TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. L’esonero dalla responsabilità civile del datore di lavoro per gli infortuni sul lavoro.
Come noto, l’assicurazione contro gli infortuni nasce per garantire una sorta di transazione sociale, che prevede appunto che, con il pagamento dei contributi, il datore di lavoro si libera dalla responsabilità risarcitoria nei confronti dei propri dipendenti; il lavoratore, da parte sua, a fronte del sacrificio relativo appunto alla deroga alle norme civilistiche sulla responsabilità civile, ha in cambio la possibilità di ottenere rapidamente e automaticamente un indennizzo dall’INAIL, anche quando l’infortunio sia avvenuto per caso fortuito, forza maggiore e, persino, per sua colpa.
Ecco allora l’art. 10 del T.U. n. 1124 del 1965 (da ora “T.U.”), al primo comma, prevede il principio generale dell’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro, per cui, normalmente, né il lavoratore può agire nei suoi confronti per il risarcimento del danno subito in occasione di lavoro, né l’INAIL può esercitare l’azione di rivalsa per il recupero delle prestazioni erogate in conseguenza di eventi infortunistici.
A tal proposito, la Corte costituzionale ha voluto comunque chiarire che “l'esonero opera pertanto all'interno e nell'ambito dell'oggetto dell'assicurazione, così come delimitata dai suoi presupposti soggettivi ed oggettivi. Laddove la copertura assicurativa non interviene per mancanza di quei presupposti, non opera l'esonero: e pur trovando il danno origine dalla prestazione di lavoro, la responsabilità è disciplinata dal codice civile, senza i limiti posti dall'art. 10 del T.U. del 1965. Come è stato affermato in sintesi in dottrina, se non si fa luogo alla prestazione previdenziale, non vi è assicurazione: mancando l'assicurazione, cade l'esonero” .
Secondo l’opinione tradizionale, la regola dell’esonero sarebbe il corollario del carattere mutualistico dell’assicurazione obbligatoria , ma questa impostazione, in realtà, non è più così pacifica. In effetti, la crisi della teoria della transazione sociale deriva, innanzitutto, dall’evoluzione che vi è stata nel mondo del lavoro. Il rapporto di subordinazione, che era l’elemento costitutivo dell’obbligo assicurativo, non è più (o non è sempre) così nitido (si pensi alla parasubordinazione e ai modelli di lavoro flessibile) e, inoltre, si rileva spesso una dissociazione tra datore di lavoro formale e sostanziale (come nella somministrazione o nel distacco). D’altra parte, le organizzazioni imprenditoriali sono divenute molto complesse, con una ripartizione di competenze e di responsabilità inimmaginabile fino ad alcuni decenni fa, che rende inadeguato o insufficiente il riferimento al solo datore di lavoro come figura di riferimento, anche ai fini della tutela dei dipendenti dagli infortuni e dalle malattie professionali.
In questo senso può essere letto l’orientamento volto ad estendere le responsabilità ex artt. 10 e 11 del T.U. a tutti quei soggetti cui fa capo il debito di sicurezza nei confronti del lavoratore, a prescindere da colui che abbia effettivamente corrisposto il premio assicurativo, come appunto a suo tempo chiarito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 3288 del 1997 .
Come la responsabilità, allora, anche l’esonero dovrebbe essere sganciato dall’obbligo contributivo e conseguentemente esteso a tutti i soggetti che sono tenuti a garantire la sicurezza dei lavoratori.
La logica dello scambio (pagamento del premio contro esonero da responsabilità), del resto, non sembra in linea con i principi costituzionali di solidarietà e di ampia tutela del lavoratore. L’assicurazione sociale, in altre parole, non ha (o non ha più) come finalità essenziale quella di garantire il rischio d’impresa, ma è volta essenzialmente alla protezione del lavoratore, sia nel momento in cui questi si viene a trovare nello stato di bisogno conseguente agli eventi dannosi di natura professionale sia, e forse soprattutto, prima che tali eventi si verifichino, con una sempre maggiore attenzione dedicata alla prevenzione . Pertanto, sembra ormai più corretto riferire il principio dell’esonero a ragioni di carattere prevenzionale, piuttosto che a logiche di tipo assicurativo .

