Testo integrale con note e bibliografia

1. Considerazioni preliminari sull’attenzione normativa, giurisprudenziale e dottrinale alla tematica disciplinare nella p.a. ed ai suoi problemi.

Il Parlamento, con la legge 6 agosto 2021, n. 113, ha convertito in legge il d.l. 9 giugno 2021 n. 80 (c.d. Decreto Reclutamento) recante “Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle Pubbliche Amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l’efficienza della giustizia”.
La legge si compone di due Capi: il primo prevede norme tese a rafforzare la capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni attraverso misure speciali per il reclutamento e modifiche legislative per l’accesso alle aree funzionali dei comparti e all’area della dirigenza, prevedendo nuove modalità di progressione verticale fra le aree riservate al personale interno e nuovi criteri per le progressioni orizzontali. Il secondo Capo è, invece, dedicato alle misure organizzative per l’attuazione dei progetti nell’ambito delle missioni del PNRR con specifiche norme per l’efficienza della giustizia ordinaria e amministrativa, comprese quelle per il reclutamento degli addetti all’Ufficio per il processo e, più in generale, del personale a supporto delle linee progettuali giustizia del PNRR.
Il testo va salutato favorevolmente, tra l’altro, per non essersi affatto interessato della responsabilità e del procedimento disciplinare nella p.a., essendo stati sin troppi negli ultimi anni gli interventi normativi che avrebbero dovuto avere effetti “miracolistici” sull’etica dei pubblici dipendenti e che si sono invece limitati ad offrire alcuni utili pungoli comportamentali (si veda il d.P.R. n.62 del 2013 attuativo della legge anticorruzione n.190 del 2012) e a fornire alcuni correttivi procedurali, innegabilmente rilevanti e migliorativi, contenuti prima nel decreto Brunetta (d.lgs. n.150 del 2009) e poi nei decreti Madia (d.lgs. n.75 del 2017 e d.lgs. n.116 del 2016).
Scopo di queste note è dunque quello non già di commentare sopravvenienze normative del d.l. n.80 del 2021, opportunamente non intervenute in materia, ma di offrire un quadro sintetico degli storici problemi riscontrabili nell’azione disciplinare del datore pubblico e delle soluzioni migliorative offerte dal legislatore, dalla giurisprudenza e dalla dottrina dal 2009 ad oggi.
Ai fini di una compiuta ricostruzione giova dunque premettere che il sistema disciplinare pubblico, dopo la c.d. privatizzazione che, con il d.lgs. n.29 del 1993 (e la connessa contrattazione collettiva) ha stravolto il previgente e ben rodato (seppur connotato da notevoli complessità e lentezze procedurali) regime del d.P.R. n.3 del 1957 ampiamente esplorato dal complesso Tar-CdS, presentava, sino alle riforma Brunetta e Madia, tre rilevanti problemi: a) una certa complessità procedurale ed una parziale poca chiarezza di talune norme a causa di una stratificazione delle fonti che originava frequenti errori gestionali; b) un buonismo sanzionatorio di parte della dirigenza, sovente inerte o autrice di blande sanzioni paternalistiche a fronte di fatti gravi; c) un diffuso perdonismo e formalismo dei collegi arbitrali di disciplina, strumento giustiziale alternativo all’a.g.o.
Il legislatore è però intervenuto su queste tre concause del cattivo funzionamento della macchina disciplinare, crudamente riscontrate e stigmatizzate dalla Corte dei conti, in sede di controllo gestionale, negli anni ’90, attraverso alcuni accurati ed eloquenti referti sulla pessima gestione del procedimento punitivo all’interno della P.A.
La complessa stratificazione normativa e la incertezza su questioni procedimentali della materia disciplinare, all’origine di tantissimi contenziosi vincenti per i lavoratori, sulle quali soprattutto la riforma Brunetta del d.lgs. n. 150 del 2009 è voluta intervenire (ma anche la riforma Madia del 2017 ha dato utili contributi, tra l’altro, sul piano giustiziale: si pensi, tra i tanti, al basilare potere di conversione giudiziale delle sanzioni sproporzionate), sono state la prima concausa del cattivo funzionamento della « macchina disciplinare » nell’impiego pubblico privatizzato.
Tale complessità normativa, oltre che da sopravvenienze normative esplicative, è stata in gran parte dipanata anche da contributi scientifici, che hanno fornito utili spunti interpretativi e sistematici e da una rilevantissima giurisprudenza di legittimità che, soprattutto negli ultimi 10 anni, ha fornito, sulla scorta di pungoli e intuizioni dottrinali, basilari indirizzi nomofilattici, utili per organi disciplinari, avvocati e giudici di merito.
La stessa contrattazione collettiva, con l’ultima tornata 2016-2018, grazie al lavoro di cesello dell’Aran e dei sindacati, ha dato una encomiabile veste grafica unitaria e lineare ai profili sostanziali e procedurali, recependo e rendendo più leggibili e applicabili dagli U.P.D. le diverse normative primarie e negoziali succedutesi negli ultimi anni. Si auspica che l’imminente nuova tornata contrattuale conservi analoghi standard contenutistici e grafici.
Tali esplicativi (e deflativi del contenzioso) interventi dottrinali, giurisprudenziali, normativi e contrattuali sono stati affiancati da una capillare attività formativa degli addetti agli U.P.D. in materia disciplinare, su impulso dello scrivente docente, ad opera della Scuola Nazionale dell’Amministrazione, primo presupposto per attenuare errori gestionali forieri di diffusi ed onerosi contenziosi.
Ma il legislatore è intervenuto anche sulle due ulteriori e concorrenti cause di malfunzionamento della macchina disciplinare pubblica evidenziate nei ricordati referti della Corte dei conti, ma già coglibili sul campo osservando la prassi operativa: il diffuso tollerante comportamento “buonista” di parte della dirigenza nei confronti di micro e macro illegalità all’interno dell’amministrazione ed il non lusinghiero funzionamento dei collegi arbitrali di disciplina (c.d. CAD), troppo spesso propensi negli anni ‘90 (forse a causa della loro composizione eccessivamente sindacalese), da un lato, a formalistici approcci alla materia disciplinare, destinati a portare all’invalidazione delle sanzioni comminate sulla scorta di discutibili vizi procedurali dell’iter sanzionatorio e, dall’altro, a un perdonismo ingiustificato, che ha condotto a sorprendenti derubricazioni delle sanzioni inflitte (spesso passando — in assenza, all’epoca, di sanzioni intermedie — dal licenziamento alla sospensione dal servizio e dalla retribuzione sino a 10 giorni) nei confronti di autori di gravissimi illeciti sulla scorta di singolari (e talvolta risibili) motivazioni .
Per pungolare la dirigenza ad intervenire in modo sistematico su fenomeni di illegalità, la normativa Brunettiana prima (introducendo l’art.55-sexies, co.3 nel d.lgs. n.165 del 2001) e quella Madia dopo (introducendo l’art.55-quater, co.3-quinquies, d.lgs. n.165), hanno ribadito e rimarcato l’obbligatorietà dell’azione disciplinare nel lavoro pubblico, già desumibile dal sistema , attraverso chiare sanzioni, anche espulsive, nei confronti di dirigenti inerti o buonisti.
Per far cessare invece il perdonismo dei Collegi arbitrali di disciplina, la soluzione Brunettiana è stata ancor più radicale e drastica: sono stati abrogati per eccesso di “buonismo-garantismo-sindacalismo”. Il d.lgs. n. 150 del 2009 ha infatti escluso, con l’art. 73, co. 1, la possibilità di impugnare sanzioni disciplinari dinanzi ai collegi arbitrali di disciplina e, con il novellato art. 55, co. 3, d.lgs. n. 165, è stato sancito il divieto per la contrattazione collettiva di istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti disciplinari, introducendo però meccanismi conciliativi non obbligatori, volti alla determinazione concordata della sanzione (c.d. patteggiamento disciplinare, escluso per il licenziamento, certamente non “mercanteggiabile”), che però non sono strumenti giustiziali in senso tecnico, ma istituti deflattivi del contenzioso.

 

2. Le soluzioni ai problemi disciplinari nel decreto Brunetta n.150 del 2019.
Volendo schematizzare le linee portanti dell’art. 7, co. 2 della legge delega n. 15 del 2009, trasfuse nel d.lgs. n. 150 del 2009 che ha ampiamente novellato il d.lgs. n. 165 del 2001 apportando i primi correttivi alle carenze o alle disfunzioni procedimentali dell’iniziale regime disciplinare “privatizzato”, le stesse possono essere così riassunte:
 a) semplificare le fasi dei procedimenti disciplinari, con particolare riferimento a quelli per le infrazioni di minore gravità, nonché razionalizzare i tempi del procedimento disciplinare, anche ridefinendo la natura e l’entità dei relativi termini e prevedendo strumenti per una sollecita ed efficace acquisizione delle prove, oltre all’obbligo della comunicazione immediata, per via telematica, della sentenza penale alle amministrazioni interessate.
La norma ha inteso far chiarezza sulla natura ordinatoria o perentoria dei termini del procedimento, qualificando come perentori i soli termini basilari individuati dal decreto delegato n. 150 e snellire l’iter procedimentale, rendendolo più rapido in fase di attivazione (ad esempio abbreviando i termini di segnalazione all’U.P.D., quelli di attivazione, anche a seguito di sentenze penali, e di chiusura dell’iter punitivo; comunicando la contestazione degli addebiti o atti istruttori al lavoratore tramite posta elettronica certificata o fax; acquisendo in via telematica sentenze relative a fatti di possibile valenza disciplinare, doverosamente trasmesse dalle cancellerie dei tribunali alle amministrazioni di appartenenza del lavoratore; potenziando i mezzi istruttori; snellendo l’iter teso ad infliggere sanzioni minori).
 b) Prevedere che il procedimento disciplinare possa proseguire e concludersi anche in pendenza del procedimento penale, stabilendo eventuali meccanismi di raccordo all’esito di quest’ultimo.
La norma, davvero basilare ed espressiva del più rilevante principio introdotto negli ultimi anni nel sistema disciplinare pubblico, risponde ad una ratio acceleratoria ed al principio di autonomia dell’illecito penale da quello disciplinare. Esso ha inteso superare la c.d. pregiudiziale penale che, nel previgente assetto contrattuale, imponeva la sospensione (spesso per anni) del procedimento disciplinare in attesa del « mito » del giudicato penale. La miglior strada che il d.lgs. n. 150 attuativo della legge Brunetta ha nel 2009 inteso seguire, si è tradotta nell’art. 55-ter nel d.lgs. n. 165 del 2001, con cui viene superata, di regola, la pregiudiziale penale, e, in via di eccezione, viene lasciata la previgente sospensione del procedimento disciplinare, facendola divenire non più obbligatoria ma facoltativa, in attesa delle risultanze penali, solo qualora gli accertamenti istruttori disciplinari si palesassero oggettivamente complessi (in tal caso la riattivazione del procedimento disciplinare avviene entro 60 gg. dalla comunicazione della sentenza, con chiusura nei successivi 120 gg. dopo il d.lgs. n. 75 del 2017 che ha ridotto gli iniziali 180 gg. previsti dal d.lgs. n. 150 del 2009) .
 c) Definire la tipologia delle infrazioni che, per la loro gravità, comportano l’irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento, ivi comprese quelle relative a casi di scarso rendimento, di attestazioni non veritiere di presenze e di presentazione di certificati medici non veritieri da parte di pubblici dipendenti, prevedendo altresì, in relazione a queste due ultime ipotesi di condotta, una fattispecie autonoma di reato, con applicazione di una sanzione non inferiore a quella stabilita per il delitto di cui all’art. 640, secondo comma, del codice penale e la procedibilità d’ufficio.
