciproche e a sviscerare le rispettive posizioni. Negli incontri successivi, se non risulta già chiaramente l’impossibilità di un’intesa, ciascuna parte ha la facoltà di avanzare proposte scritte idonee a risolvere la controversia, e l’altra dovrà in proposito esprimersi, sempre per scritto, entro dieci giorni. L’ultimo incontro dovrà tenersi entro il termine massimo concordato e dovrà concludersi con un verbale che dia atto dell’esito positivo o negativo, sottoscritto da tutti i partecipanti al procedimento.

L’istruttoria stragiudiziale
Presentata per molti versi come il motore di rinnovamento dell’istituto, l’istruttoria condotta dagli avvocati viene cautamente rimessa alla volontà delle parti, da esprimersi in via preventiva. A riguardo l’intenzione legislativa è palese: “quando la convenzione di negoziazione assistita lo prevede” significa chiaramente che un consenso prestato in seguito non è idoneo, né varrebbe invocare l’autonomia negoziale, che in merito a effetti processuali non opera fuori dai casi tipicamente previsti. La possibilità di raccogliere prove o, comunque, elementi istruttori fuori dalla cornice del processo risulta ristretta anche sotto un altro profilo, nel senso che resta delimitata alle due specifiche fonti di prova indicate e cioè alle dichiarazioni provenienti da una parte o da un terzo, rispettivamente da usare come confessione o come testimonianza, mentre non sarebbe possibile concordare e far svolgere, per esempio, una consulenza tecnica da utilizzare in seguito come consulenza d’ufficio . Quanto al contenuto di tali dichiarazioni, la necessità per entrambi i casi che si tratti di fatti specifici e rilevanti rispetto all’oggetto della controversia è una misura volta a evitare intenti meramente esplorativi e ad assicurare la consapevolezza del dichiarante circa i possibili effetti delle sue affermazioni. Tali cautele sono ancor più rafforzate dal modello del CNF, nel quale è prevista un’apposita e preventiva capitolazione. Per la raccolta delle dichiarazioni di un terzo informatore ci sono molteplici condizioni, a partire dai luoghi in cui questa può avvenire , alla necessaria presenza degli avvocati di tutte le parti, alla preventiva identificazione del terzo e agli avvisi che debbono essergli previamente rivolti (art. 4-bis, comma 2, l. cit.). Altre garanzie sono predisposte in tema di verbalizzazione delle dichiarazioni: per la dichiarazione di parte, occorre che la sottoscrizione sia accompagnata da quella del rispettivo avvocato, che ne certifichi l’autografia; per il terzo, oltre alle firme degli avvocati delle parti e all’indicazione del luogo e del giorno in cui la dichiarazione è avvenuta, si chiede di dare atto che tutti i preavvertimenti sono stati effettuati; il terzo ha diritto anche all’integrale lettura del verbale prima di sottoscriverlo e alla consegna di un suo originale.
L’interesse per questa istruttoria stragiudiziale sta tutto nella riconosciuta possibilità di produrre in giudizio i verbali che documentano le dichiarazioni raccolte. A dire il vero, la Relazione con cui è stata presentata la riforma sostiene che questa producibilità non costituisca lo scopo principale dell’innovazione, bensì serva a mettere le parti in condizione di “acquisire tutti gli elementi che possono condurre, nel miglior modo alla composizione della lite”. Preso atto di tali intenzioni lodevoli, resta allora da comprendere come mai non si sia preferito lasciare alle parti maggiore autonomia in questo campo e rinunciare, piuttosto, all’idea di esportare l’attività destinata a fruttare il conseguimento dei risultati voluti. Fatto sta che produrre in giudizio gli esiti dell’istruttoria in parola comporta inevitabilmente che per essa si adottino forme idonee all’innesto processuale, ma tutto ciò avviene a costo di irrigidire e di rallentare lo svolgimento dei negoziati che rappresentano, a ben vedere, l’essenza dello strumento.
Semmai c’è da chiedersi se tale possibilità attenga esclusivamente ai giudizi aventi ad oggetto le controversie rispetto alle quali sia stata svolta quella determinata negoziazione, come sembra lasciare intendere la disciplina de qua, oppure se vi sia spazio per un impiego più ampio. Invero, l’art. 4-ter fa riferimento al giudizio “iniziato” dalle parti della convenzione di negoziazione assistita, mentre l’art. 4-bis parla di “giudizio tra le parti” della convenzione medesima; si potrebbe perciò ipotizzare, da un lato, che a produrre la dichiarazione confessoria di una parte sia un terzo soggetto interventore nello stesso giudizio, e dall’altro lato, che le parti della negoziazione producano la dichiarazione ricevuta dall’informatore in un altro giudizio tra loro con oggetto diverso, benché collegato. Tuttavia, a dissuadere verso un consimile impiego dovrebbe bastare il richiamo all’obbligo di riservatezza previsto a carico del terzo informatore dall’art. 4-bis, comma 2, lett. e), nonché a carico degli avvocati e delle parti dall’art. 9, l. cit.: va da sé che, nell’ottica precauzionale già evidenziata più sopra, è unicamente l’accordo sulla possibilità di istruttoria stragiudiziale a legittimare il superamento del divieto, ivi stabilito, di usare le dichiarazioni acquisite durante il procedimento in giudizi anche solo connessi all’oggetto di questo.
L’efficacia delle dichiarazioni in un successivo giudizio è stabilità con puntualità dalla legge. Alle dichiarazioni della parte su fatti a sé sfavorevoli, l’art. 4-ter attribuisce efficacia confessoria ai sensi dell’art. 2735 c.c.; essendo resa sia all’altra parte che al suo difensore, essa fa piena prova al pari di quella avvenuta in giudizio (il richiamo dei limiti stabiliti da quest’articolo comporta la necessità di provare la confessione stragiudiziale con il documento che la contiene sottoscritto dal dichiarante, ma non esclude che possa esser provata per testimoni nei casi e alle condizioni previste in via generale). Le dichiarazioni stragiudiziali rese dal terzo sono considerate a tutti gli effetti come una prova testimoniale, in quanto l’art. 4-bis stabilisce per esse i medesimi limiti di capacità, le possibilità di astensione e le conseguenze penali in caso di false dichiarazioni che valgono per tale tipo di prova. Pertanto, mentre alle attestazioni degli avvocati in merito a ciò che è accaduto in loro presenza viene dato valore di “piena prova”, per le dichiarazioni dell’informatore vale la regola del prudente apprezzamento del giudice ai sensi dell’art. 116, comma 1, c.p.c. ed è pure possibile che il terzo venga sentito come testimone al processo.
D’altro canto, può darsi che una volta compiute le formalità preparatorie dell’istruttoria stragiudiziale, la parte o l’informatore non si prestino a rendere le dichiarazioni. Per il terzo ovviamente non sussiste alcun obbligo, cosa di cui viene preliminarmente avvisato ex art. 4-bis, comma 2, lett. b); ciò non toglie che ciascuna delle parti possa citarlo a testimoniare anche in via di istruzione preventiva, nel caso in cui la negoziazione assistita non abbia sortito un accordo. Per la parte il discorso è diverso, dal momento che questa deve avere già acconsentito a ricevere inviti del genere nel contesto della convenzione. Si presume, perciò, che accettando la clausola abbia assunto anche un obbligo di collaborare in proposito, assumendosi il rischio di essere sanzionata dalla valutazione del giudice riguardo alle spese del futuro processo, qualora non sappia dimostrare che il rifiuto è giustificato dalle circostanze del caso.

