testo integrale con note e bibliografia
1. Una brevissima nota metodologica, a mo’ d’introduzione
La riflessione cui mi accingo esige una breve premessa di taglio metodologico. Il tema del rapporto tra responsabilità civile e infortuni sul lavoro è così classico, e direi così fondativo nella storia dottrinale del diritto del lavoro italiano , e per questo così tanto studiato , che esimerebbe, forse, in una occasione come la presente, dall’esplicitare avvertenze di questo genere, che potrebbero apparire inutili e per ciò stesso ridondanti. Epperò esse mi appaiono sempre attuali e necessarie , nella misura in cui il rapporto tra il diritto primo della responsabilità civile e il diritto secondo della assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, per evocare ancora una volta una fortunata espressione , non cessa di costituire un laboratorio tra i più vivaci, nel ricco panorama dottrinale e giurisprudenziale , per la sperimentazione di soluzioni anche innovative, che sappiano rispondere alle esigenze della realtà sociale e alle istanze di giustizia che essa sempre pone e rinnova al giurista del lavoro.
La previsione normativa che ancora oggi costituisce il punto di snodo del complesso rapporto tra tutela risarcitoria e tutela previdenziale – l’articolo 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965 – costituisce, del resto, un esempio paradigmatico delle straordinarie capacità evolutive e innovative di cui può essere capace il diritto vivente. Basti por mente a ciò: a fronte di una sostanziale continuità lessicale di formulazioni verbali ed enunciazioni linguistiche (tra la prima legge istitutiva del 1898, il testo unico del 1935 e quello attualmente in vigore), quella previsione ha saputo incorporare nel corso del tempo, specie a partire dai primi anni Novanta del Novecento, istanze di tutela profondamente rinnovate nei valori di riferimento e nelle tecniche impiegate per realizzarli: in definitiva, è stata riempita di un significato completamente nuovo e diverso da quello originariamente posseduto, pur sotto un involucro formale pressoché immutato. A questa singolare continuità lessicale (che neppure il legislatore del 2000 ha voluto turbare) ha invero fatto da sfondo sul piano ermeneutico – grazie alla giurisprudenza, che si è dimostrata nel tempo molto coraggiosa nell’aprirsi a letture innovative, e certamente grazie agli impulsi della dottrina più sensibile – una straordinaria discontinuità contestuale, che si è tradotta in conseguenti mutamenti di significati precettivi . Tanto che si può affermare che quelle formule linguistiche (nelle quali è ancora oggi consacrato il testo della disposizione) hanno, attualmente, un significato normativo completamente diverso da quello che era loro ascrivibile nel 1965.
Tutto ciò è il frutto di un approccio molto aperto della giurisprudenza (costituzionale e di legittimità) e di una dinamica del diritto vivente davvero interessante, anche da un più generale punto di vista teorico . Si è trattato, infatti, di una dinamica in cui si sono intrecciate esigenze di interpretazione costituzionalmente orientata del dato normativo e, insieme, di rivisitazione sistematica dei rapporti interni al sistema riparatorio, tra regole di responsabilità civile e tutela previdenziale, che hanno saputo finalmente trovare una sintesi coerente nei più recenti approdi della giurisprudenza.
2. L’esonero parziale dalla responsabilità civile del datore di lavoro nel diritto vivente
Seppure l’esonero parziale mantenga una perdurante rilevanza, anche pratica, come avrò modo di accennare meglio più avanti, è indubbio che esso non costituisca più la regola alla base del raccordo tra diritto primo e diritto secondo . I due sottosistemi sono infatti raccordati dalla diversa regola che previlegia l’istanza di riparazione integrale del danno alla persona del lavoratore vittima di infortunio sul lavoro o di malattia professionale, imputabili alla responsabilità civile dell’imprenditore alla stregua degli standard generalmente fissati dall’art. 2087 c.c., che è la vera Grundnorm del sistema nel suo stretto connubio con i principi fondamentali della Costituzione (qui, segnatamente, con quelli espressi dagli artt. 32 e 38).