2. L’azione di regresso dell’INAIL.
L’esonero, comunque, ai sensi dell’art. 10, commi 2-5, del T.U., non opera quando l’infortunio o la malattia professionale siano conseguenti a un reato perseguibile d’ufficio addebitabile al datore di lavoro o a tutti coloro sui quali gravano specifici obblighi di prevenzione e di sicurezza a favore del lavoratore (compresi colleghi di lavoro, sovrintendenti, soci, amministratori, committenti, responsabili della sicurezza, somministratori, utilizzatori, appaltanti, appaltatori, ecc.) ; quindi, in questo caso l’infortunato può agire contro tali soggetti per il risarcimento e l’INAIL per il recupero del costo delle prestazioni erogate in relazione all’evento, ai sensi dell’art. 10, commi 2 e 3, e dell’art. 11, comma 1, del T.U.
Si prescinde invece dalla sussistenza della responsabilità penale del datore di lavoro o dei suoi dipendenti nel caso di infortuni occorsi a minori assunti contro la legge (art. 24 L. 17 ottobre 1967 n. 977).
Il reato perseguibile d’ufficio si ha in tutte le ipotesi in cui l’evento produca la morte del lavoratore (artt. 575, 584 e, soprattutto, 589 c.p.) o lesioni volontarie con inabilità temporanea superiore a venti giorni e/o con postumi (art. 582 c.p.) o lesioni colpose gravi, con inabilità temporanea superiore a quaranta giorni e/o con postumi, quando derivino da violazioni di norme antinfortunistiche, oppure una malattia professionale (art. 590 c.p.).
Ai fini dell’azione di regresso dell’INAIL, tuttavia, come chiarito dalla Consulta con le sentenze n. 22 del 1967 e n. 118 del 1986 , non è più necessario che il datore di lavoro sia stato penalmente condannato, ma è sufficiente che l’accertamento del fatto di reato sia compiuto dal giudice civile; ciò anche nel caso in cui il procedimento penale, avviato nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, sia stato archiviato oppure si sia concluso con proscioglimento con sentenza o in sede istruttoria o, addirittura, quando non sia stato neanche avviato. Di fatto, quindi, per l’azione ex artt. 10 e 11 del T.U. era venuta meno, già a suo tempo, la pregiudizialità penale, secondo un principio di indipendenza tra accertamento penale ed accertamento civile, che è stato poi generalizzato nel 1988 del nuovo codice di procedura penale (v., in particolare, artt. 75 e 654 c.p.p.) .
A questo punto, considerato che l’azione di regresso può essere quindi promossa indipendentemente da quanto accade in sede penale e che, per la perseguibilità d’ufficio, è sufficiente la contestazione di qualsiasi norma antinfortunistica, compresa quella di cui all’art. 2087 c.c., che viene considerata norma di chiusura del sistema prevenzionistico (estensibile a situazioni e ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione) , appare evidente che l’eccezione alla regola dell’esonero comprende una casistica di ipotesi di responsabilità così ampia che finisce, forse, per prevalere su quella in cui l’azione dell’INAIL (e anche del danneggiato) è preclusa .
In effetti, al di là delle specifiche norme antinfortunistiche, giustamente sempre più stringenti, il dovere dell’imprenditore di “adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, di cui all’art. 2087 c.c., comporta una responsabilità molto gravosa.
Si ritiene, inoltre, che tale responsabilità, abbia natura contrattuale, non solo nei confronti del lavoratore, che ha appunto un rapporto di lavoro, ma anche nei confronti dell’INAIL , come ha meglio chiarito la Suprema Corte, con la sentenza n. 12041 del 2020, motivata in modo particolarmente attento ed articolato . Ciò significa che, in presenza della prova del danno subito dall’assicurato in occasione o a causa dell’attività lavorativa, spetta al datore di lavoro l’onere, non certo semplice, di dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie per la tutela dell’integrità psico-fisica del proprio dipendente e di aver adempiuto agli obblighi di formazione, informazione e controllo, anche in relazione alla corretta utilizzazione di presidi antinfortunistici (art. 1218 c.c. e 2087 c.c.) .