Osservazioni finali.
Fin dalla sua introduzione nel nostro ordinamento, la negoziazione assistita ha riscosso poco successo. Il motivo, in parte, può ascriversi alla concorrenza di altri ADR verso i quali si è maggiormente concentrata l’attenzione generale (in primis, verso la mediazione). Tuttavia, se consideriamo il vantaggio che la negoziazione presenta in termini di minor costo, ci pare che i limiti dell’istituto si trovino altrove e in particolare nell’eccessiva invadenza della normativa che lo riguarda. I negoziati e le trattative richiedono agilità, flessibilità, mentre questa negoziazione assistita è farraginosa e infarcita di forme, tutti difetti che non si giustificano a fronte dei soli effetti riconosciuti all’accordo. Per la verità fra i criteri della legge delega figurava anche quello di semplificare la disciplina in parola , ma sembra proprio che l’obiettivo sia stato mancato: basti pensare che la riforma ha confermato perfino il sistema dell’invito a stipulare la convenzione, con tanto di termini prestabiliti, certificazioni e conseguenze di responsabilità aggravata nel caso di rifiuto o mancata risposta.
Questa complessità della negoziazione sembra tanto più inadeguata se la rapportiamo alle controversie di lavoro. Anzitutto, abbiamo a che fare con una materia per la quale il ventaglio delle alternative al giudizio è già molto nutrito, per cui si può dubitare che vi troverà spazio un altro strumento che pare così privo di attrattive. Anche il rilancio che ci si aspetta dall’istruttoria stragiudiziale, probabilmente andrebbe ridimensionato. Per quanto l’oralità sembri ormai destinata al tramonto, se per essa c’è un ultimo baluardo questo va ricercato appunto nel rito laburistico: qui abbiamo una materia nella quale il processo funziona, e funziona anche grazie alla dinamicità della trattazione, alla possibilità di concentrazione effettiva. E’ pensabile, allora, che vi si rinunci per imbarcarsi in un’attività della quale non si ha neppure certezza di riuscita? Il tempo ci darà la risposta.

 

 

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