L’esonero, dunque, è oggi l’eccezione, non la regola: questa è piuttosto espressa dalla formula per cui il datore di lavoro è tenuto a risarcire il danno secondo le comuni regole della responsabilità contrattuale. Cosicché – e sta in ciò la residua valenza limitativa dell’esonero – il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno secondo le comuni regole di responsabilità contrattuale nei limiti dell’importo che eccede il valore delle prestazioni liquidate (o liquidabili) dall’INAIL, fatte comunque salve le componenti del danno complementare alla persona non altrimenti indennizzate o risarcite.
Non v’è qui lo spazio per ripercorrere nei dettagli una vicenda peraltro molto nota, che si dipana almeno dalla sentenza n. 22 del 1967 della Corte costituzionale sino ai più recenti affinamenti interpretativi del diritto vivente sedimentato dal lavorio nomofilattico del giudice di legittimità . Le principali tappe di questo lungo percorso evolutivo sono del resto magistralmente ripercorse dalla già evocata sentenza del 19 giugno 2020, n. 12041, della Sezione lavoro della Corte di cassazione . Questa è davvero una sentenza importante, perché la Corte ha voluto esercitare distesamente una funzione nomofilattica che era mancata, quantomeno con quella compiutezza di svolgimenti che sono stati per l’appunto proposti, in questa centralissima materia, che pure aveva conosciuto, a partire dai primi anni Duemila, una profonda evoluzione nelle direttrici interpretative. Sennonché quelle direttrici, pur via via consolidatesi sino a divenire diritto vivente, non erano state spiegate e argomentate in modo compiuto, rimanendo affidate a statuizioni di principi di diritto non pienamente esplicitati nel loro significato sistematico. Invece, con tale pronuncia, la Corte di cassazione ha finalmente svolto in modo meritorio un compiuto esercizio nomofilattico, esplicitando la ratio costituzionale e sistematica dei principi di diritto da essa ribaditi. E il primo di tali principi è che, in tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la disciplina prevista dagli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 va interpretata nel senso che l’accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di azione proposta dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno differenziale, sia nel caso dell’azione di regresso proposta dall’INAIL, deve essere condotto secondo le comuni regole della responsabilità contrattuale (dunque, applicando l’art. 1218 c.c.), anche in ordine all’elemento soggettivo della colpa e al nesso causale tra fatto ed evento dannoso.
Appare evidente come, alla stregua di tale principio, ai fini della individuazione dei presupposti sia dell’azione risarcitoria del lavoratore che dell’azione di regresso dell’Istituto assicuratore, tra l’area del danno complementare e quella del danno differenziale non vi sia più alcuna differenza qualitativa. Il primo aspetto che merita di essere sottolineato è, infatti, proprio questo: la valenza operativa dell’esonero parziale, ex art. 10 del testo unico, è ormai da ricercare essenzialmente sul versante della quantificazione del danno e, in particolare, della distribuzione delle poste risarcitorie tra danno complementare e danno differenziale, nel confronto tra la pretesa del lavoratore e quella dell’Istituto assicuratore; non già su quello – attinente al profilo dell’an – dell’accertamento dei presupposti per l’imputazione al datore di lavoro della responsabilità contrattuale, che dovrà sempre avvenire nei termini dell’art. 1218 c.c., in combinato disposto con l’art. 2087 e la normativa sulla tutela della salute e della sicurezza negli ambienti di lavoro.
3. L’accertamento incidentale in sede civile del fatto di reato
È vero che, nell’area applicativa dell’art. 10 del testo unico, ai fini dell’azione volta al risarcimento del danno differenziale (ovvero al recupero in via di regresso di quanto sborsato dall’INAIL), dovrà sempre essere dedotta l’astratta ricorrenza di un fatto di reato perseguibile d’ufficio, che, quantomeno formalmente, costituisce tuttora il presupposto della disattivazione della regola dell’esonero; ma l’accertamento in via incidentale dello stesso sarà sempre compiuto dal giudice del lavoro negli stessi termini che nell’art. 1218 c.c., i.e. facendo applicazione di una regola di giudizio del tutto identica a quella che vale, in virtù dei comuni canoni di responsabilità contrattuale, per il danno complementare.