L’orientamento della Corte volto a riconoscere la natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro (e degli obbligati alla sicurezza), sia detto per inciso, non arriva tuttavia al punto di eliminare il presupposto della sussistenza del reato perseguibile d’ufficio di cui all’art. 10 del T.U. ai fini delle azioni di risarcimento del lavoratore e di regresso dell’INAIL. Come ci ricorda la Corte di cassazione nella sentenza n. 12041 del 2020, sopra richiamata, infatti, “Le Sezioni unite civili (sent. n. 27337 del 2008) (…) constatano poi che dalla disciplina del nuovo codice di procedura penale si ricava come il nostro ordinamento non è più ispirato al principio dell'unitarietà della giurisdizione ma "a quello dell'autonomia di ciascun processo e della piena cognizione, da parte di ogni Giudice, delle questioni giuridiche e di accertamento dei fatti rilevanti ai fini della propria decisione", conseguendo che "attualmente costituisce punto fermo che il Giudice civile si può avvalere nell'ambito dei suoi accertamenti in merito all'esistenza del fatto considerato come reato, di tutte le prove che il rito civile prevede".
Si consideri poi che, come da giurisprudenza costante (che si è formata specialmente in relazione a patologie asbesto-correlate), il datore di lavoro è responsabile dell’evento, sia penalmente sia, di conseguenza, civilmente, anche quando con la sua condotta abbia soltanto contribuito alla determinazione del danno o quando lo abbia semplicemente aggravato, magari accelerandone l’evoluzione in peius .
Oltretutto, ogni qual volta la violazione di un obbligo di prevenzione da parte dell’imprenditore sia giuridicamente da considerare come munita di incidenza esclusiva rispetto alla determinazione dell’evento dannoso, la colpa del lavoratore (a meno che non si configuri come colpa abnorme, imprevedibile ed esorbitante) non comporta un concorso idoneo a determinare una limitazione dell’azione di regresso dell’INAIL; il che avviene, in particolare, quando l’infortunio si sia realizzato in esecuzione di specifici ordini o disposizioni datoriali, che impongano colpevolmente al lavoratore di affrontare il rischio, oppure quando l’infortunio scaturisca dall’avere il datore di lavoro integralmente impostato la lavorazione sulla base di disposizioni illegali e gravemente contrarie ad ogni regola di prudenza, oppure, infine, quando vi sia inadempimento datoriale rispetto all’adozione di cautele, tipiche o atipiche, concretamente individuabili, nonché esigibili ex ante e idonee ad impedire, nonostante l’imprudenza del lavoratore, il verificarsi dell’infortunio . Non conta, infine, che l’infortunato sia un lavoratore esperto, perché comunque, neanche in tal caso, viene meno l’obbligo di vigilanza e controllo da parte del datore di lavoro, essendo inconcepibile la possibilità teorica e pratica che un soggetto svolga il ruolo di preposto di sé stesso .
In ogni caso, sebbene la responsabilità di cui all’art. 2087 c.c. sia molto estesa, non si può arrivare a considerarla come ipotesi di responsabilità oggettiva e, quindi, non si può legittimamente esigere che l’imprenditore predisponga misure idonee a fronteggiare ogni causa di infortunio, comprese quelle imprevedibili ; la norma non comporta un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e utile a evitare qualsiasi danno, tanto da addebitargli qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile e inevitabile. In altre parole, dal semplice verificarsi dell’infortunio, non si può automaticamente presupporre l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto .
Si tratta, pur sempre, di responsabilità colposa e, per questo, occorre verificare, di volta in volta, il difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire danni per i lavoratori, in relazione alla specifica attività lavorativa . D’altra parte, se si opinasse diversamente, si perverrebbe forse, come da alcuni paventato, alla sostanziale soppressione del principio dell’esonero .
Nel caso di concorso di più soggetti nella lesione del diritto alla salute del lavoratore, infine, ancorché le condotte lesive siano fra loro autonome e diversi siano i titoli di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale) e le norme giuridiche da essi violate, ciascuno è responsabile in solido, ai sensi dell’art. 2055, comma 1, c.c., e, comunque, in base ai principi che regolano il nesso di causalità, perché ciò che conta è l’unicità del fatto dannoso determinato da una pluralità di condotte illecite .