La norma intendeva cavalcare il contingente, perseguendo fenomeni di lassismo gestionale e condotte illecite, in realtà in gran parte già sanzionate dai previgenti CCNL e valorizzate in alcune circolari della funzione pubblica , assurte a notorietà giornalistica e televisiva per la loro diffusività e per il loro disvalore nella collettività e che il Parlamento aveva deciso di combattere con fermezza, ossia con la massima sanzione, rappresentata dal licenziamento. Il novellato art. 55-quater del d.lgs. n. 165 ha previsto, nel 2009, nuove ipotesi di licenziamento senza preavviso, o ha ribadito previsioni già esistenti nei CCNL. Tali fenomeni, in quanto presenti anche nell’impiego privato, sono stati oggetto di vasta produzione giurisprudenziale e, da ultimo, le ipotesi di licenziamento disciplinare ope legis sancite dall’art. 55-quater, d.lgs. n. 165 sono state ampliate dal d.lgs. n. 75 del 2017, affiancate dal d.lgs. n. 116 del 2016 e n. 118 del 2017.
 d) Prevedere meccanismi rigorosi per l’esercizio dei controlli medici durante il periodo di assenza per malattia del dipendente, nonché la responsabilità disciplinare e, se pubblico dipendente, il licenziamento per giusta causa del medico, nel caso in cui lo stesso concorra alla falsificazione di documenti attestanti lo stato di malattia ovvero violi i canoni di diligenza professionale nell’accertamento della patologia.
La norma, a cui il decreto delegato n. 150 ha dato attuazione introducendo gli artt. 55-quinquies e 55-septies al d.lgs. n. 165, è stata tesa ad inasprire i controlli sui dipendenti in malattia (certificazioni solo da struttura pubblica o da medico convenzionato; fasce orarie di reperibilità ampliate), ad accelerare i tempi di trasmissione telematica (o via fax) dei certificati medici da parte dei medici all’Inps e da questo all’ente di appartenenza (inerzia punibile disciplinarmente per i medici), nonché perseguire condotte dolose non solo dei pubblici dipendenti in occasione di « finte malattie » già sanzionate dai CCNL, ma anche dei medici che concorrano in tali censurabili false attestazioni: per questi ultimi vengono sancite dal decreto delegato n. 150 attuativo (che ha introdotto l’art. 55-quinquies al d.lgs. n. 165 del 2001) sanzioni disciplinari espulsive, sia quali dipendenti pubblici, sia quali liberi-professionisti (sottoposti ad ulteriore azione disciplinare del Consiglio dell’ordine). La norma impone, inoltre, uno snellimento dei controlli e una maggior rapidità nella acquisizione da parte della P.A. di appartenenza dell’esito dei controlli medici, da effettuare in ampia fascia oraria e in qualsiasi giorno della settimana. Il suddetto art. 55-quinquies introduce anche un nuovo illecito penale, punito con pena da 1 a 5 anni e multa da € 400 a €1.600, per utilizzo di certificazioni mediche false per assentarsi dal lavoro, estendendo il reato al medico infedele. La normativa è stata ulteriormente modificata dal d.lgs. n. 75 del 2017, come si chiarirà nel successivo paragrafo.
 e) Prevedere, a carico del dipendente responsabile, l’obbligo del risarcimento del danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché del danno all’immagine subìto dall’amministrazione.
La previsione, non riguardante la responsabilità disciplinare, appare inutile, in quanto la risarcibilità del danno erariale da « violazione del sinallagma contrattuale » per percezione indebita di retribuzione a fronte di controprestazione non resa (per finta malattia, per assenza ingiustificata etc.) era già desumibile dal sistema (l. 14 gennaio 1994 n. 20), come evidenziato dalla dottrina e dalla giurisprudenza contabile, che hanno altresì rimarcato anche la possibile valenza di ulteriore danno all’immagine di tali condotte (nei limiti, irragionevolmente restrittivi, inopinatamente fissati dall’improvvido lodo Bernardo: art. 17, co. 30-ter, l. 3 agosto 2009, n. 102, poi opportunamente ridimensionato dal recente codice del processo contabile: art. 4 dell’all. 3 del d.lgs. n. 174 del 2016) . La norma ha dunque avuto solo una finalità pungolatoria, ovvero di opportuna rimembranza per dirigenti abulici che, per ignoranza inescusabile, non attivino denunce alla Corte dei conti per il recupero delle somme indebitamente percepite da dipendenti responsabili di tali censurabili condotte, aventi valenza non solo disciplinare, ma anche amministrativo-contabile.
 f) Prevedere il divieto di attribuire aumenti retributivi di qualsiasi genere ai dipendenti di uffici o strutture che siano stati individuati per grave inefficienza e improduttività.
La norma attiene a risvolti retributivi di condotte illecite e non riguarda i profili disciplinari, se non indirettamente: essa sancisce un divieto, per i dirigenti, di erogare aumenti retributivi a dipendenti « fannulloni ». L’inosservanza di tale divieto, pertanto, origina una autonoma responsabilità (disciplinare, dirigenziale e amministrativo-contabile) del dirigente, che si aggiunge a quella degli autori dello « scarso rendimento » (quest’ultimo già da anni espressamente sanzionato dai CCNL, che hanno tipizzato tale comportamento, raramente però sanzionato, come i repertori giurisprudenziali e la prassi amministrativa da tempo evidenziano).
 g) Prevedere ipotesi di illecito disciplinare in relazione alla condotta colposa del pubblico dipendente che abbia determinato la condanna della pubblica amministrazione al risarcimento dei danni.
Come è noto, la P.A. risponde verso terzi, a titolo di responsabilità civile, dei danni (per lesione di diritti soggettivi e interessi legittimi) arrecati da propri dipendenti nell’esercizio di compiti istituzionali in virtù del principio della solidarietà passiva sancito dall’art. 28 della Costituzione . Tra le tante voci di danno sopportate dalla P.A. per errori e negligenze dei propri dipendenti va rimarcato il costo della soccombenza in giudizio (spese di lite, accessori sulla sorte capitale), frutto di mancata applicazione di norme basilari in sede di gestione di procedimenti (si pensi alle soccombenze per mancata applicazione della l. 7 agosto 1990 n. 241). A fronte dell’intervenuto risarcimento di tali danni, la P.A. ha l’obbligo di attivare le rivalse, segnalando l’evento alla Procura della Corte dei conti (c.d. danno patrimoniale erariale « indiretto ») nonché di attivare il procedimento disciplinare, come già sancito da tutti i CCNL (sia in passato, sia nell’attuale: v. l’art. 62, co. 3, lett. h, co. 6, lett. 1 e co. 8, lett. e, CCNL Funzioni Centrali 2016-2018, che punisce, come altri CCNL, tale condotta dannosa con varie misure crescenti), rispetto ai quali la l. n. 15 del 2009 è dunque un inutile doppione. Il decreto delegato attuativo n. 150, introducendo l’art. 55-sexies al d.lgs. n. 165 del 2001, ha previsto in tali casi una nuova sanzione disciplinare: quella della sospensione dal servizio e dalla retribuzione da 3 gg. a 3 mesi, così « intersecando », in modo assai discutibile, le due previgenti sanzioni tipiche dei CCNL (la sospensione fino a 10 gg. e quella da 11 gg. a 6 mesi), per la cui inflizione è competente l’U.P.D.
 h) Prevedere procedure e modalità per il collocamento a disposizione ed il licenziamento, nel rispetto del principio del contraddittorio, del personale che abbia arrecato grave danno al normale funzionamento degli uffici di appartenenza per inefficienza o incompetenza professionale.
La norma, attuata dall’art. 55-sexies, co. 2, del d.lgs. n. 165 introdotto dal decreto delegato n. 150 in ottemperanza alla l. n. 15, regola i risvolti non disciplinari degli illeciti già previsti nella precedente lettera f): oltre al profilo disciplinare (la sospensione fino a 10 gg. e quella da 11 gg. a 6 mesi) e retributivo (mancata erogazione di aumenti retributivi o premi), viene normata anche una sorta di “pena accessoria”: « il collocamento in disponibilità », istituto non disciplinare non nuovo nell’ordinamento anche antecedente alla privatizzazione e oggi regolato dagli artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 165 del 2001, ma di verosimile scarso utilizzo in quanto potenzialmente foriero di possibili danni erariali per retribuzione erogata senza beneficiare di controprestazione, se inteso come « parcheggio meditativo, ma retribuito » del dipendente incapace o inefficiente. L’art. 55-sexies, co. 2 cit. sancisce poi che saranno previste forme di eventuale ricollocamento del lavoratore.
 i) Prevedere ipotesi di illecito disciplinare nei confronti dei soggetti responsabili per negligenza, del mancato esercizio o della decadenza dell’azione disciplinare.
La previsione è tra le più opportune della « riforma Brunetta », in quanto esplicita un obbligo già presente nell’ordinamento, ma spesso dimenticato dai dirigenti, come evidenziato dalla Corte dei Conti in alcuni referti al Parlamento di cui si è detto e come si desume da diffuse prassi tolleranti riscontrabili nella P.A. Difatti, tra gli obblighi del dirigente vi è anche quello, analizzato nel successivo parag. 7, lett. a), e opportunamente ribadito dall’art. 6, co. 2, lett. e) della l. n. 15 e dal più recente d.lgs. n. 116 del 2016 (e d.lgs. n. 118 del 2017), di attivare doverosamente e tempestivamente (rispettando cioè i termini perentori) il procedimento disciplinare a fronte di riscontrati illeciti. L’inerzia o il ritardo (in un sistema cadenzato da termini perentori) degli organi competenti (dirigente capo-struttura o dirigente dell’U.P.D.), al pari di immotivate archiviazioni del procedimento, sono dunque puniti, in base all’art. 55-sexies, co. 3, d.lgs. n. 165, introdotto dal decreto delegato n. 150, e poi novellato dal d.lgs. n. 75 del 2017 con la sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino a tre mesi, con privazione della retribuzione di risultato. Tale sanzione opera per inerzie colpose, mentre per quelle dolose (volte a coprire colleghi) è previsto il licenziamento dopo la novella del 2017. Per il personale non dirigenziale inerte (capi-struttura non dirigenti, competenti per il solo richiamo verbale, ma tenuti a segnalare all’U.P.D. i fatti più gravi: v. l’art. 55-bis, co. 1 e 3, d.lgs. n. 165 introdotto dal decreto delegato n. 150 del 2009) la sanzione è parimenti la sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino a 3 mesi o il licenziamento in caso di dolo. Ovviamente tali sanzioni scattano verso i titolari dell’azione disciplinare solo a fronte di condotte, inerti o tardive, dolose o inescusabilmente colpose, mentre una inerzia dettata da ragionevoli motivazioni da esternare (oggettiva scarsa rilevanza del fatto, dubbi sulla valenza disciplinare del comportamento, assenza totale di prove e impossibilità di acquisirne etc.) non potrà essere punita. L’inerzia, ove invece dettata da dolo o colpa grave, originerà anche profili di responsabilità civile (v. art. 55-sexies, co. 4 cit.). Anche la non collaborazione in sede disciplinare del dirigente (e di ogni altro dipendente) è sanzionata dai CCNL ed anche il novello art. 55-bis, co. 7, d.lgs. n. 165 (introdotto dal d.lgs. n. 150 cit.), prevede la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione sino a 15 gg. per chi (anche se dirigente) non collabori in sede di istruttoria disciplinare.
 l) Prevedere la responsabilità erariale dei dirigenti degli uffici in caso di mancata individuazione delle unità in esubero.
