TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

testo della sentenza

1. Premessa e inquadramento normativo
Una delle questioni più dibattute, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sicuramente l’adempimento dell’onere del repêchage.
Com’è noto, l’art. 3 della L. 604/1966 sancisce che il giustificato motivo oggettivo del licenziamento consiste in ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Affinché sia configurabile un legittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo è necessario, secondo la costante interpretazione dottrinale e giurisprudenziale della succitata disciplina legislativa, che ricorrano contemporaneamente i seguenti requisiti: (i) la presenza di una riorganizzazione aziendale effettiva e concreta che determini la soppressione di uno o più specifici posti di lavoro (come la chiusura di un ufficio o di un reparto o la stessa cessazione dell’attività di impresa); (ii) il nesso di causalità tra l’esigenza aziendale che determina la soppressione dello specifico posto di lavoro e il licenziamento di quel certo lavoratore.

Oltre alla riferibilità della soppressione della posizione lavorativa a decisioni datoriali dirette ad incidere sulla struttura e sull’organizzazione dell’impresa, la giurisprudenza ha, nel tempo, elaborato un ulteriore onere che il datore di lavoro deve rispettare per poter esercitare il recesso dal contratto di lavoro per ragioni organizzative, ossia l’impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore in esubero, il c.d. repêchage. Come detto, quindi, l’obbligo di repêchage non è previsto espressamente dal legislatore, ma rappresenta una creazione di origine giurisprudenziale. Il bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica, sancita dalla Costituzione all’art. 41, ed il diritto al lavoro, altro diritto di derivazione costituzionale, ha portato all’elaborazione giurisprudenziale di limiti e vincoli alla libertà di riorganizzazione del datore di lavoro, introducendo, quindi, l’onere di provare l’impossibilità al rimpiego del dipendente in altre mansioni anche inferiori. Di fatto, introducendo tale obbligo, la giurisprudenza ha inteso il licenziamento come extrema ratio. Dunque, il datore di lavoro deve fare quanto possibile per evitare il licenziamento del dipendente.

L’inserimento di origine giurisprudenziale dell’onere di repêchage in capo al datore di lavoro comporta ed ha comportato numerose problematiche di natura interpretativa relative, tra l’altro, al soggetto in capo al quale debba essere posto l’onere probatorio in tema di repêchage, nonché le eventuali conseguenze che, in caso di mancato rispetto dello stesso, ricadono sul datore di lavoro alla luce della normativa in tema di illegittimità del licenziamento. Dell’argomento se ne è, ad esempio, recentemente occupata la giurisprudenza di legittimità che, con la sentenza n. 35225 del 30.11.2022, si è prodigata nel tentativo di delineare in maniera più puntuale e bilanciata l’onere probatorio ricadente in capo al datore di lavoro in relazione al repêchage.
2. L’onere probatorio in tema di repêchage
Com’è noto, i principi generali che regolano l’onere della prova prevedono che spetti al debitore provare di avere adempiuto l’obbligo sul medesimo gravante, mentre il creditore ha solo l’onere di allegare l’inadempimento altrui. Nello specifico caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro – debitore, sul quale ricade l’obbligo di ricollocare, ove possibile, il dipendente, deve, quindi, provare di aver adempiuto (o meglio provato ad adempiere) al proprio obbligo, mentre il lavoratore – creditore si potrebbe limitare ad allegare in giudizio l’inadempimento dell’obbligo di repêchage. Un tale onere probatorio appare decisamente sproporzionato, soprattutto se applicato alle imprese di grandi o grandissime dimensioni. Per potersi dire assolto l’onere probatorio, infatti, il datore di lavoro sarebbe chiamato ad un’ingente allegazione concernente ogni singola posizione esistente in azienda alternativa a quella occupata dal lavoratore licenziando.