In sintesi, nelle ipotesi in cui l’infortunio derivi appunto da un fatto di reato perseguibile d’ufficio, commesso dal datore di lavoro o dai suoi dipendenti o da tutti coloro che abbiano un obbligo di sicurezza nei confronti del lavoratore, l’INAIL, come prevede l’art. 11, comma 1, del T.U., è comunque tenuto a erogare le prestazioni di legge, ma ha la possibilità di agire poi in regresso contro le persone civilmente responsabili, per recuperare le somme pagate a titolo d’indennità e per le spese accessorie .
Considerato che, come si è accennato, il principio dell’esonero va ormai collegato a ragioni di carattere prevenzionale, anche all’azione di regresso viene attribuita una funzione monitoria, in quanto, come hanno affermato le Sezioni unite della Suprema Corte, essa “costituisce un’ulteriore remora all’inosservanza delle norme poste a prevenzione degli infortuni” (Cass., sez. un., 16 aprile 1997 n. 3288, citata).
A tale funzione appare correlato anche il terzo comma dell’art. 11 del T.U., inserito dall’art. 1, comma 1126, lettera g), della legge di bilancio 2019, che prevede un ampio potere del giudice nella liquidazione dell’importo dovuto all’INAIL da parte del datore di lavoro, che si sia adoperato, prima o dopo l’evento dannoso, per adottare misure di prevenzione; infatti, nella nuova norma si legge che “il giudice può procedere alla riduzione della somma tenendo conto della condotta precedente e successiva al verificarsi dell’evento lesivo e dell’adozione di efficaci misure per il miglioramento dei livelli di salute e sicurezza sul lavoro” e può anche definire le modalità di esecuzione dell’obbligazione “tenendo conto del rapporto tra la somma dovuta e le risorse economiche del responsabile”. Si tratta di un beneficio per il datore di lavoro sicuramente diretto a premiare comportamenti virtuosi (configurabili come una sorta di ravvedimento operoso), con chiare finalità di prevenzione, analogo al vantaggio della riduzione del tasso specifico aziendale previsto per le imprese che agiscono, appunto, per migliorare i livelli di salute e sicurezza sul lavoro .
L’azione di regresso è stata poi potenziata dalla espressa previsione di cui all’art. 2 della L. 3 agosto 2007 n. 123, poi sostituito dall’art. 61 del D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, dove si dispone che “in caso di esercizio dell’azione penale per i delitti di omicidio colposo o di lesioni personali colpose, se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbia determinato una malattia professionale, il pubblico ministero ne dà immediata notizia all’INAIL ai fini dell’eventuale costituzione di parte civile e dell’azione di regresso”. La norma, quindi, oltre a prevedere espressamente il diritto di costituzione di parte civile dell’Istituto nel processo penale, volto all’accertamento delle responsabilità del datore di lavoro per gli eventi dannosi dei suoi dipendenti di natura professionale, garantisce all’Ente anche un coinvolgimento sin dall’avvio del processo stesso.
Al di là della possibilità per l’INAIL di intervenire nel processo penale, la sede naturale dell’azione di regresso resta comunque quella civile e, trattandosi di controversia previdenziale, la competenza è del giudice del lavoro del luogo in cui ha sede l’ufficio dell’Ente che ha erogato le prestazioni (art. 444, comma 3, c.p.c.) .
Per quanto riguarda il termine di tale azione, l’art. 112, comma 5, del T.U., dispone che “Il giudizio civile di cui all’art. 11 non può istituirsi dopo trascorso tre anni dalla sentenza penale che ha dichiarato di non doversi procedere per le cause indicate nello stesso articolo (morte del reo e amnistia). L’azione di regresso di cui all’art. 11 si prescrive in ogni caso nel termine di tre anni dal giorno nel quale la sentenza penale è divenuta irrevocabile”. Come stabilito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 3288 del 1997, già ricordata, la norma “contempla due fattispecie diverse, previste allorché esisteva la pregiudizialità penale, delle quali la prima è caratterizzata dalla mancanza di un accertamento del fatto-reato da parte del giudice penale e la seconda, invece, dall’esistenza di tale accertamento con sentenza penale di condanna (pronunciata nei confronti del datore di lavoro o dei suoi dipendenti o dello stesso infortunato); correlativamente l’azione di regresso dell’INAIL soggiace, nella prima ipotesi (ai sensi della prima parte dell’ultimo comma dell’art. 112 su richiamato) al termine triennale di decadenza che (insuscettibile di interruzione) decorre dalla data della sentenza penale di non doversi procedere (id est: dal momento del suo passaggio in giudicato), e, nella seconda ipotesi (ai sensi dell’ultima parte dello stesso art. 112), al termine triennale di prescrizione, che decorre dal giorno nel quale è divenuta irrevocabile la sentenza penale di condanna”.