Anche questa norma sanziona la diffusa inerzia della dirigenza pubblica nell’individuare personale in esubero da utilizzare in altre articolazioni dell’ente o presso altri enti o per effettuare una corretta programmazione delle assunzioni. Testualmente la norma ipotizza una responsabilità amministrativo-contabile per esborsi non necessari, ma tale danno origina, a catena, una concorrente responsabilità disciplinare del dirigente ai sensi dell’art. 7, lett. h) del medesima l. n. 15.
 m) Ampliare i poteri disciplinari assegnati al dirigente prevedendo, altresì, l’erogazione di sanzioni conservative quali, tra le altre, la multa o la sospensione del rapporto di lavoro, nel rispetto del principio del contraddittorio.
La norma del 2009 ci sembra la più inopportuna e infelice del pur apprezzabile « pacchetto Brunetta » in materia disciplinare, in quanto è notorio che la stasi disciplinare nel pubblico impiego nasce dalla frequente indolenza, pavidità e colpevole inerzia dei dirigenti capi-struttura (prima della novella del 2009 competenti solo su fatti sanzionabili con richiamo verbale o scritto), e non tanto dagli uffici procedimenti disciplinari, competenti, prima della novella del 2009, su fatti punibili con sanzioni maggiori: pertanto, ampliare le competenze sanzionatorie dei capi-struttura su fatti punibili sino alla sospensione fino a 10 gg. può rendere ancora più diffusa l’inerzia disciplinare per la notoria ritrosia nell’impiego pubblico del diretto superiore a sanzionare i suoi subordinati; tale evenienza è più rara per gli U.P.D., stante la loro maggior terzietà rispetto all’incolpato, la centralità degli uffici e la maggiore preparazione professionale dei suoi componenti in una materia assai tecnica e complessa sulla quale i dirigenti capi-struttura, sovente di estrazione culturale non giuridica (tecnica, umanistica, medica, artistica e, in alcuni casi vagliati dalla Corte dei conti sugli incarichi ex art. 19.co. 6, d.lgs. n. 165, addirittura non universitaria), spesso si trovano in seria difficoltà, con conseguente tolleranza di illegalità al solo fine di evitare di intraprendere procedimenti poco conosciuti e gravemente rischiosi in caso di errori. A fronte del dettato legislativo, dunque, il decreto delegato attuativo n. 150 del 2009 ha introdotto l’art. 55-bis del d.lgs. n. 165, che sancisce l’ampliamento dei poteri disciplinari dei capi-struttura con qualifica dirigenziale, competenti sino alla sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino a 10 gg., lasciando all’U.P.D. le restanti sanzioni, mentre i capi-struttura non dirigenti avranno competenza per i fatti punibili con richiamo verbale, dovendo segnalare all’U.P.D. i restanti fatti.
Va rimarcato che l’ampliamento del potere disciplinare del capo-struttura presuppone la sua qualifica dirigenziale, espressiva di capacità e conoscenze adeguate in materia: pertanto, se il capostruttura non avesse qualifica dirigenziale, la competenza anche per sanzioni minimali (salvo il richiamo verbale) verrà devoluta all’U.P.D. su tempestiva segnalazione del cennato capo-struttura.
Sul punto, le critiche da noi mosse a tale modifica in alcuni studi coevi alla riforma , hanno portato il legislatore, con il d.lgs. n. 75 del 2017, a spostare il baricentro punitivo verso l’U.P.D., novellando l’art. 55-bis, co. 1 e 4, d.lgs. n. 165, lasciando al capo struttura il solo richiamo verbale, soluzione anch’essa troppo radicale in eccesso, soprattutto perché non affiancata ad un potenziamento degli organici degli U.P.D. su cui è stata scaricata una massa poderosa di lavoro, soprattutto negli enti più grandi con uffici sull’intero territorio nazionale. Solo nel comparto Scuola alla dirigenza scolastica, alquanto incoerentemente (essendo i dirigenti scolastici spesso privi di conoscenze giuridiche avendo formazione umanistica o tecnica), è stata lasciata la competenza punitiva sino alla sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino a 10 gg. (art. 55-bis, co. 9-quater).
 n) Prevedere l’equipollenza tra la affissione del codice disciplinare all’ingresso della sede di lavoro e la sua pubblicazione nel sito web dell’amministrazione.
È stata forse una delle più opportune previsioni dell’art. 7 in esame, in quanto ha recepito le critiche dottrinali mosse al rigore formale della previgente contrattazione collettiva che, in sintonia con l’art. 7, l. n. 300 del 1970 e della univoca giurisprudenza di legittimità, non ammetteva equipollenti alla « tassativa » affissione cartacea in luogo aperto a tutti i dipendenti. La norma del 2009 ha interpretato tale nozione in chiave moderna, equiparando il sito web dell’ente pubblico alla tradizionale bacheca aziendale posta presso l’orologio marcatempo. L’innovazione, recepita dall’art. 55, co. 2, d.lgs. n. 165 novellato dal d.lgs. n. 150, ha evitato una serie rilevante di ricorsi, spesso vincenti, storicamente incentrati su tale formalistica censura.
 o) Abolire i collegi arbitrali di disciplina vietando espressamente di istituirli in sede di contrattazione collettiva.
Anche tale norma va favorevolmente salutata alla luce del cattivo funzionamento di tali organi giustiziali, affetti da buonismo, perdonismo o formalismo. Il d.lgs. n. 150 del 2009, a fronte dell’infelice esperienza dei rimedi giustiziali alternativi all’a.g.o., ha escluso, con l’art. 73, co. 1, la possibilità di impugnare sanzioni disciplinari dinanzi ai collegi arbitrali di disciplina e, con il novellato art. 55, co. 3, d.lgs. n. 165, ha sancito il divieto per la contrattazione collettiva di istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti disciplinari, introducendo però meccanismi conciliativi non obbligatori (esclusi per il licenziamento, certamente non « mercanteggiabile »): i primi CCNL 2006-2009 area dirigenza successivi alla novella vi hanno dato attuazione (v., ad esempio, l’art. 15 del CCNL 2006-2009 area I dirigenza Ministeri). Nel contempo, il d.lgs. n. 165 ha ribadito la giurisdizione ordinaria in materia disciplinare (art. 76 co. 2, d.lgs.), circostanza che rende inipotizzabili concorrenti rimedi amministrativi, quali il ricorso gerarchico o straordinario, alla luce sia della natura negoziale delle sanzioni disciplinari “privatizzate”, sia dell’art. 7, co. 8, d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104, che esclude i ricorsi amministrativi per le materie non devolute al giudice amministrativo.

 

3. Le soluzioni ai problemi disciplinari nei decreti Madia n.75 del 2017 e n.116 del 2016.
Anche la c.d. riforma Madia, operata con il d.lgs. 25 maggio 2017 n. 75 attuativo della legge 7 agosto 2015 n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, si è diffusamente soffermata sul procedimento disciplinare nel tentativo di eliminare alcune criticità emerse in sede applicativa dopo la riforma Brunetta.
Queste le principali novità apportate dal d.lgs. n. 75 del 2017 e dal d.lgs. n. 118 del 2017 (correttivo del d.lgs. n. 116 del 2016) al d.lgs. n. 165 del 2001:
 a) è stato felicemente modificato nell’art. 55-bis, co. 1, d.lgs. n. 165 del 2001 il predetto riparto di competenze tra capi-struttura ed U.P.D., attribuendo nuovamente ai capi-struttura, anche se non rivestano qualifica dirigenziale , la sola sanzione minimale, ristretta al solo richiamo verbale (secondo le modalità procedurali fissate dal CCNL), assegnando la competenze su tutte le restanti all’U.P.D.
La modifica è dettata dalla presa d’atto che i capi struttura per ragioni varie (non adeguata competenza e specializzazione nella complessa materia; estrazione non giuridica di molti di essi; vicinitas fisica con l’incolpato; pavidità e buonismo dettati dalla contiguità con il subordinato) non esercitano (pur essendo tali inerzie gestionali punibili, ma spesso solo sulla carta) o mal esercitano l’azione disciplinare, con frequenti contenziosi che vedono la P.A. soccombente, o, in altri casi, infliggono sanzioni troppo blande. L’U.P.D., invece, ha maggior competenza tecnica derivante da adeguata selezione del personale, maggior specializzazione e formazione mirata e garantisce maggiore uniformità valutativa (prevenendo contenziosi per disparità di trattamento tra casi eguali), avendo una visione centralistica sull’intero ente e, soprattutto, garantisce più terzietà con un maggior distacco “fisico” dall’incolpato (garanzia di serenità e indipendenza di giudizio), essendo struttura operante a livello centrale e, come tale, non vicina al lavoratore.
A garanzia di terzietà, specializzazione ed economia di scala, è poi praticabile la scelta di gestioni comuni con un unitario U.P.D. al servizio di più amministrazioni: l’art. 55-bis, co. 3, d.lgs. n. 165, introdotto dal d.lgs. n. 75 del 2017, recependo un nostro auspicio , prevede testualmente la possibilità di convenzionamenti tra enti (non necessariamente dello stesso comparto a nostro avviso) per la “gestione unificata delle funzioni” dell’U.P.D. Va fortemente incoraggiata, dunque, la creazione di U.P.D. unitari territoriali, con composizione promiscua, al servizio di più amministrazioni , al fine di valorizzare la terzietà decisoria, la specializzazione in materia e, soprattutto, per aiutare enti di piccole dimensioni privi di personale oppure dove la vicinitas tra incolpato e giudicante interno pone conflitti di interesse o porta a inerzie o buonismi decisionali.
Va ben sottolineato che la novella Madia, nell’attribuire una quasi esclusiva competenza degli U.P.D. in materia, impone di fatto un forte potenziamento di tali uffici, il cui organico andrebbe fortemente incrementato.
 b)  I termini procedimentali per le sanzioni di competenza dell’U.P.D. sono stati unificati (e ritoccati, stabilendo un termine di 10 giorni (e non più 5) per il capo-struttura (anche non dirigente) per segnalare i fatti all’U.P.D., un successivo termine di 30 giorni (non più 40 come nella previgente formulazione) dalla conoscenza (piena da parte dell’organo disciplinare e non di altri uffici) dei fatti per notificare (atto recettizio) la contestazione degli addebiti, un termine dilatorio di 20 giorni per l’audizione e un termine di 120 giorni per la adozione della sanzione (atto non recettizio).
In base all’art. 55-bis, co. 1, alle infrazioni per le quali è previsto il rimprovero verbale si applica invece la disciplina stabilita dal contratto collettivo, che, nell’attuale silente regolamentazione, dovrebbe ricalcare, in forma semplificata, il regime dell’U.P.D.
Inoltre, assai opportunamente , il termine di 120 giorni assegnato dall’art. 55-bis, co. 4, d.lgs. n. 165 all’U.P.D. per chiudere il procedimento disciplinare non è più ancorato, come in passato, alla pregressa conoscenza dell’illecito da parte del capo-struttura (che aveva 5 gg. per segnalarlo all’U.P.D., termine ordinatorio oggi elevato a 10 gg.), ma da una data più certa e chiara, ovvero dalla (notifica della) contestazione degli addebiti fatta dall’U.P.D. al lavoratore nel suddetto termine di 30 giorni dalla conoscenza dei fatti.