Proprio per attenuare l’ingente onere probatorio summenzionato e rendere l’imprenditore materialmente in grado di assolverlo, la giurisprudenza più risalente si era orientata verso un sistema che prevedesse che la prova di non poter collocare diversamente il lavoratore dovesse essere fornita dal datore di lavoro, ma nell’ambito e nei limiti delle allegazioni offerte in giudizio da parte del lavoratore. In altre parole, veniva richiesta una cooperazione da parte del lavoratore, il quale era tenuto ad allegare ed individuare nei propri atti difensivi le posizioni lavorative alternative a quella presso cui era occupato, implicanti lo svolgimento di mansioni di equivalente contenuto professionale a quelle precedentemente svolte. Una volta assolto tale onere ricadente in capo al dipendente, nel caso in cui il datore di lavoro non fosse riuscito a provare in giudizio l’impossibilità di impiegare proficuamente il lavoratore nell’ambito delle aree aziendali o posizioni di lavoro indicate da quest’ultimo, allora lo stesso sarebbe stato ritenuto inadempiente all’obbligo di repêchage, con conseguente dichiarazione di illegittimità del licenziamento.

La condivisibile posizione assunta dalla giurisprudenza più risalente sul punto è riassunta, tra le tante , nella sentenza della Cassazione civile, sez. lav., 12.08.2016 n. 17091, a mente della quale “in caso di licenziamento per giustificato motivo obiettivo, la prova della impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni nell’ambito dell’organizzazione aziendale non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento del possibile repêchage con mansioni diverse e anche inferiori a quelle originariamente svolte, mediante l’allegazione della esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato; a tale allegazione corrisponde l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del lavoratore nei posti predetti”.

Viceversa, le soluzioni più recentemente assunte da parte della giurisprudenza di legittimità e di merito sono improntate ad una interpretazione assolutamente stretta e puntuale dei principi summenzionati in tema di onere della prova, il quale, sempre secondo tale filone interpretativo, ricade totalmente ed indiscriminatamente in capo al datore di lavoro. Ebbene, quindi, in tale ottica spetta al datore di lavoro la prova dell’impossibilità di ricollocare il dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba alcun onere di allegazione dei posti assegnabili. Il filone giurisprudenziale di cui trattasi può considerarsi riassunto utilizzando le parole della Suprema Corte la quale, nella pronuncia n. 33341/2022, ha statuito che “spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di “repêchage” del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri”. Prosegue la Corte affermando che “incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del c.d. “repêchage”, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore”.

A parere di chi scrive, pur conscio del recente consolidarsi dell’indirizzo giurisprudenziale che tende a porre completamente in capo al datore l’assolvimento dell’onere probatorio in tema di repêchage, tale atteggiamento ermeneutico si appalesa per un’eccessiva rigidità di approccio. Dietro il formale rispetto mostrato dalle sentenze succitate nei confronti dell’ordinaria ripartizione dell’onere probatorio, si rischia di perdere di vista la sostanziale difficoltà che in molti casi il datore di lavoro ha o può avere nell’assolvere tale ingente onere. In altre parole, ritenere che sul lavoratore che abbia impugnato il licenziamento non gravi l’onere di indicare, sia pure in maniera non necessariamente specifica e puntuale, i “posti assegnabili” poiché “una divaricazione tra i suddetti oneri” sarebbe contraria “agli ordinari principi processuali”, rischia di trascurare la reale situazione di fatto delle due parti contrapposte, sposando un eccessivo formalismo che, in generale, nell’ambito delle norme di diritto di lavoro tende sempre a cedere il passo alla reale sostanza dei rapporti, piuttosto che alla formale situazione civilistica che funge da sostrato al rapporto di lavoro.

Si segnala, da ultimo, che la giurisprudenza pare essersi recentemente avveduta dell’eccessiva rigidità dell’impostazione da ultimo sostenuta e summenzionata che, come detto supra, si scontra con una situazione de facto decisamente diversa da quanto generalmente avviene in materie civilistiche “pure”. È stato, infatti, ritenuto congruo da parte del datore di lavoro fornire una prova indiziaria o presuntiva dell’assenza di posizioni in azienda compatibili a quelle del dipendente licenziato. Una tale prova indiziaria o presuntiva, ovviamente, deve avere la forza necessaria a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale. È stata, ad esempio, ritenuta come prova indiziaria sufficiente per ritenere assolta la prova dell’impossibilità del repêchage, non potendo essere sindacata la scelta del datore di lavoro di imprimere alla propria azienda un dato assetto dimensionale, la mancanza di nuove assunzioni di lavoratori di qualifica analoga a quella del licenziato entro un certo arco temporale dal recesso. Sull’argomento della possibilità e della validità della prova presuntiva è tornata di recente la Cassazione, con una sentenza (la n. 35225 del 30/11/2022) la quale ha chiarito come, ove il dipendente medesimo indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili e queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità del predetto repêchage con conseguente e sostanziale ribaltamento dell’onere della prova . Nella sentenza testè menzionata la Suprema Corte afferma un principio di assoluto interesse ai fini del dibattito in tema di onere probatorio connesso al repêchage, il quale aggiunge un ulteriore tassello alla questione qui analizzata, nell’ottica, almeno si presume, di riequilibrare gli oneri tra le due parti in processo ed evitare al datore di lavoro di dover affrontare una vera e propria “montagna probatoria” di difficile scalata. In sostanza, nella sentenza di cui sopra viene affermato che, in caso di recesso per g.m.o., la mancanza di allegazione da parte del lavoratore di elementi comprovanti l’esistenza di posizioni alternative di ricollocamento supporta la posizione (fin lì solo presuntiva o indiziaria) del datore circa l’assolvimento dell’obbligo di repêchage, con importanti conseguenze in tema di legittimità o meno del licenziamento.

