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Testo della sentenza

Secondo la motivazione della sentenza qui annotata si trattava di valutare la “natura effettiva”, e non apparente, del processo di “esternalizzazione del reparto a cui la lavoratrice era addetta al tempo del recesso” del datore, e la valutazione del giudice di merito viene ritenuta incensurabile nel giudizio di legittimità. La Cassazione dice che “la condotta datoriale [era stata] obiettivamente e palesemente artificiosa”, in quanto diretta, attraverso la costituzione di un reparto destinato in breve volgere di tempo ad essere soppresso, “all'esercizio di un potere di selezione arbitraria del personale da licenziare”. Essa approva dunque il ragionamento presuntivo della Corte d'appello, che escluse la necessità di riduzione del personale. A ben vedere però la vera ratio decidendi non sta nella mera apparenza della necessità di ridurre il personale, ma nell'essere stata licenziata una persona che avrebbe potuto essere invece tenuta in servizio, se la cernita dei licenziandi fosse stata attuata con un metodo corretto ossia secondo una selezione non “ arbitraria” bensì tale da gerantire a quella lavoratrice la possibilità di essere mantenuta in servizio.
Spesso è stata posta alla Sezione lavoro della Cassazione, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la questione del significato più o meno esteso dell'espressione “manifesta insussistenza del fatto” posto a base dell'atto espulsivo”, insussistenza giustificante la tutela reale, e non soltanto indennitaria, del lavoratore licenziato, ai sensi dell'art.18, settimo comma, l. n. 300 del 1970, come modif. dall'art.1, comma 42, l. n.92 del 2012. L'art.3, comma 1, d. lgs. n.23 del 2015 precisa poi che la reintegrazione richiede “l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”. In particolare la Sezione ha dovuto stabilire se la detta espressione debba comprendere tutt'e due gli elementi di fatto eventualmente addotti dal datore nel licenziamento, ossia tanto le ragioni inerenti all'attività produttiva quanto l'impossibilità di collocare il lavoratore altrove all'interno dell'azienda, vale a dire di effettuare il cosiddetto repêchage (espressione per la verità non molto elegante, neppure italianizzata in “ripescaggio”, quando riferita ad un essere umano).
La Sezione ha deciso la questione nel senso che la possibilità di diverso collocamento del lavoratore esclude la ravvisabilità del fatto di cui all'art.18 cit. (Cass. 2 maggio 2018 n.10435, Notiz. giur. lav. 2018, 435. nello stesso senso in dottrina R. DIAMANTE, L'abuso nel rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav. 2017, I, 603; M.T. CARINCI, L'obbligo del “ripescaggio” nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del Jobs act, ivi 2017,I,203).
La sentenza è stata poi seguita da Cass. 22 ottobre 2018 n.26675, Notiz. giur. lav. 2019, 87, 25 giugno 2018 n.25717, 8 gennaio 2019 n.181.
La questione rimane così definita nella giurisprudenza, col dissenso della dottrina secondo cui “ l'obbligo/onere di repêchage non ha serio e forte fondamento nel diritto positivo” (R. ROMEI, Le regole del repêchage alla luce della nuova formulazione dell'art.2103 c.c., in Giuseppe Santoro Passarelli. Un giurista della contemporaneità. Liber Amicorum, Torino 2018, 1275; M. FERRARESI, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Dalla legge n.604 del 1966 al contratto a tutela crescenti, Torino 2016, 98 e 222). Tutto sta a vedere che cosa debba intendersi per diritto positivo, considerato il ripensamento attuale e generale in materia di fonti; quanto al rapporto fra legge e giurisprudenza mi permetto di rinviare alla prima parte del mio La dottrina del secondo dopoguerra sull'interpretazione giudiziale. Il contributo della giurisprudenza in materia di rapporto di lavoro, in Giust. civ. 2018, 483.
Quanto all'onere di provare i fatti giustificativi del licenziamento, compresa l'impossibilità di diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni compatibili con la sua qualifica, esso grava sul datore di lavoro ai sensi dell'art.5 l. n. 604 del 1966. Né la ripartizione dell'onere è invertita quando il lavoratore, parte diligente, abbia indicato un possibile posto alternativo (Cass. 5 marzo 2015 n.4460, Arg. dir. lav. 2015, II, 651, con nota di C. MARRANCA, Giustificato motivo oggettivo, obbligo di repêchage e ripartizione dell'onere probatorio).
Cass. n.10435 del 2018 cit. aggiunge che, ferma la detta ripartizione, la manifesta insussistenza del fatto dev'essere riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza del presupposto che consente di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso. In tal modo la Corte sembrerebbe contraddirsi: provato dal datore un fatto dimostrante l'impossibilità di diversa utilizzazione, pare spettare poi al lavoratore di provare che quel fatto è solo un pretesto. Ma in realtà la Corte vuole soltanto dire che il fatto provato dal datore è assoggettato ad una valutazione del giudice discrezionale e tendenzialmente favorevole al datore medesimo, ossia disposta a tener conto della libertà di organizzazione dell'impresa, tutelata dall'art.41, primo comma Cost. e specificamente dall'art.30, comma 1, l. n.183 del 2010. Non spetta, in breve, al giudice di sostituire a quella dell'imprenditore una propria soluzione organizzativa.
Su questi punti si sofferma R. DEL PUNTA in un saggio pubblicato nel 2018 ma scritto prima che la Cassazione si pronunciasse con la sopra citata sentenza n.10435 dello stesso anno(Sulla prova dell'impossibilità di ripescaggio nel licenziamento economico, in Giuseppe Santoro Passarelli. Un giurista della contemporaneità cit. Del Punta osserva giustamente che “la prova richiesta al datore di lavoro deve essere contenuta entro margini di ragionevolezza e nei limiti della contrapposte deduzioni delle parti” ed aggiunge che”in concreto spetta al datore di censire, già al momento del recesso, le possibilità di recupero del lavoratore, per poi provare, con riguardo a quelle possibilità, che esse sono soltanto teoriche, poiché quei posti sono già occupati” (p. 1194 e 1195). Valgono anche le possibilità di impiego in mansioni inferiori (art.3, comma 1, d. lgs. n.81 del 2015).

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