La modifica è stata ritenuta necessaria per evitare che, nel pregresso regime, tardive segnalazioni all’U.P.D. da parte di abulici capi-struttura che sforassero i 10 (un tempo 5) giorni ordinatori di legge potessero restringere troppo il tempo (120 gg.) di cui dispone l’U.P.D. per complesse istruttorie.
Il regime resta invece “accelerato” (48 ore per la notifica della contestazione degli addebiti e 30 giorni per la chiusura del procedimento) non solo nei casi previsti dal d.lgs. 20 giugno 2016 n. 116 sui “furbetti del cartellino” come integrato dal d.lgs. 20 luglio 2017 n. 118 (ovvero quelli dell’art. 55-quater, co. 3-bis e 3-ter, d.lgs. n. 165), ma anche, in base al novello art. 55-quater, co. 3, nei casi in cui le condotte punite con il licenziamento siano accertate in flagranza. Da rimarcare che l’accertamento della falsa presenza in servizio viene testualmente ritenuta accertabile ”in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi e delle presenze”, così dandosi ulteriore conferma dell’utilizzo di videocamere di sorveglianza a fini disciplinari .
 c)  Tali termini procedimentali, come in passato, restano di regola ordinatori, salvo il termine iniziale per la notifica della contestazione degli addebiti (30 gg. dalla conoscenza piena-protocollazione da parte dell’U.P.D.) e quello finale per l’adozione della sanzione (120 gg. dalla contestazione), che conservano assai opportunamente e testualmente natura perentoria (art. 55-bis, co. 9-ter, d.lgs. n. 165), come da noi auspicato e come confermato in sede consultiva dal Consiglio di Stato . I soli termini infraprocedimentali, tra cui quello in capo al capo-struttura per segnalare all’U.P.D. i fatti, restano quindi ordinatori, ferma restando la regola generale di tempestività da osservare , che risulterebbe violata da dilazioni smodate e irragionevoli anche di termini ordinatori, come ribadito dal novello art. 55-bis, co. 9-ter introdotto dal d.lgs. n. 75 .
La versione finale del d.lgs. n. 75 del 2017, ribadendo il previgente regime, ha così scongiurato, assai opportunamente, il rischio di trasformare (improvvidamente) in ordinatorio anche il termine iniziale e quello finale: tale trasformazione avrebbe reso nella P.A. di fatto “canzonatori” i termini iniziali e finali, a causa della consueta allegra e abulica gestione indolente dei tempi procedimentali ordinatori (foriera di contenziosi) da parte dei dirigenti pubblici, che necessitano invece di “certezze” temporali, garantite dalla perentorietà e dalle connesse responsabilità in caso di sforamento.
Restano invece opportunamente ordinatori gli assai ristretti termini iniziale e finale del procedimento “accelerato” per i furbetti del cartellino (art. 55-quater, co. 3-bis e 3-ter, d.lgs. n. 165) e per gli autori di condotte punite con il licenziamento e accertate in flagranza (art. 55-quater, co. 3). Tuttavia, l’art. 55-quater, co. 3-ter precisa che non va comunque superato, per la conclusione, il termine massimo e perentorio di 120 giorni dalla contestazione, chiarendo che “La violazione dei suddetti termini, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità della sanzione irrogata, purchè non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente e non sia superato il termine per la conclusione del procedimento di cui all’articolo 55-bis, comma 4”.
d)  Nell’art. 55-quater sono state inserite, sia dal d.lgs. n. 116 del 2016 , che dal d.lgs. n. 75 del 2017, nuove ipotesi di licenziamento disciplinare per:
f-bis) gravi o reiterate violazioni dei codici di comportamento, ai sensi dell’articolo 54, comma 3;
f-ter) commissione dolosa, o gravemente colposa, dell’infrazione di cui all’articolo 55-sexies, comma 3;
f-quater) reiterata violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, che abbia determinato l’applicazione, in sede disciplinare, della sospensione dal servizio per un periodo complessivo superiore a un anno nell’arco di un biennio;
f-quinquies) insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell’ultimo triennio, resa a tali specifici fini ai sensi dell’articolo 3, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 150 del 2009.
Va comunque rimarcato che tali ipotesi di licenziamento vanno lette alla luce del generale e prevalente principio di proporzionalità punitiva, che potrebbe consentire, come confermato dalla Cassazione, per manifestazioni più tenui di tali illeciti, di infliggere anche sanzioni conservative, pur a fronte di un dato testuale che sembra imporre in via esclusiva il licenziamento.
e) Sono state inasprite le pene che, in ossequio al principio di proporzionalità, possono giungere anche al licenziamento:
— sia in caso di violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa che abbia determinato la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno, evenienza per la quale si potrà infliggere una sanzione anche più elevata della previgente massima sospensione dal servizio fino a tre mesi (art. 55-sexies, co. 1);
—  sia in caso di dolose o gravemente colpose (v. art. 55-quater, co. 1, lett. f-ter) inerzie (o lentezze con sforamento di termini) disciplinari o buonismi punitivi (archiviazioni immotivate) degli U.P.D., o omesse segnalazioni dei capi-struttura, che assumono oggi maggior valenza punitiva rispetto alla previgente sospensione dal servizio fino a tre mesi (oltre a poter configurare una responsabilità dirigenziale) in base all’art. 55-sexies, co. 3 novellato dal d.lgs. n. 75.
f) Nell’art. 55-quinquies, al fine di proseguire il percorso intrapreso sul piano legislativo nella lotta all’assenteismo ed alle finte malattie vicine a giorni feriali (assenteismo tattico coincidente con i venerdi e lunedi, o ponti festivi), è stato introdotto un comma 3-bis, che demanda ai contratti collettivi nazionali l’individuazione delle condotte e delle corrispondenti sanzioni disciplinari con riferimento alle ipotesi di ripetute e ingiustificate assenze dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale, nonchè con riferimento ai casi di ingiustificate assenze collettive in determinati periodi nei quali è necessario assicurare continuità nell’erogazione dei servizi all’utenza.
g)  Sempre nel percorso normativo di lotta ai “furbetti del cartellino”, è stato ampliato dal d.lgs. n. 118 del 2017 da 120 a 150 giorni dalla denuncia il termine riconosciuto nell’art. 55-quater, co. 3-quater, d.lgs. n. 165 alla Procura Corte dei Conti per intraprendere l’azione di responsabilità anche per danno all’immagine della P.A., sulla cui introduzione nei decreti attuativi della riforma Madia il Consiglio di Stato ha mostrato serie perplessità e la Corte Costituzionale, con sentenza 10 aprile 2020 n. 61, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della previsione .
h) È stato opportunamente chiarito, attraverso la novella all’art. 63, co. 2-bis del d.lgs. n. 165 ad opera del d.lgs. n. 75 del 2017, che in sede di impugnativa di sanzioni disciplinari, il giudice, qualora ravvisi un difetto di proporzionalità della sanzione inflitta dalla P.A. al proprio dipendente, può egli stesso sostituire, anche senza domanda di parte, la sanzione eccessiva con quella proporzionata (in melius e non in peius secondo univoca giurisprudenza) , convertendola in ossequio al principio di proporzionalità. Tale scelta legislativa ci sembra preferibile alla ipotizzata, ma più complessa, alternativa di demandare, dopo il mero annullamento della sanzione sproporzionata da parte del giudice, alla stessa P.A. il riesercizio dell’azione punitiva emendata dal vizio riscontrato dal giudice (soluzione proposta nella iniziale bozza di decreto “Madia” di febbraio 2017, criticata dal Consiglio di Stato) .
La felice novella, - che chiude, ma anormalmente nel solo lavoro pubblico (con irragionevole pemanenza del problema nel lavoro con datore privato) un antico dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla possibilità o meno di conversione giudiziale della sanzione sproporzionata - serve ad evitare che dopo l’annullamento per sproporzione punitiva da parte del giudice, a fronte di fatti di inequivoca valenza disciplinare, la statuizione meramente “demolitoria” del giudicante impedisca alla P.A.-datrice il riesercizio dell’ormai consumato (anche per scadenza dei termini perentori e tenuto conto del ne bis in idem) potere disciplinare: con la felice soluzione legislativa si attribuisce al giudice il potere di equa rideterminazione punitiva in materia.
i)  Sempre in materia di poteri decisori del giudice, il d.lgs. n. 75 ha poi novellato l’art. 63, co. 2 del d.lgs. n. 165 statuendo che “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali”.
La norma, da un lato, recepisce e dà un imprimatur legislativo all’indirizzo giurisprudenziale volto ad escludere il regime sostanziale delle c.d. tutele crescenti della riforma Fornero (l. 28 giugno 2012 n. 92, che modifica l’art.18, St. lav.) , riconoscendo al lavoratore pubblico la sola e preesistente tutela reale in caso di illegittimo licenziamento. Ma, nel contempo, fissa sia un tetto alla ricostruzione retributiva sia l’obbligo di valutazione, a scomputo, di quanto aliunde perceptum durante l’assenza “coartata” dal lavoro.
j) Ancora in materia di poteri decisori del giudice del lavoro, è stato chiarito nel novello art. 55-bis, co. 9-ter, d.lgs. n. 165, a fronte di frequenti censure di avvocati su profili meramente formali della procedura disciplinare, che “La violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purchè non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività”. Dunque, alla luce di tale testuale dequotazione normativa dei vizi formali (già statuita per i procedimenti amministrativi dall’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990), il giudice valuterà se gli stessi (es. sforamento di termini, errori procedurali etc.) abbiano o meno un effetto invalidante sulla sanzione a seconda della sussistenza o meno della violazione del diritto alla difesa e del generale principio di tempestività .
k) Sono state poi effettuate dal d.lgs. n. 75 del 2017 diverse limature procedurali all’iter punitivo delineato dal d.lgs. n.165:
k.1) all’art. 55-bis, co. 8 è stata meglio normata la potestà punitiva nei confronti del personale trasferito (in mobilità o in comando), stabilendosi che “In caso di trasferimento del dipendente in pendenza di procedimento disciplinare, l’ufficio per i procedimenti disciplinari che abbia in carico gli atti provvede alla loro tempestiva trasmissione al competente ufficio disciplinare dell’amministrazione presso cui il dipendente è trasferito. In tali casi il procedimento disciplinare è interrotto e dalla data di ricezione degli atti da parte dell’ufficio disciplinare dell’amministrazione presso cui il dipendente è trasferito decorrono nuovi termini per la contestazione dell’addebito o per la conclusione del procedimento. Nel caso in cui l’amministrazione di provenienza venga a conoscenza dell’illecito disciplinare successivamente al trasferimento del dipendente, la stessa Amministrazione provvede a segnalare immediatamente e comunque entro venti giorni i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare all’Ufficio per i procedimenti disciplinari dell’amministrazione presso cui il dipendente è stato trasferito e dalla data di ricezione della predetta segnalazione decorrono i termini per la contestazione dell’addebito e per la conclusione del procedimento. Gli esiti del procedimento disciplinare vengono in ogni caso comunicati anche all’amministrazione di provenienza del dipendente»;
k.2) nell’art. 55-bis, co. 4 novellato, nel ribadirsi che il responsabile della struttura presso cui presta servizio il dipendente, “segnala immediatamente, e comunque entro dieci giorni, all’ufficio competente per i procedimenti disciplinari i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare di cui abbia avuto conoscenza”, è stato eliminato il previgente obbligo (contenuto nel vecchio comma 3 dell’art. 55-bis) di comunicare all’interessato l’avvenuta segnalazione all’U.P.D.: trattavasi di incombente inutile già nel previgente testo, in quanto il pieno contraddittorio è comunque garantito innanzi all’U.P.D. e la mancata comunicazione all’interessato non aveva dunque un effetto invalidante, come chiarito dalla Cassazione .