Per concludere, in relazione alla ripartizione dell’onere probatorio inerente all’assolvimento del repêchage, il dibattito nel tempo ha assunto connotati variegati e mutevoli. Non si condivide la soluzione più di recente prospettata da parte della giurisprudenza, la quale ritiene la necessità di cooperazione del dipendente nell’assolvimento di detto onere “non coerente con la lettera e la ratio della L. n. 604/1966, art. 5” . A ben vedere, infatti, la norma citata si limita a prevedere che spetti al datore di lavoro provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, senza nulla specificare relativamente all’ulteriore onere di repêchage. Come detto, infatti, e come verrà ancora affrontato nel prossimo paragrafo, la necessità dell’assenza di alcuna possibilità di reimpiego del dipendente in differenti posizioni non è posta dalla legge, ma deriva da un’interpretazione giurisprudenziale che, valorizzando i principi generali dell’ordinamento giuslavoristico italiano, hanno inteso il g.m.o. quale extrema ratio. Non basterà allora fare riferimento alla L. 604/1966, poiché né il testo della norma né la ratio della stessa (anche per via degli anni nei quali è stata promulgata) hanno mai inteso prevedere in capo al datore oneri ulteriori rispetto a quelli ivi specificatamente indicati, ossia la presenza di una valida ed effettiva giusta causa o giustificato motivo. Infine, nemmeno il principio di vicinanza della prova pare far propendere per la correttezza ermeneutica della soluzione recentemente prescelta dalla giurisprudenza, poiché se è vero che il datore di lavoro è colui che più agevolmente può fornire una fotografia della struttura aziendale nell’ottica dell’obbligazione di repêchage, è pur vero che non si può pretendere da questi il raggiungimento di una prova tanto precisa e dettagliata da, di fatto, renderla alla stregua di una probatio diabolica. A maggior ragione se ci si trova in frangenti in cui la collaborazione processuale del lavoratore nell’individuazione delle posizioni astrattamente compatibili con la propria professionalità può riportare l’onere probatorio su binari e livelli che ne consentano la concreta esigibilità in capo al datore di lavoro.
3. Le conseguenze in capo al datore di lavoro in caso di violazione del repêchage
Com’è stato già chiarito supra, nell’intento di porre un ulteriore presidio alla genuinità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato, la giurisprudenza, oltre a quanto disposto dalla L. 604/1966, ha previsto che il datore di lavoro debba aver verificato, preventivamente al licenziamento, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore che si intende licenziare. Tale interpretazione discende dal fatto che, ove il datore di lavoro possa collocare altrove il lavoratore, le ragioni organizzative o produttive del licenziamento diverrebbero in automatico inveritiere o pretestuose.

Partendo da tale assunto, un ulteriore elemento assai dibattuto in tema di assolvimento dell’onere di repêchage sono le conseguenze che derivano dal mancato assolvimento dello stesso da parte del datore di lavoro. La materia appare decisamente complessa, andando ad intersecarsi ed a ricomprendere non solo pronunce della Suprema Corte, ma anche arresti della Corte Costituzionale in materia, nonché le recenti modifiche intervenute al regime applicabile in caso di illegittimità del licenziamento. Proprio in relazione a tale ultimo elemento, si sottolinea fin da subito come il dibattito non possa coinvolgere i licenziamenti per g.m.o. ai quali vengano applicate le tutele di cui al D.Lgs. 23/2015, per i quali è stabilita normativamente unicamente una tutela indennitaria. Ne deriva che nel prosieguo ci si limiterà ad affrontare la tematica in relazione ai soli rapporti di lavoro a cui si applica l’art. 18 della L. 300/1970 così come modificato dalla L. 92/2012.