Ormai, tuttavia, come si è tentato di chiarire, visto che il nostro ordinamento non è più ispirato alla regola dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, della disposizione resterebbe il principio secondo il quale, se vi è un provvedimento che esclude l’accertamento della responsabilità penale, il termine è di decadenza, negli altri casi, considerato il principio secondo il quale ogni limitazione dell’esercizio del diritto deve considerarsi un’eccezione (art. 24 e 112 Cost.) , il termine è invece di prescrizione.
Si applica quindi la decadenza, con termine decorrente dal passaggio in giudicato, nei casi di sentenza di non doversi procedere per amnistia o per morte dell’imputato (come espressamente previsto dall’art. 112, comma 5, T.U.) e di sentenza dibattimentale di prescrizione del reato , e nell’ipotesi, equiparabile alle precedenti, del decreto di archiviazione dibattimentale, con termine decorrente dalla sua emanazione .
L’azione di regresso è invece sottoposta al termine di prescrizione triennale nel caso di sentenza o di decreto penale di condanna (come espressamente previsto dall’art. 112, comma 5, T.U.) , di sentenza di patteggiamento , di sentenza di assoluzione per motivi di merito (che, venuta meno la pregiudiziale penale, non preclude l’azione civile) e, infine, nell’ipotesi di mancato esercizio dell’azione penale ; in quest’ultimo caso, come statuito dalla Suprema Corte nella sua composizione più autorevole, con sentenza n. 5160 del 2015, il termine inizia a decorrere dal pagamento dell’indennizzo o dalla costituzione della rendita, che rappresentano i fatti costitutivi del diritto di rivalsa dell’INAIL .

3. Il limite del danno civilistico imposto all’azione di regresso.
La Corte costituzionale, se da un lato ha confermato la legittimità costituzionale dell’azione di regresso dell’INAIL, in deroga alla regola generale dell’esonero , dall’altro, ne ha però limitato la portata perché ha ritenuto che l’art. 11, comma 2, non fosse compatibile con i principi costituzionali nella parte in cui consente all’INAIL di avvalersi, nell’esercizio del diritto di regresso contro le persone civilmente responsabili, anche delle somme dovute al lavoratore infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o alla riduzione della capacità lavorativa generica . Secondo la Consulta, infatti, come si legge nella sentenza n. 485 del 1991, sulla scorta dell’indirizzo secondo il quale anche per l’azione di regresso, come per quella di surroga, il responsabile civile non può essere tenuto ad un risarcimento complessivo superiore a quello che avrebbe pagato in assenza dell’intervento dell’INAIL , consentire che l’assicuratore, nell’esercizio del proprio diritto di rivalsa, si avvalga anche del diritto dell’assicurato al risarcimento del danno biologico non coperto dalla prestazione assicurativa significherebbe sacrificare il diritto dell’assicurato stesso all’integrale risarcimento di tale danno, con conseguente violazione dell’art. 32 Cost.
Di fatto, si tratta di una limitazione sostanzialmente analoga a quella prevista per le azioni di surroga dell’INAIL e imposta dagli interventi della Consulta n. 319 del 1989 e n. 356 del 1991, forse discutibile per il regresso.
In particolare, il problema di non sacrificare l’integrale diritto al risarcimento del danno del lavoratore deriva dalla inveterata convinzione che la responsabilità del datore di lavoro sia contenuta nei limiti del danno civilistico anche quando debba rispondere dell’infortunio ai sensi degli artt. 10 e 11 del T.U. e che vi sia, quindi, anche in tale ipotesi un budget massimo da ripartire.