l)  Circa i rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, la novella del d.lgs. n. 75 del 2017, nel lasciare fermo il previgente regime (art. 55-ter, d.lgs. n. 165) che ha di regola superato la pregiudiziale penale, lasciando quest’ultima come eccezione qualora i fatti addebitati siano oggettivamente (e non soggettivamente secondo utilitaristiche e dilatorie valutazioni degli U.P.D.) complessi , ha però previsto che l’azione disciplinare sospesa possa essere riattivata, come avevamo in via interpretativa prospettato in nostri pregressi studi anteriori alla novella Madia , anche prima del giudicato penale, qualora sopravvenuti elementi probatori, tra i quali la sentenza penale di merito (di primo o secondo grado), siano sufficienti secondo l’U.P.D. a supportare sul piano probatorio l’azione disciplinare. La parte finale del novello primo comma dell’art. 55-ter recita, infatti, “Fatto salvo quanto previsto al comma 3, il procedimento disciplinare sospeso può essere riattivato qualora l’amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per concludere il procedimento, ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo. Resta in ogni caso salva la possibilità di adottare la sospensione o altri provvedimenti cautelari nei confronti del dipendente”.
m) Sempre in punto di rapporti tra azione disciplinare e azione penale, la novella del d.lgs. n. 75 del 2017 modifica i termini per la riattivazione e sospensione nelle tre evenienze delineate dall’art. 55-ter, d.lgs. n. 165: in precedenza l’U.P.D. disponeva di 60 giorni dalla comunicazione della sentenza penale per la riattivazione e di 180 giorni da tale riattivazione per la chiusura. Mentre ora il secondo termine è ridotto agli ordinari 120 giorni del procedimento generale, che decorrono integralmente e nuovamente . Recita infatti il novello art. 55-ter, co. 4, che “Nei casi di cui ai commi 1, 2 e 3, il procedimento disciplinare è, rispettivamente, ripreso o riaperto, mediante rinnovo della contestazione dell’addebito, entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza, da parte della cancelleria del giudice, all’amministrazione di appartenenza del dipendente, ovvero dal ricevimento dell’istanza di riapertura. Il procedimento si svolge secondo quanto previsto nell’articolo 55-bis con integrale nuova decorrenza dei termini ivi previsti per la conclusione dello stesso”.
n)  Con la novella del d.lgs. n. 75 all’art. 55-bis, co. 4 del d.lgs. n. 165 è stato attribuito all’Ispettorato della Funzione pubblica (composto tuttavia da un organico troppo limitato) il monitoraggio sul funzionamento del procedimento disciplinare e delle misure cautelari: sia su esiti disciplinari che su archiviazioni (attività in parte già svolta in passato da tale organo) , oltre che sulle sospensioni cautelari. Il problema, che resta irrisolto, è quello delle inerzie disciplinari, ovvero le mancate iniziative che, in quanto tali, non vengono segnalate all’Ispettorato. Sarebbe stato forse opportuno estendere tale monitoraggio, che potrebbe essere svolto anche dalle Sezioni controllo della Corte dei Conti, anche alle sentenze definitive civili, penali, contabili, amministrative e tributarie che vedano soccombente la P.A. o condannati pubblici dipendenti. Tali monitoraggi servono per verificare se vi sia poi stato un seguito disciplinare all’interno dell’amministrazione nei confronti degli autori del danno risarcito dalla P.A., dell’atto o del contratto annullato, della cartella esattoriale annullata ovvero nei confronti del soggetto destinatario di condanna penale o giuscontabile. Tra i soggetti da coinvolgere (con opportuni raccordi con Corte dei Conti e Ispettorato della Funzione Pubblica) in tale delicato e atomistico riscontro andrebbero inserite anche l’ANAC, le avvocature interne e l’Avvocatura dello Stato, che hanno un capillare monitoraggio di tutti i contenziosi riguardanti il proprio ente o comunque presso le pubbliche amministrazioni.
o)  In punto di regime transitorio, infine, l’art. 22, co. 13 del d.lgs. n. 75, statuisce che “Le disposizioni di cui al Capo VII si applicano agli illeciti disciplinari commessi successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. Trattasi di disposizione ispirata ai noti principi sulla successione delle norme afflittive nel tempo, già ben recepiti nella Circolare 27 novembre 2009 n. 9 del Ministro per la P.A. e l’innovazione allorquando fu adottata la riforma Brunetta del 2009.

 

4. I pungoli etici della legge anticorruzione n.190 del 2012 attraverso i Codici di comportamento attuativi del d.P.R. n.62 del 2013.

Se la Riforma Brunetta del 2009 e la riforma Madia del 2017 si sono soffermate, in ottica correttiva e migliorativa, prevalentemente su profili procedimentali e su qualche previsione sostanziale della responsabilità disciplinare, la legge n.190 del 2012 ha invece attenzionato, nelle sue multiformi linee di intervento preventive anticorruttive (in una accezione amministrativistica del termine, quale sinonimo di illegalità), esclusivamente profili comportamentali poco etici del pubblico dipendente, introducendo rilevanti precetti sostanziali (obblighi) attraverso il d.P.R. 16 aprile 2013 n.62 , dettagliati poi dai codici “aziendali” attuativi, adottati da ciascuna amministrazione.
La responsabilità disciplinare, soprattutto attraverso il novello codice di comportamento, si pone in doveroso raccordo con il Piano triennale di prevenzione della corruzione e trasparenza (PTPCT), ovvero con lo strumento attraverso il quale l’amministrazione definisce e formula la propria strategia di prevenzione della corruzione, individuando le aree di rischio in relazione alla propria specificità, mappando i processi, valutando i possibili rischi di corruzione che in essi si possono annidare ed individuando le misure atte a neutralizzare o a ridurre tali rischi. Ciò comporta che, nel definire le misure oggettive di prevenzione della corruzione (a loro volta coordinate con gli obiettivi di performance), occorre parallelamente individuare i doveri di comportamento che possono contribuire, sotto il profilo soggettivo, alla piena realizzazione delle suddette misure . Il codice nazionale di comportamento (d.P.R. n.62) inserisce, infatti, tra i doveri che i destinatari del codice sono tenuti a rispettare, quello dell’osservanza delle prescrizioni del PTPCT (art. 8) e stabilisce che l’ufficio procedimenti disciplinari delle amministrazioni, tenuto a vigilare sull’applicazione dei codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni, deve conformare tale attività di vigilanza alle eventuali previsioni contenute nei PTPCT adottati dalle amministrazioni (art. 15, co. 1 e 3).
Del resto, la predisposizione del codice di comportamento della propria amministrazione spetta al responsabile per la prevenzione della corruzione e trasparenza (RPCT) e a tale soggetto la legge assegna il compito di curare la diffusione e l’attuazione sia del Codice, che del PTPCT (l. 190/2012, art. 1, co. 10 e d.P.R. 62/2013, art. 15, co. 3), aventi comuni finalità pur avendo un diverso ambito applicativo .
Poichè la l. n. 190 del 2012 (art. 1 co. 59) definisce le proprie disposizioni come di diretta attuazione del principio di imparzialità di cui all’art. 97 della Costituzione, ed avendo anche per la responsabilità disciplinare quale fonte primaria la Costituzione, che impone che le funzioni pubbliche siano svolte con imparzialità (art. 97), al servizio esclusivo della Nazione (art. 98) e con “disciplina e onore” (art. 54, co. 2), possiamo quindi individuare una matrice comune nelle norme anticorruzione ed in quelle sul procedimento disciplinare.
Ad esempio, il codice di comportamento adottato con d.P.R. n.62 del 2013 rafforza l’effettività dei precetti costituzionali in tema di azione amministrativa, con disposizioni specifiche sulle modalità cui il dipendente pubblico deve ispirare la propria condotta. I principi generali sono improntati, nel rispetto della Costituzione, al servizio della Nazione con disciplina ed onore e all’esercizio imparziale dei propri compiti e funzioni nel perseguimento dell’interesse pubblico senza abuso della posizione o del potere di cui si è titolari (art. 3, co. 1, d.P.R. n.62).
Ecco dunque perché travalicando, come si è detto, l’accezione “corruzione” nella legge n. 190 i concetti penalistici, ed indicando un’ampia tipologia di comportamenti che, pur non integrando gli estremi di un reato, costituiscono ugualmente un vulnus per la Pubblica Amministrazione, questi ultimi sono spesso sussumibili nel genus della responsabilità disciplinare derivante da violazione di obblighi (o doveri per le carriere non privatizzate) assunti al momento dell’ingresso nella p.a. e fissati dalla legge (d.lgs. n.165 del 2001 e alcune leggi speciali, quali la legge n.190 del 2012), dal CCNL e dal novello codice di comportamento.
Per meglio tarare le regole comportamentali generali sulle esigenze e peculiarità di ciascun ente, l’art. 54, co. 5, d.lgs. n. 165, novellato dalla l. n. 190 del 2012, ha previsto dunque che ciascuna pubblica amministrazione definisca, con procedura aperta alla partecipazione e previo parere obbligatorio del proprio organismo indipendente di valutazione, un proprio codice di comportamento che integra e specifica il codice di comportamento-tipo adottato dal Governo con d.P.R. n. 62 del 2013 in attuazione del comma 1 dell’art. 54.
Nel contempo il co. 3 dell’art. 54 (ripreso dall’art. 16 del d.P.R. n. 62) testualmente prevede che “La violazione dei doveri contenuti nel codice di comportamento, compresi quelli relativi all’attuazione del Piano di prevenzione della corruzione, è fonte di responsabilità disciplinare. La violazione dei doveri è altresì rilevante ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile ogniqualvolta le stesse responsabilità siano collegate alla violazione di doveri, obblighi, leggi o regolamenti. Violazioni gravi o reiterate del codice comportano l’applicazione della sanzione di cui all’articolo 55-quater, comma 1 (il licenziamento, n.d.a.)”.
Anche i vari CCNL di area (v., ad esempio, l’art. 60, co. 1 CCNL Funzioni centrali 2016-2018) testualmente recitano: “Il dipendente adegua altresì il proprio comportamento ai principi riguardanti il rapporto di lavoro, contenuti nel codice di comportamento di cui all’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001 e nel codice di comportamento di amministrazione adottato da ciascuna amministrazione”: pertanto tale codice, un tempo allegato al CCNL e oggi autonomamente redatto unilateralmente da ogni singola amministrazione, è fonte di obblighi di valenza disciplinare, lavorativi ma anche extralavorativi (v. art. 10) per il lavoratore pubblico, anche regionale o locale, in quanto lo Stato può legittimamente dettare doveri nazionali di comportamento e imporre alle amministrazioni, comprese quelle territoriali, di adottare propri codici . Tali codici trovano applicazione anche per le società controllate o partecipate da soggetti pubblici, ponendo problemi di doveroso coordinamento con i previgenti codici etici già adottati da detti soggetti privati in attuazione del d.lgs. n. 231 del 2001 .
Come ben rimarcato dall’ANAC nelle Linee guida 19 febbraio 2020 n. 177, il codice è lo “strumento che più di altri si presta a regolare le condotte dei funzionari e ad orientarle alla migliore cura dell’interesse pubblico, in una stretta connessione con i Piani triennali di prevenzione della corruzione e della trasparenza”.