Sul punto in discussione, anche in questo caso ci si trova dinnanzi ad un dibattito dottrinale e, soprattutto, giurisprudenziale non ancora risolto da parte delle Sezione Unite della Suprema Corte. Secondo la giurisprudenza oggi maggioritaria, il fatto che è all’origine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e che sarà quindi oggetto di verifica giudiziale, include sia le ragioni riorganizzative addotte dal datore, sia il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, sia, in ultimo, configurandosi il licenziamento come extrema ratio, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore. Tale assunto, che di fatto equipara l’assolvimento dell’onere di repêchage ad un criterio fondante e costitutivo del diritto al legittimo recesso dal contratto di lavoro per g.m.o., è altresì sposato dalla Corte Costituzionale che, chiamata con la sentenza n. 125 del 19.05.2022 a pronunciarsi in materia di art. 18 dello Stat. Lav., ha di fatto recepito la natura costitutiva dell’onere di repêchage, il quale, è bene ribadirlo, non costituirebbe un onere aggiuntivo, ma una delle condizioni fondamentali per poter procedersi al recesso.

La tematica delle conseguenze giuridiche in capo al datore di lavoro in caso di violazione dell’onere di repêchage per coloro ai quali si applica l’art. 18 Stat. Lav. prende le mosse dal dettato normativo contenuto nel citato articolo di legge ai commi quarto e quinto. Ove, infatti, il giudice accerti la (manifesta) insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, lo stesso è tenuto ad applicare la tutela di cui al 4° comma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ossia la c.d. reintegra attenuata. Negli altri casi in cui il giudice dovesse accertare che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo addotto dal datore di lavoro, è prevista l’applicazione della c.d. tutela indennitaria piena ex art. 18, comma 5, Stat. Lav.

In seguito alla sentenza del giudice delle leggi citata supra, la tutela reale attenuata risulta applicabile non più nei casi di “manifesta” insussistenza del fatto, ma in tutti i casi generali di insussistenza dello stesso. Correttamente, a parere di chi scrive, risulta essere stato espunto il riferimento al carattere manifesto di tale insussistenza, poiché il requisito della manifesta insussistenza demandava al giudice una valutazione sfornita di criteri direttivi e senza alcun fondamento empirico, a cui si aggiungeva l’impossibilità di valorizzazione di alcun elemento oggettivo specifico. Citando la Corte Costituzionale, infatti: “La sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi” . Anche in seguito alla sentenza di cui sopra, tuttavia, rimane lecito chiedersi quale conseguenza si prospetti in capo al datore di lavoro in caso di mancato adempimento dell’onere di repêchage; ovverosia se il mancato assolvimento di tale onere renda (non più manifestamente) insussistente il fatto posto alla base del licenziamento, oppure no. Sull’argomento si segnala come parte della giurisprudenza, precedentemente alla sentenza della Corte Costituzionale citata, ha avuto modo di affermare che la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” deve intendersi come una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso. Pertanto, nel caso in cui il datore fornisca una prova non sufficiente della impossibilità di impiegare il dipendente in diverse mansioni, non può parlarsi di “manifesta insussistenza” del fatto, con la conseguenza che va applicata la sola tutela risarcitoria (Cfr. Cass. n. 7471/2020; Cass. n. 26460/2019). Mutuando il ragionamento di diritto fatto proprio dalle due sentenze di legittimità testé citate, è possibile sostenere che l’insufficiente prova di poter impiegare aliunde il dipendente non comporti l’insussistenza della ragione alla base del licenziamento e, quindi, la possibilità di reintegra?

Secondo la giurisprudenza maggioritaria , come visto supra, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore. In quanto elemento costitutivo del diritto del datore ad effettuare un licenziamento, il mancato assolvimento dell’onere di repêchage equivale a insussistenza della ragione di recesso dal contratto, comportando la sanzione di cui al comma 4 dell’art. 18 Stat. Lav. In altre parole, secondo tale filone giurisprudenziale il non aver collocato aliunde il dipendente non può che rendere inveritiera ed insussistente la ragione addotta dal datore di lavoro alla base del licenziamento.