Secondo l’orientamento ampiamente consolidato , infatti, come si evince chiaramente dalla sentenza della Consulta n. 107 del 1975 (alla quale tale indirizzo risale), la ragione essenziale del contenimento dell’azione di regresso all’ammontare del danno civilistico sarebbe costituita dalla necessità di evitare una disparità di trattamento tra il datore di lavoro e il terzo autore dell’incidente, estraneo al rapporto assicurativo, specie nel caso di concorso di colpa dell’assicurato; tale disparità, del resto, stando sempre a questa granitica giurisprudenza, non troverebbe nessuna giustificazione razionale, e ciò nella radicata convinzione (del tutto discutibile, come si dirà) dell’identità dei presupposti soggettivi e oggettivi della responsabilità civile del datore di lavoro e del terzo. Si pensi che la Corte Costituzionale, nella decisione da ultimo richiamata, non distingue con nettezza la surroga rispetto al regresso, indicando entrambe le azioni come “surroga”, tanto che afferma “l’INAIL, agendo in surroga nei confronti del datore di lavoro (…) o del terzo civilmente responsabile per l'infortunio sul lavoro, può ripetere quanto ha corrisposto al lavoratore anche nell'ipotesi di concorso di colpa di questi e quindi senza alcuna riduzione proporzionale al grado di colpa del convenuto (cfr. anche le sentenze della Corte n. 115 del 1970 e n. 134 del 1971), ma non può pretendere una somma maggiore rispetto a quella che il responsabile effettivamente deve a titolo di risarcimento. La norma denunziata non pone pertanto in essere, per quanto riguarda il diritto di regresso dell'INAIL, nessun trattamento differenziato fra il datore di lavoro e il terzo estraneo al rapporto assicurativo in caso in cui si trovino in rapporto di colpa con l'infortunato nella produzione dell'evento.”.

4. Differenze tra azione di surroga e azione di regresso.
In realtà, appare al contrario pacifico che l’azione di surroga e l’azione di regresso hanno presupposti soggettivi e oggettivi assolutamente diversi.
Come noto, a parte le speciali regole che valgono in materia di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli (v. art. 142, D.Lgs. 7 settembre 2005 n. 209, Codice delle assicurazioni private), la disciplina generale dell’azione di surroga è prevista dall’art. 1916 c.c. in base al quale “l’assicuratore che ha pagato l’indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare di essa, nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili», a meno che il danno sia stato causato «senza dolo dai figli, dagli ascendenti, da altri parenti o da affini dell’assicurato stabilmente con lui conviventi o da domestici”. L’azione, prevista appunto per salvaguardare il diritto di rivalsa di ogni assicuratore, può essere esercitata anche dall’INAIL, come espressamente stabilito dall’ultimo comma, dove si legge: “Le disposizioni di questo articolo si applicano anche alle assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e contro le disgrazie accidentali”.
I presupposti della surrogazione, di cui all’art. 1916 c.c., sono allora tre: che la vittima del fatto illecito (cioè l’assicurato) sia titolare di un credito risarcitorio nei confronti del responsabile; che l’assicuratore sociale abbia indennizzato il medesimo pregiudizio patito dalla vittima; che lo stesso assicuratore sociale abbia manifestato la volontà di surrogarsi (denuntiatio) .
Una volta che l’Istituto abbia comunicato al terzo responsabile che l’evento è stato ammesso all’indennizzo e, quindi, abbia manifestato la volontà di avvalersi della surroga, questi non può opporgli l’eventuale transazione con l’assicurato o l’intervenuto pagamento a suo favore .
Chiaramente, con l’azione di surroga l’INAIL non può pretendere una somma maggiore rispetto al costo sostenuto per indennizzare l’evento, né può costringere il responsabile civile a risarcire una somma superiore all’ammontare del danno civilistico; in altri termini, la surrogazione incontra il duplice limite dell’ammontare del danno civilistico effettivamente cagionato dal terzo alla vittima, da una parte, e dell’importo dell’indennizzo pagato dall’assicuratore, dall’altra . Inoltre, come stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 356 del 1991, nell’esercizio del diritto di surrogazione l’assicuratore deve comunque far salve le somme che il responsabile civile deve all’infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non oggetto di indennizzo .