I suoi precetti, tra l’altro, assumono valenza anche penale, andando a completare, secondo lo schema della norma penale in bianco, la portata applicativa di taluni reati: il riferimento è all’art.323, co.1, c.p. che, nel delineare l’ipotesi di abuso d’ufficio in caso di mancata astensione di un pubblico ufficiale “in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti”, viene necessariamente sostanziato, oltre che dall’art.6-bis della l. n.241 del 1990, soprattutto dall’art.7 del d.P.R. n.62 del 2013, come chiarito dalla giurisprudenza che ammette il completamento di precetti penali attraverso fonti sub primarie-regolamentari .
L’aggiornamento del codice compete al responsabile anticorruzione con il basilare ausilio dell’UPD e di vari stakeholder (vietato il ricorso per la redazione o l’aggiornamento a consulenti esterni), come chiarito dalle predette Linee guida 19 febbraio 2020 n. 177 dell’ANAC.
La previsione del novello art. 54, d.lgs. n. 165 offre un definitivo argomento testuale a conferma della ormai pacifica tesi secondo cui il codice di comportamento — originariamente adottato con d.m. funzione pubblica 31 marzo 1994 (c.d. codice Cassese) e poi abrogato e sostituito dal d.P.C.M. 28 novembre 2000 (c.d. codice Bassanini), a sua volta oggi abrogato e sostituito dal d.P.R. n. 62 del 2013 e dai conseguenti codici interni di recepimento/adattamento — ha, per il personale privatizzato, natura disciplinare e non meramente etica, è dunque hard law e non soft law, come ribadito dall’art. 16 del d.P.R. n. 62 del 2013. La sua inosservanza, dunque, può portare anche al licenziamento .
L’antico dibattito sul valore giuridico del codice, pertanto, deve ritenersi concluso, così superandosi i pregressi indirizzi dottrinali, tendenti a riconoscere giuridicamente e disciplinarmente rilevanti gli obblighi del codice di comportamento solo se recepiti nel CCNL, risultando intollerabili fonti unilaterali di obblighi del lavoratore . Oggi le formulazioni testuali dell’art. 54, d.lgs. n. 165 e dell’art. 16 del d.P.R. n. 62 del 2013 (oltre che dei CCNL di area) riconoscono natura giuridica e disciplinare agli obblighi codicistici, ancorché unilateralmente redatti (ma previa consultazione di stakeholder, v. infra).
Tali precetti sono espressivi non solo di obblighi afferenti la prestazione contrattuale da rendere al datore, ma anche di finalità pubblicistiche di valenza costituzionale (art. 97 Cost.), ben conciliabili con un regime privatizzato (si pensi alla tutela di valori come l’immagine, il prestigio e l’indipendenza della P.A. nei confronti dell’intera collettività, salvaguardati dalle norme del d.P.R. n. 62 del 2013 sui conflitti di interesse; si pensi ai precetti sulla doverosa comunicazione di partecipazioni azionarie o in associazioni, sul divieto tendenziale di accettare donativi, sul divieto di sfruttare la posizione rivestita nella P.A. per ottenere utilità non spettanti, sul dovere di condotte etiche a tutela del “decoro e prestigio” della P.A. in contesti anche extralavorativi, di imparzialità decisionale, di divieto di accettazione di incarichi da soggetti che abbiano interessi economici in decisioni inerenti l’ufficio pubblico ove si lavorava).
Tale codice, fonte equiordinata al CCNL (ed, anzi, a nostro avviso prevalente, essendo attuazione della l. n. 190 del 2012 che, quale fonte legislativa, prevale sul CCNL: tesi confermata dalle Linee guida 19 febbraio 2020 n. 177 dell’ANAC) deve essere coordinato con la fonte negoziale (che deve recepire i precetti del codice di comportamento) per evitare inopportuni conflitti o inutili duplicazioni: la sua maggior duttilità redazionale potrebbe renderlo un utile strumento di dettaglio di più ampi e generici precetti contrattuali a cui è però demandata l’individuazione delle sanzioni. In ogni caso, la sua portata normativa ex art. 54, d.lgs. n. 165 lo distingue dai “codici di comportamento aziendali” adottati da imprese private che, quali meri regolamenti unilaterali d’impresa non aventi rango normativo, sono sottordinati alla legge e al contratto collettivo e individuale.
Il codice va telematicamente affisso nell’intranet e nel sito internet del singolo ente, come statuito dall’art. 17 del codice di comportamento adottato con d.P.R. n. 62 del 2013 e ribadito dalla Circolare 23 dicembre 2010 n. 14 della Funzione pubblica, ma già la dottrina era pervenuta a tale conclusione sotto la vigenza dei pregressi codici di comportamento, stante la natura non legislativa dei suddetti precetti che, come tali, non si presumono noti , anche se la Cassazione li ha ritenuti “principi espressivi di minimo etico”, come taluni precetti del codice disciplinare, e pertanto socialmente noti al lavoratore .
Due le principali novità del novello codice, le cui modalità di redazione sono state oggetto delle Linee guida 24 ottobre 2013 n. 75 e 19 febbraio 2020 n. 177 dell’ANAC:
 a) i precetti, un tempo troppo labili e generici, in quanto tesi ad indirizzare più che reprimere condotte in contrasto con “regole dell’onestà”, nella versione del 2013 del codice sono divenuti più concreti e meno ideali. E le singole amministrazioni devono renderli ancor più puntuali e precettivi in fase di recepimento del d.P.R. n. 62 nel proprio codice di comportamento “aziendale”, non limitandosi a una mera trascrizione del d.P.R. n. 62, condotta pecuniariamente sanzionabile dall’ANAC (v. delibera n. 75 del 2013 ANAC, di seguito analizzata). Sull’applicazione dei codici vigilano i dirigenti responsabili di ciascuna struttura, le strutture di controllo interno, il responsabile anticorruzione, gli uffici di disciplina e l’ANAC (come ribadito dalle Linee guida 19 febbraio 2020 n. 177 dell’ANAC) in un’ottica preventiva e di ethical auditing.
 b) La portata soggettiva dei soggetti tenuti all’osservanza dei precetti è stata ampliata: destinatari delle regole non sono solo i dipendenti, ma “tutti i collaboratori o consulenti, con qualsiasi tipologia di contratto o incarico e a qualsiasi titolo, i titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche”, nonché “i collaboratori a qualsiasi titolo di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione” (art. 2, co. 3, d.P.R. n. 62 del 2013) . Per questi ultimi, l’inosservanza dei precetti, da recepire (anche con richiamo per relationem) nei contratti/accordi/convenzioni che li legano alla P.A., non potendo avere risvolti disciplinari, comporterà, civilisticamente, la risoluzione (o la decadenza) del contratto (dall’incarico) che li lega all’amministrazione.
Molti di tali doveri fissati dal codice di comportamento-tipo (d.P.R. n. 62 del 2013) erano in realtà già menzionati, seppur in modo più generico, nel previgente contratto collettivo (si pensi alle norme sui donativi di modica entità , alle cause di astensione), mentre altri, soprattutto quelli concernenti le condotte extralavorative (che sarebbe auspicabile dettagliare nei codici aziendali: ad esempio sull’uso consapevole dei social), erano parimenti recepiti attraverso la clausola negoziale “di chiusura” statuente la rilevanza disciplinare della violazione dei doveri del dipendente non espressamente ricompresi nella precedente elencazione delle infrazioni (previsione oggi ripresa dai Contratti d’area 2016-2018: v. art. 62, co. 4, lett. 1, co. 8, lett. e, co. 9, lett. g, CCNL Funzioni centrali).
Altri precetti del d.P.R. n. 62 sono invece innovativi: particolarmente felici sono le norme sulle incompatibilità e sui conflitti di interesse da dichiarare e che portano, altresì, alla comunicazione al datore della partecipazione ad associazioni e degli interessi finanziari, anche familiari, con terzi, che possono portare all’astensione del dipendente (art. 5, 6, 7 e 14 del d.P.R. n. 62) , quelle sul comportamento nella vita privata (art. 10) e sul posto di lavoro (artt. 11 e 12), quelle sull’obbligo di vigilanza e di intervento sanzionatorio del dirigente (art. 13, co. 8), quelle sulla valenza disciplinare della violazione dei precetti (art. 16), sulla loro divulgazione e sulla vigilanza sulla loro osservanza (art. 15).
Vanno poi segnalati gli specifici obblighi gravanti sui dirigenti, la cui funzione di “modello comportamentale” e di “garante della legalità interna” è stata molto esaltata dal d.P.R. n. 62.
Per la violazione di molte di queste norme l’art. 16, co. 2 del d.P.R. n. 62 prevede possibili sanzioni espulsive, da valutare sempre in concreto alla luce del principio di proporzionalità.
Assai importante sarà il ruolo delle singole amministrazioni, attraverso l’U.P.D., nell’adattare in un proprio codice “aziendale” (da adottare entro il 31 dicembre 2013, ma aggiornabile anche successivamente) i generali precetti del d.P.R. n. 62 alle proprie peculiari funzioni, in quanto ogni ente ha specificità che richiedono una attenta declinazione delle regole generali, lavorative ed extralavorative, valevoli per tutti i dipendenti . L’adozione dei codici, nonché il loro aggiornamento periodico, dovrà avvenire con il coinvolgimento degli stakeholder, la cui identificazione può variare a seconda delle peculiarità di ogni singola amministrazione . Tali contributi propositivi non vincolano tuttavia l’ente: il codice è, infatti, atto unilaterale datoriale.
Molto opportuna sarebbe, nei codici aziendali attuativi del d.P.R. n. 62 o più correttamente nel CCNL a cui è demandata dal d.lgs. n. 165 tale compito (come ricordano le Linee guida 19 febbraio 2020 n. 177 dell’ANAC), l’indicazione delle sanzioni (tra un minimo e un massimo) correlate agli illeciti ivi censiti, al pari di quanto previsto nel codice disciplinare (v. sopra, paragrafo 3, lett. A), al fine di attenuare il rischio di disparità di trattamento e di difetto di proporzionalità in sede sanzionatoria da parte dei numerosi dirigenti-capi struttura, che non hanno parametri di riferimento. Ben pochi sono i codici che hanno recepito tale suggerimento, preferendo adagiarsi mollemente sul d.P.R. n. 62, il quale, parimenti, non indica tale auspicabile correlazione fatto-sanzione.
Va però segnalato che qualche indicazione su parametri sanzionatori di massima (anche in relazione a illeciti che possono dar luogo a licenziamento) è contenuta nel d.P.R. n. 62 del 2013 il quale, all’art. 16, co. 2 statuisce che “Ai fini della determinazione del tipo e dell’entità della sanzione disciplinare concretamente applicabile, la violazione è valutata in ogni singolo caso con riguardo alla gravità del comportamento e all’entità del pregiudizio, anche morale, derivatone al decoro o al prestigio dell’amministrazione di appartenenza. Le sanzioni applicabili sono quelle previste dalla legge, dai regolamenti e dai contratti collettivi, incluse quelle espulsive che possono essere applicate esclusivamente nei casi, da valutare in relazione alla gravità, di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 4, qualora concorrano la non modicità del valore del regalo o delle altre utilità e l’immediata correlazione di questi ultimi con il compimento di un atto o di un’attività tipici dell’ufficio, 5, comma 2, 14, comma 2, primo periodo, valutata ai sensi del primo periodo. La disposizione di cui al secondo periodo si applica altresì nei casi di recidiva negli illeciti di cui agli articoli 4, comma 6, 6, comma 2, esclusi i conflitti meramente potenziali, e 13, comma 9, primo periodo. I contratti collettivi possono prevedere ulteriori criteri di individuazione delle sanzioni applicabili in relazione alle tipologie di violazione del presente codice”.