L’interpretazione maggioritaria di cui sopra appare non condivisibile. In primo luogo, dal momento che, come più volte chiarito nel corso del presente scritto, l’onere di repêchage non è previsto dalla legge in materia, ma risulta un onere aggiuntivo stabilito dalla giurisprudenza. A parere di chi scrive, infatti, il repêchage (il cui contenuto non è assolutamente messo in discussione si badi bene) costituisce sì un elemento importante ai fini della valutazione della bontà del recesso datoriale, ma non può costituire, sempre per lo stesso ragionamento, un elemento fondamentale dello stesso, al pari dell’effettività o meno della riorganizzazione aziendale alla base del licenziamento. Se, quindi, l’intento dichiarato della c.d. riforma Fornero (e a più riprese riconosciuto dalla giurisprudenza) era quello di limitare la sanzione della reintegra a casi ben definiti e limitati, de facto rendendo la conseguenza indennitaria la “naturale” sanzione in caso di accertata illegittimità del recesso datoriale, allora non si comprende come la violazione di un elemento accessorio della fattispecie di recesso per g.m.o. possa comportare la medesima conseguenza della totale assenza o pretestuosità della ragione economica da cui scaturisce la necessità della riduzione di personale. Peraltro, come già chiarito supra, la disposizione di legge di cui all’art. 3 della L. 604/1966 si limita a definire il licenziamento per g.m.o. come quel licenziamento giustificato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Sotto un altro aspetto, poi, nel momento in cui la sentenza n. 125/2022 della Consulta elide il criterio della necessaria manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, rimane purtuttavia integra la necessità di distinguere tra l’insussistenza del fatto che comporta la reintegrazione e le altre ipotesi di illegittimità del licenziamento per g.m.o. che comportano l’applicazione della tutela indennitaria. Se la legittimità del licenziamento è presente unicamente qualora siano effettive le ragioni alla base del recesso, sia presente un nesso causale tra le stesse e la soppressione della posizione del singolo dipendente e, infine, sia stato assolto l’onere di repêchage, viene allora da chiedersi che spazio residui in capo alla tutela meramente indennitaria. Avrebbe ancora senso il riferimento al comma 7 dell’art. 18 Stat. Lav. alle “altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo” in caso di recesso individuale per g.m.o.? C’è chi potrebbe obiettare (come sostenuto dalla Consulta nella citata sentenza) che residuerebbe la possibilità di applicazione della c.d. tutela indennitaria piena nel caso di errore del dipendente da licenziarsi in applicazione dei criteri di scelta per posizioni del tutto fungibili. Ma anche in tal caso non mancherebbero appigli argomentativi che, invece, potrebbero ritenere che in tali fattispecie il giudice non possa che reintegrare il dipendente in applicazione del comma 4° dell’art. 18 Stat. Lav. D’altronde, la principale tesi argomentativa seguita dalla giurisprudenza in siffatti casi si fonda sul fatto che la ratio della legge Fornero è stata quella di rilegare la tutela reintegratoria a fattispecie residuali. Mentre proprio da quanto è stato detto supra, le sentenze di legittimità e di merito recentemente susseguitesi, nonché le pronunce della Consulta intervenute, hanno inteso scardinare tale assunto, riportando “prepotentemente” (e mi si conceda di dire, talune volte, “impropriamente”) alla ribalta la sanzione della reintegra quale ordinario rimedio di fonte legale. Se tale è il ragionamento seguito per quanto attiene le conseguenze del mancato adempimento dell’onere di repêchage, chi può dire che, nel silenzio del legislatore, tale argomentazione possa essere estesa anche all’errata applicazione dei criteri di scelta in caso di licenziamento intervenuto tra dipendenti del tutto fungibili? A quel punto temo ci si dovrà seriamente interrogare circa il mantenimento nel nostro ordinamento del comma 7 dell’art. 18 Stat. Lav., nonché, più in generale, sugli spazi, o meglio, sul diritto o meno di cittadinanza che la compensazione economica di tipo indennitario ha all’interno del nostro sistema di tutele in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo.

 

 

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