Poiché l’Istituto non può pretendere dal responsabile un importo maggiore rispetto al danno civilistico, questi non può opporre eccezioni concernenti il contenuto del rapporto tra assicuratore sociale e infortunato e non si può ingerire sulla correttezza dell’indennizzo accordato per l’evento .
Il concorso di colpa dell’assicurato, allora, irrilevante ai fini dell’indennizzo, incide invece sulla rivalsa, perché, sebbene non condizioni la pretesa dell’INAIL, comporta comunque una riduzione del danno civilistico risarcibile, ai sensi dell’art. 1227 c.c., e, quindi, del budget entro il quale l’Istituto può azionare la sua pretesa; in questo senso, si può anche affermare che il concorso di colpa dell’infortunato non può essere opposto all’assicuratore sociale se non ai fini dell’accertamento del limite del risarcimento complessivo a cui il responsabile deve far fronte .
Richiamate sinteticamente le caratteristiche dell’azione di surroga, appaiono subito evidenti le differenze con l’azione di regresso. Basti pensare appunto che il regresso è un’azione autonoma e indipendente dall’azione di risarcimento dell’assicurato , con termine di prescrizione triennale, con finalità di prevenzione, che si esercita nell’ambito del rapporto assicurativo e in conseguenza di un fatto di reato perseguibile d’ufficio; mentre la surroga è un’azione strettamente connessa a quella risarcitoria dell’infortunato e con gli stessi termini di prescrizione, con obiettivi esclusivamente economici, che si rivolge ad un soggetto terzo, tenuto al risarcimento del danno anche per fatto colposo e addirittura per responsabilità oggettiva.
Anche le norme del T.U., almeno nella loro formulazione originaria, non sembravano consentire l’interpretazione poi comunemente accolta; infatti, se, da un lato, l’infortunato poteva ottenere il ristoro del danno, detratto quanto percepito come indennizzo (art. 10, comma 6, T.U.), dall’altro, sembrava pacifico che l’INAIL potesse pretendere il rimborso dell’intero costo dell’evento protetto, costituito da indennità, spese accessorie e valore capitale dell’ulteriore rendita (art. 11, comma 1, T.U.).
Il diritto dell’Istituto all’integrale rimborso del costo sostenuto per l’infortunio o la tecnopatia appare poi confermato dal secondo comma dell’art. 11 del T.U., in base al quale la sentenza di condanna penale di cui all’art. 10 del T.U. è sufficiente a costituire l’Istituto assicuratore in credito verso la persona civilmente responsabile per le somme erogate.
Stando al tenore letterale della norma, almeno prima dell’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 485 del 1991, sopra richiamata (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale anche di questo comma nella parte in cui consente all’INAIL di avvalersi, nell’esercizio del diritto di regresso contro le persone civilmente responsabili, pure delle somme dovute al lavoratore infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica), considerata anche la fede privilegiata che viene riconosciuta all’attestazione di spesa , si potrebbe perfino sostenere la possibilità per l’Istituto di recuperare quanto erogato anche con atto di precetto o, almeno, con decreto ingiuntivo.

5. Il dubbio sull’applicabilità del limite del danno civilistico all’azione di regresso.
Appare allora pacifico che l’azione di regresso si distingue nettamente dall’azione di surroga
Da tale assunto, del tutto pacifico, devono essere tratte – almeno ad avviso di chi scrive e in dissenso con l’orientamento consolidato - le dovute conseguenze.
Innanzitutto, allora, a differenza di quanto avviene nel caso della surroga, l’eventuale transazione, tra datore di lavoro (o chi per lui) e lavoratore non può essere opposta all’INAIL, neanche quando abbia preceduto l’intervento dell’Ente. Il debitore di sicurezza, essendo parte del rapporto previdenziale, sa o deve sapere che l’evento è protetto dall’INAIL e, quindi, conosce o dovrebbe conoscere dell’esistenza dell’indennizzo e della facoltà dell’Ente di agire in rivalsa anche quanto esso non abbia ancora manifestato l’intenzione di avviare l’azione prevista dal T.U.
In relazione a tale aspetto, in realtà, non sembra siano stati mai sollevati dubbi.