Sul punto afferente al recepimento-adattamento del d.P.R. n. 62 nelle singole amministrazioni l’ANAC è stata molto chiara: con la delibera n. 75 del 24 ottobre 2013 (“Linee guida in materia di codici di comportamento delle pubbliche amministrazioni”), ribadita dalle Linee guida 19 febbraio 2020 n. 177, ha affermato che “L’adozione del codice di comportamento da parte di ciascuna amministrazione rappresenta una delle “azioni e misure” principali di attuazione delle strategie di prevenzione della corruzione a livello decentrato, secondo quanto indicato nel Piano nazionale anticorruzione, approvato con delibera della Commissione n. 72 del 2013. A tal fine, il codice costituisce elemento essenziale del Piano triennale per la prevenzione della corruzione di ogni amministrazione”.
Si deve a nostro avviso evitare che le amministrazioni adottino codici che si risolvano in una generica ripetizione dei contenuti del codice generale (d.P.R. n. 62 del 2013): occorre favorire, pertanto, la creazione di condizioni per la predisposizione di codici diversificati in funzione delle peculiarità di ciascuna amministrazione. È necessario, dunque, elaborare regole supplementari rispetto a quelle del d.P.R. n. 62 del 2013, fortemente aderenti alle funzioni peculiari dell’amministrazione e dipendenti dal settore nel quale la stessa opera, ed indicare le connesse sanzioni tra un minimo e un massimo.
Poche amministrazioni hanno però colto l’occasione della “delega” avuta dalla l. n. 190 per dettagliare e adattare i principi e obblighi generali del d.P.R. n. 62 del 2013 alle proprie peculiarità e funzioni istituzionali, come imponeva anche la delibera ANAC n. 75 del 2013, secondo cui “i codici devono tenere conto, in secondo luogo, delle funzioni di natura settoriale che caratterizzano l’amministrazione. A questo riguardo, è necessario elaborare regole supplementari fortemente aderenti alle funzioni peculiari dell’amministrazione e dipendenti dal settore nel quale la stessa opera”. Difatti, la maggior parte degli enti, pur adottando i codici (tranne qualche rara e sorprendente inerzia) , si è limitata a una mera riproduzione grafica dei precetti del d.P.R. n. 62 del 2013, così tradendo la lettera e la ratio della legge n. 190, che imponeva a ciascun ente di “cucire addosso” alle proprie esigenze gli obblighi comportamentali, valorizzando gli obblighi più vicini alle patologie comportamentali di più frequente verificazione o di prevedibile realizzazione alla luce anche di sopravvenienze normative. Ancor minori sono le amministrazioni che hanno correlato gli illeciti alle relative sanzioni.
Tale indolente atteggiamento è stato stigmatizzato anche dall’ANAC che, con il Regolamento 9 settembre 2014 in materia di esercizio del potere sanzionatorio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione per l’omessa adozione dei Piani triennali di prevenzione della corruzione, dei Programmi triennali di trasparenza, dei Codici dì comportamento (n. 14A07503 in GU Serie Generale n. 233 del 7-10-2014), ha chiarito che “equivale a omessa adozione... l’approvazione di un provvedimento privo di misure per la prevenzione del rischio nei settori più esposti, privo di misure concrete di attuazione degli obblighi di pubblicazione di cui alla disciplina vigente, meramente riproduttivo del Codice di comportamento emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 16 aprile 2013, n. 62”. Non va dimenticato che l’art. 19, co. 5, del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, co. 1, della legge 11 agosto 2014, n. 114, prevede che, salvo che il fatto costituisca reato, l’Autorità Nazionale Anticorruzione applichi una sanzione amministrativa non inferiore nel minimo a euro 1.000 e non superiore nel massimo a euro 10.000, nel caso in cui il soggetto ometta l’adozione del Piano triennale di prevenzione della corruzione, del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità o dei Codici di comportamento. La vigilanza ANAC riguarda anche la divulgazione, la formazione del personale e l’aggiornamento del Codice, attraverso verifiche via web o ispettive.
Come detto, solo alcuni enti, in modo encomiabile, hanno colto l’occasione, dettagliando con acume gli obblighi-tipo del d.P.R. n. 62 al proprio interno, facendo tesoro di casistica giurisprudenziale, di precedenti interni e valorizzando novelli obblighi frutto di sopravvenienze legislative. Ad esempio, nel comparto Sanità, in taluni codici aziendali il personale medico è stato sottoposto a più restrittivi limiti in ordine alla partecipazione a convegni e seminari privati e l’ANAC ha confermato la bontà della scelta datoriale con Orientamento numero 21 del 10 giugno 2015, statuente che “È conforme alla norma, ai sensi dell’art. 54, comma 5, del d. lgs n. 165/2001 e dell’art. 1, comma 2, del d.p.r. n. 62/2013, l’individuazione, da parte delle amministrazioni, di regole comportamentali differenziate a seconda delle specificità professionali, delle Funzioni di competenza e delle Funzioni di rischio. La partecipazione a viaggi e convegni, finanziati da soggetti privati, è specificamente disciplinata dagli enti e dalle aziende del S.S.N. in quanto ambito potenzialmente esposto al rischio”.
Ancor più meritoriamente, altri soggetti pubblici (es. l’ACI), in attuazione della cennata delibera ANAC n. 75 del 2013 , hanno fissato per ciascun obbligo violato le relative sanzioni (tra un minimo e un massimo), così correlando (come già fanno i CCNL) obblighi e sanzioni. Tale opportuna scelta agevolerà molto i capi-struttura e gli U.P.D. nell’attività di individuazione delle sanzioni, attenuando il rischio di contenziosi incentrati sulla mancato rispetto del principio di proporziionalità nell’individuazione della sanzione applicabile e sulla disparità di trattamento tra casi eguali.
Occorre ricordare che la legge n. 190, all’art. 1, co. 2, lett. d) (ripreso dall’art. 15, co. 4 del d.P.R. n. 62) ha attribuito un innovativo potere consultivo all’ANAC in ordine alla sussistenza o meno di violazioni del codice di comportamento ad opera di atti o comportamenti di pubblici dipendenti: i capi-struttura e l’U.P.D., pertanto, potranno previamente chiedere chiarimenti all’ANAC su talune fattispecie, ferma restando la natura non vincolante del parere dell’Autorità, secondo i consueti principi sulla portata dei pareri amministrativi e fermo restando il rispetto dei termini perentori procedimentali per iniziare e concludere i procedimenti disciplinari.
Va poi incidentalmente segnalato che anche per le società a partecipazione pubblica o a controllo pubblico, il tema del codice di comportamento e della responsabilità disciplinare assume centrale rilevanza, soprattutto dopo la legge anticorruzione n. 190 del 2012, che ha imposto per le società a partecipazione pubblica l’adeguamento dei previgenti codici etici alla legge n. 190 e al d.P.R. 16 aprile 2013 n. 62 di attuazione (c.d. Codice di comportamento-tipo, a cui devono ispirarsi i singoli enti nel proprio codice aziendale di comportamento) .
La centralità del codice di comportamento è sottolineata dalla cennata Delibera ANAC n. 75 del 2013 che recita: “posto che, sulla base di quanto previsto dal Piano nazionale anticorruzione, il codice di comportamento rappresenta uno degli strumenti essenziali del Piano triennale di prevenzione della corruzione di ciascuna amministrazione, va adottato dall’organo di indirizzo politico-amministrativo su proposta del Responsabile per la prevenzione della corruzione, è da attribuirsi a quest’ultima figura un ruolo centrale ai fini della predisposizione, diffusione della conoscenza e monitoraggio del codice di comportamento. Per quanto attiene alla predisposizione del codice, il Responsabile si avvale del supporto e della collaborazione dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari (U.P.D.), che deve essere costituito obbligatoriamente presso ciascuna amministrazione, per l’esercizio delle funzioni previste dall’art. 55-bis e dell’art. 15, comma 3, del codice generale. A questi stessi soggetti compete anche, al momento della predisposizione del codice, la definizione di alcuni profili applicativi sul piano sanzionatorio. Nell’ambito delle funzioni indicate dal citato art. 15, il Responsabile deve verificare annualmente il livello di attuazione del codice, rilevando, ad esempio, il numero e il tipo delle violazioni accertate e sanzionate delle regole del codice, in quali Funzioni dell’amministrazione si concentra il più alto tasso di violazioni”.
Chiarisce altresì la delibera ANAC che “dovranno essere previste adeguate forme di coordinamento e di collaborazione con l’U.P.D. e il Responsabile per la prevenzione della corruzione. In questa ipotesi, inoltre, dovrà essere precisato il valore sul piano del diritto delle misure adottate da tali organismi, nonché l’individuazione delle conseguenze giuridiche di una loro eventuale violazione”.
Tali approdi risultano confermati dalle Linee guida 19 febbraio 2020 n. 177 dell’ANAC.
I dirigenti pubblici dovranno promuovere e accertare la conoscenza dei contenuti del codice di comportamento — sia generale, sia specifico — da parte dei dipendenti della struttura di cui sono titolari. In questa prospettiva, è necessario che i dirigenti si preoccupino della formazione e dell’aggiornamento dei dipendenti assegnati alle proprie strutture in materia di trasparenza e integrità, soprattutto con riferimento alla conoscenza dei contenuti del codice di comportamento, e l’ANAC, in base alla lett. f) del comma 2 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2012, potrà avvalersi dei propri poteri di vigilanza ivi previsti, nonché dei poteri ispettivi di cui al comma 3 dell’art. 1 della legge n. 190/2012.
Sul piano sanzionatorio l’ANAC, con detta delibera, ha ribadito che la violazione degli obblighi contenuti nel codice di comportamento — sia generale, sia specifico — costituisce fonte di responsabilità disciplinare accertata all’esito del relativo procedimento, nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni, e ha confermato che la violazione di ciascuna regola dei codici costituisce di per sé infrazione rilevante sul piano disciplinare.
Come detto, in sede di predisposizione del codice, in attesa di un auspicabile intervento della contrattazione collettiva, l’amministrazione può specificare, in corrispondenza di ciascuna infrazione, il tipo e l’entità della sanzione disciplinare applicabile, individuata tra quelle previste dalla legge, dai regolamenti e dai contratti collettivi, oltre a quelle espulsive nei casi indicati dai commi 2 e 3 dell’art. 16 del codice generale: purtroppo, ad oggi, pochi enti lo hanno fatto, demandando il complesso compito ai titolari dell’azione disciplinare (dirigenti capi struttura e U.P.D.) così violando una opportuna e, a nostro avviso, doverosa regola, seguita da sempre nei codici disciplinari, ovvero quella sulla indicazione accanto a ciascun illecito delle relative sanzioni (o, per lo meno, una gamma di sanzioni da un minimo a un massimo). Sarebbe auspicabile un intervento del contratto collettivo sul punto, essendo materia ad esso assegnata dal d.lgs n. 165 .
Oltre agli effetti di natura disciplinare, penale, civile, amministrativo e contabile, tali violazioni, secondo l’ANAC, rilevano, infine, anche in ordine alla misurazione e valutazione della performance secondo quanto già indicato con riferimento all’oggetto dei controlli.