Il problema riguarda invece il fatto che si continua forse impropriamente a sostenere che anche l’azione di regresso, come l’azione di surroga, sia configurabile come ipotesi di successione a titolo particolare nel credito del lavoratore indennizzato , con la conseguenza di ritenere appunto corretta l’imposizione del limite del danno civilistico pure a tale azione, a cui si è accennato, limite che, in realtà, non sembrerebbe congruente rispetto all’autonomia che le è garantita e al dato normativo sopra richiamato.
D’altra parte, non appare neppure applicabile il principio di parità di trattamento tra datore di lavoro e terzo, richiamato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, visto che si tratta di soggetti che si trovano in posizioni assolutamente diverse sia rispetto al lavoratore infortunato sia rispetto all’INAIL.
Il dato normativo sopra richiamato e la speciale responsabilità del debitore di sicurezza imporrebbero, invece, l’inapplicabilità all’azione di regresso del tetto del danno civilistico.
Questa soluzione, che comporta la piena responsabilità del datore di lavoro, con il conseguente obbligo dello stesso di rimborsare all’INAIL il costo effettivamente sostenuto per prestazioni derivanti dal suo comportamento delittuoso, del resto, sarebbe più in linea con la funzione monitoria riconosciuta pacificamente alla specifica azione di rivalsa e, quindi, anche con la sua finalità latamente sanzionatoria.
Partendo da questa interpretazione del particolare assetto normativo della materia, si potrebbe anche considerare inutile e quindi errato l’intervento della Consulta del 1991, di cui sopra, volto a precludere all’Istituto la possibilità di recuperare i danni alla persona spettanti direttamente al lavoratore; infatti, secondo la tesi che qui si espone con grande cautela, l’azione di regresso, appunto completamente autonoma e indipendente da quella del lavoratore, è volta a recuperare il costo delle prestazioni previdenziali e non i pregiudizi civilistici dell’assicurato e, per tale ragione, non può intersecarsi o entrare in conflitto con le pretese risarcitorie di questi.
Accettando una tale soluzione, resterebbero comunque da esaminare ancora due questioni.
Innanzi tutto, visto che l’INAIL potrebbe pretendere di recuperare l’intero esborso, si dovrebbe consentire al datore di lavoro di contestare le decisioni dell’Ente, relative all’indennizzo, che vanno ad influenzare direttamente i suoi oneri risarcitori e che non si può pretendere che egli subisca passivamente; non si tratterà più, quindi, come avviene attualmente, di discutere sulla quantificazione del danno civilistico, ma si dovrebbe andare invece eventualmente a verificare se il costo sostenuto corrisponda a quello delle prestazioni che l’Istituto avrebbe dovuto legittimamente erogare, con la conseguente possibilità del datore di lavoro di sindacare la correttezza delle decisioni dell’INAIL, naturalmente senza poter interferire nel rapporto previdenziale, che resta comunque estraneo al rapporto assicurativo; in altre parole, secondo l’orientamento consolidato il legittimato passivo dell’azione di regresso può opporre alla richiesta dell’Ente la valutazione civilistica del danno , mentre, stando alla tesi interpretativa che qui si propone, potrebbe invece opporre una diversa valutazione previdenziale del danno stesso.
Il secondo problema riguarda l’ipotesi, affrontata dalla Consulta nella sentenza n. 107 del 1975, sopra richiamata, in cui l’infortunio, del quale il datore di lavoro sia responsabile, dipenda anche da un concorso di colpa del lavoratore: mentre ora, come si è visto, la colpa va ad incidere sull’ammontare del danno civilistico complessivamente risarcibile, se si accettasse il diverso orientamento, si dovrebbe più correttamente ritenere che essa comporti una riduzione del rimborso dovuto all’INAIL, che dovrà essere contenuto nel pregiudizio direttamente provocato dal datore di lavoro, con l’esclusione della parte di danno attribuibile al comportamento del lavoratore.
In conclusione, partendo proprio dalla convinzione ormai pacifica relativa alla funzione di prevenzione dell’azione di regresso, si potrebbe tentare di valutare se le posizioni in materia, tanto autorevolmente espresse e radicate, siano ancora sostenibili e corrette.

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