Da ultimo, va rimarcato che le norme del Codice di comportamento operano anche nei confronti dei per i titolari dell’azione disciplinare (capo-struttura e addetti all’U.P.D.): pertanto i precetti, ad esempio, sull’obbligo di astensione per conflitto di interesse (es. per legami di parentela o notoria amicizia o inimicizia o per frequentazione abituale) tra incolpato e sanzionante, ove non osservati (d’ufficio o su istanza dell’interessato, non più prevista, quest’ultima, dall’art. 149 d.P.R. n. 3 del 1957, ma desumibile dal sistema e dall’art. 6, d.P.R. n. 62 del 2013) potrebbero dar luogo a contenziosi lavoristici e anche risarcitori nei confronti dei componenti dell’U.P.D. su iniziativa del lavoratore e, persino, a denunce penali ex art.323, ma solo dimostrando intenti persecutori e vantaggi percepiti dal dirigente non astenutosi .

 

5. Conclusioni sulla avvertita necessità di applicare le norme e non di modificarle periodicamente (salvo minimali spunti correttivi per il Parlamento, anche per le carriere pubbliche non privatizzate).

Ci sia consentito concludere queste note con un auspicio finale: come si è visto, il legislatore degli ultimi anni è stato preso da un “furore innovativo” in materia disciplinare, dettato in parte da reali esigenze esplicative e di snellimento procedurale (riforme Brunetta del 2009 e Madia del 2017) o da pungoli etici preventivi (d.P.R. n.62 del 2013 attuativo della l. n.190 del 2012), ma in altra parte da mere finalità politiche di ricerca di consenso mediatico (esempio emblematico: la normativa acceleratoria, anzi la “monomania”, sulla lotta ai furbetti del cartellino, prima con la riforma Brunetta del 2009, poi con il decreto n.116 del 2016).
Dopo tali novelle, dopo gli autorevoli interventi esplicativi e nomofilattici della Sezione lavoro della Cassazione nell’ultimo decennio e dopo attente ricostruzioni sistematiche operate dalla dottrina, è giunto, a nostro avviso, il momento della esclusiva applicazione delle ormai adottate norme, che devono rimanere stabili nel tempo per essere metabolizzate, correttamente seguite dagli organi disciplinari e uniformemente interpretate dalla giurisprudenza.
Occorre smetterla, in altre parole, con continue novelle legislative, quasi che il problema etico delle condotte illecite dei pubblici dipendenti possa essere risolto solo da meri mutamenti procedurali o modifiche della tempistica, o da controlli su badge o addirittura oculari o digitali (o, perché no, con “filo spinato elettrificato”) in ingresso o in uscita dagli uffici, o con norme minatorie nei confronti di dirigenti inerti.
Le modifiche normative, se troppo frequenti, ingenerano solo confusione, dubbi applicativi, errori e, in ultima istanza, contenziosi lavoristici dall’esito spesso devastante per la P.A. Il miglioramento della macchina disciplinare, sotto il profilo procedurale, passa invece, a nostro avviso, attraverso la stabilità dei precetti, la loro autorevole interpretazione da parte della nomofilattica Corte di Cassazione e della più attenta dottrina, la loro divulgazione in contesti interni e la loro ottima conoscenza da parte dei titolari di azione disciplinare con lo studio e la formazione presso la Scuola Nazionale dell’Amministrazione, che da anni, su impulso dello scrivente docente, organizza corsi in materia.
Il miglioramento delle condotte lavorative ed extralavorative dei dipendenti pubblici (ma analoghi rilievi valgono nel privato e nelle libere professioni) non passa invece attraverso reiterate modifiche a norme e contratti collettivi: al degrado etico della società tutta, di cui il pubblico impiego è mera quota parte, si può sopperire solo con il recupero dei valori fondanti del rispetto del prossimo e della cosa pubblica in contesti familiari, scolastici, aggregativi e formativi e con sani esempi di buona politica a cui ispirarsi. Ma anche attraverso una ferma critica (in ogni sede) a condotte poco etiche ed una più ampia divulgazione scientifica, mediatica e convegnistica delle tante “buone prassi” che la P.A. offre attraverso virtuosi e talentuosi dipendenti, i cui esempi di dedizione e competenza possono e devono essere esempio da emulare e a cui ispirarsi.
Ma l’etica del buon esempio va seguita, come sopra già rimarcato, partendo sin dall’ingresso nella P.A., che deve avvenire con concorsi meritocratici e indipendenti, tesi selezionare i migliori con commissioni esclusivamente centrali e nazionali composte da uomini e donne di conclamata terzietà e indipendenza, lontane da realtà locali influenzate da logiche politiche, sindacalesi, lobbistiche, clientelari e di contiguità territoriale. Solo entrando nella P.A. in modo terzo e meritocratico si può garantire tenuta comportamentale e senza compromessi e si possono guidare uffici con etica e competenza, diventando modello da seguire per tanti giovani neo assunti, a cui offrire una immagine laboriosa, indipendente, fattiva e corretta dell’azione amministrativa e dei suoi dirigenti e funzionari.
E tale virtuoso percorso deve proseguire con progressioni di carriera e conferimenti di incarichi dirigenziali apicali ai più meritevoli, scelti da una politica di alto profilo etico e culturale (frutto a sua volta di una selettiva gavetta e formazione e non solo di empatia comunicativa, di pseudodemocrazia in votazioni telematiche o di voto di scambio) e con criteri ancorati alle capacità gestionali e non solo relazionali.
Queste semplici riflessioni sulla necessità di stabilità normativa e nomofilassi interpretativa non possono però essere disgiunte da possibili minimali spunti correttivi che, senza stravolgere l’attuale sistema, lo possano limare in occasione di prossimi interenti normativi sul d.lgs. n.165 del 2001. Difatti la riforma Brunetta nel 2009 e la riforma Madia del 2017, pur raccogliendo suggerimenti tecnici migliorativi propugnati dalla dottrina, ne ha trascurati altri che sarebbe opportuno recepire e che possono così schematizzarsi:
a) l’attuale obbligo di segnalare fatti di valenza disciplinare desunti da condanne penali, sancito dall’art. 154-ter, disp. att. c.p.p. (d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271) introdotto dall’art. 70 del d.lgs. n. 150 del 2009, è testualmente posto a carico della Cancelleria del giudice che ha pronunciato una sentenza penale nei confronti di un lavoratore dipendente di un’amministrazione pubblica, pur se non irrevocabile. Tale obbligo andrebbe dal legislatore più coerentemente posto a carico del giudice estensore della sentenza penale, e lo stesso non dovrebbe essere limitato alle sentenze penali di condanna, ma esteso ai pronunciamenti dei giudici amministrativi, contabili, militari e tributari, qualora, nel depositare la propria sentenza, ravvisassero profili di responsabilità disciplinare in capo a funzionari pubblici coinvolti nel proprio giudizio. Anzi, sarebbe addirittura auspicabile che identico obbligo di segnalazione all’U.P.D. possa essere imposto dal legislatore alle Avvocature interne e all’Avvocatura dello Stato, che hanno un monitoraggio capillare di tutte le sentenze relative al proprio ente, dalle quali desumere condotte colpose o dolose di dipendenti nei campi più vari.
La modifica appare necessaria in quanto non può essere imposta, come nell’attuale assetto normativo, al Cancelliere di un Ufficio giudiziario (Tribunale, Corte d’Appello o Cassazione, ma lo stesso vale per le magistrature speciali) la lettura integrale di tutte le sentenze depositate nel proprio ufficio da decine di giudici per cogliere eventuali profili di illecito disciplinare da segnalare all’amministrazione di appartenenza di una delle parti del processo: tale accertamento può ben farlo, e assai agevolmente (poche righe nel dispositivo), l’estensore della sentenza, che ha letto le carte, ha valutato i fatti e conosce la qualifica di pubblico dipendente dell’imputato o della parte in causa che ha giudicato.
b) Parimenti meritevole di correzione è il dato normativo (art.154-ter, c.p.c. introdotto dal d.lgs. n.150 del 2009) che attualmente impone alle Cancellerie penali di comunicare il solo dispositivo della sentenza all’amministrazione di appartenenza del condannato e, solo se richiesto da quest’ultima, di trasmettere copia integrale del provvedimento. Trattasi di inutile doppia trasmissione, avendo l’amministrazione-datore necessità di ricevere, da subito, l’intera sentenza per trarne esaustivi profili di valenza disciplinare che, ovviamente, il solo dispositivo non evidenzia.
c) Sarebbe auspicabile una norma che imponesse alle Procure della Repubblica, ampliando l’attuale art. 129 disp. att. c.p.p., di notiziare le P.A. della revoca delle misure cautelari adottate nei confronti di pubblici dipendenti, per consentire una immediata revoca delle sospensioni cautelari obbligatorie adottate. L’attuale formulazione dell’art. 129 cit. impone infatti, ad oggi, la sola comunicazione (spesso dimenticata dai P.M.) dell’adozione delle misure restrittive, oltre che dei rinvii a giudizio. Ritardi nella riammissione in servizio per non conoscenza della revoca della misura, possono originare onerosi contenziosi evitabili con il correttivo proposto.
d) E’ inoltre opportuna l’introduzione di una norma che imponga all’Ispettorato della Funzione Pubblica (o alla Corte dei Conti) il monitoraggio non solo sul funzionamento del procedimento disciplinare (attività già svolta da tali organi: v. art. 55-bis, co. 4, e art. 55-quater, co. 3-sexies, d.lgs. n. 165), ma anche sulle sentenze definitive civili, penali, contabili, amministrative e tributarie che vedano soccombente la P.A. o condannati pubblici dipendenti. Tali monitoraggi servono, a nostro avviso, per verificare se vi sia poi stato un seguito disciplinare all’interno dell’amministrazione nei confronti degli autori del danno risarcito dalla P.A., dell’atto o del contratto annullato, della cartella esattoriale annullata, o della condotta che ha portato a condanna penale o giuscontabile. Suggeriremmo di inserire, tra i soggetti da coinvolgere (con opportuni raccordi con Corte dei Conti e Ispettorato della Funzione Pubblica) in tale delicato e atomistico riscontro, anche i responsabili anticorruzione, le avvocature pubbliche interne e l’Avvocatura dello Stato, che hanno un capillare monitoraggio di tutti i contenziosi riguardanti il proprio ente, o comunque presso le pubbliche amministrazioni.
e) Da ultimo, sebbene il tema sia totalmente disattenzionato sul piano normativo, politico e mediatico, e meriterebbe un autonomo studio scientifico, sarebbe auspicabile, non già una mera opera di lifting normativo, ma una profonda riforma dei regimi disciplinari, assai datati e carenti, relativi alle carriere pubbliche non privatizzate, i cui limiti sono stati ben colti da parte della dottrina : soprattutto forze armate e di Polizia, carriere prefettizie e diplomatiche, dipendenti di Autorities, ma anche le Magistrature (in primis quelle speciali, connotate da carenze legislative assai rilevanti ), meriterebbero più che un aggiornamento normativo, ovvero modifiche radicali ispirate alla semplificazione procedimentale (ancora legata al vecchio d.P.R. n.3 del 1957), al superamento della pregiudiziale penale (comportante permanenze pluriennali in servizio di autori di gravi fatti), all’aggiornamento e alla puntualizzazione dei precetti sostanziali (da modificare o integrare alla luce dell’evoluzione sociale e del sistema normativo complessivo).
f) Ma una attenzione normativa, politica e mediatica meriterebbe anche uno dei sistemi disciplinari più carenti e approssimativi del nostro ordinamento, ovvero quello dei Parlamentari, connotato da precetti lacunosi e privi di adeguate sanzioni, davvero risibili a fronte di condotte molto gravi, anche di valenza penale, che meriterebbero, come del resto sancito dallo stesso Parlamento legiferando sui pubblici dipendenti autori di identiche condotte , misure espulsive e non meri richiami con allontanamento dai lavori parlamentari fino a 15 giorni.

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