Quindi, ai fini dell’accertamento della responsabilità per fatto di reato perseguibile d’ufficio, in realtà, non sussiste più effettiva distinzione tra l’area che resta integralmente assoggettata al diritto comune, cioè l’area del danno complementare (in quanto sottratta in apicibus dall’indennizzo previdenziale), e quella del danno differenziale. E questo perché, anche nell’area governata dalla regola dell’art. 10, cioè in quella del danno differenziale in senso proprio (o quantitativo), valgono gli stessi criteri di accertamento della responsabilità ai sensi dell’art. 1218 c.c., sia che ad agire in giudizio sia il lavoratore, sia che ad azionare in via di regresso la propria pretesa sia l’INAIL. Entrambi, come insegna la Suprema Corte applicando la ripartizione dell’onere della prova secondo il regime contrattuale degli artt. 1218 e 2087 c.c., una volta allegato che l’infortunio sia avvenuto nel corso dell’attività lavorativa e nell’ambiente di lavoro, e ferma l’allegazione dell’astratta illiceità penale del fatto, potranno limitarsi a fornire la prova del nesso causale tra l’evento infortunistico e il danno patito, incombendo al datore di lavoro la prova liberatoria di aver adottato tutte le misure di sicurezza tipizzate dall’ordinamento o comunque ricavabili dalle regole di prudenza ed esperienza in relazione alla particolarità del lavoro e all’evoluzione della tecnologia prevenzionistica effettivamente disponibile .
Il lavoratore dovrà, quindi, allegare e provare il danno e la sua riconducibilità allo svolgimento del rapporto di lavoro, formulando, secondo l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, allegazioni e deduzioni di una qualche consistenza sulla nocività dell’ambiente di lavoro , in termini di inosservanza vuoi di misure tipiche di sicurezza, previste dalla disciplina di settore (in primo luogo, ovviamente, dal d.lgs. n. 81 del 2008), vuoi delle regole di prevenzione comunque ricavabili dalla norma generale posta dall’art. 2087 c.c. Assolti tali oneri, spetterà al datore di lavoro dare la prova di aver fatto quanto necessario per evitare il danno, adempiendo compiutamente agli obblighi di sicurezza – tipici o atipici – sul medesimo gravanti. Onde unica è, in definitiva, la regola di giudizio valevole per il risarcimento del danno complementare e di quello differenziale, visto che anche per quest’ultimo varrà la cosiddetta inversione dell’onere della prova sulla colpa del datore di lavoro .
L’estensione all’azione diretta al risarcimento del danno differenziale, ex art. 10 del testo unico, di questa regola di giudizio, basata in buona sostanza sui criteri di imputazione della responsabilità contrattuale di cui all’art. 1218 c.c., è, come accennavo, ancorata tanto ad argomenti sistematici quanto a ragioni di interpretazione costituzionalmente orientata del dato legislativo.
Da un lato, la Suprema Corte prende atto delle elaborazioni ormai acquisite al diritto vivente circa i criteri che in generale presiedono all’accertamento in sede civile di un fatto di reato (ad esempio ai fini dell’applicabilità della disciplina derogatoria della prescrizione di cui all’art. 2947, comma 3, c.c. come ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale nell’ipotesi tradizionalmente visualizzata dal combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.), «conseguendo che attualmente costituisce punto fermo che il giudice civile si può avvalere nell’ambito dei suoi accertamenti in merito all’esistenza del fatto considerato come reato di tutte le prove che il rito civile prevede» . Onde pretendere che soltanto nel caso previsto dall’art. 10 del testo unico «il giudice civile operi con gli strumenti penalistici significherebbe oggettivamente aggravare la posizione del lavoratore danneggiato, sottoponendo il medesimo ad un trattamento deteriore – quanto al danno cd. “differenziale” – rispetto a quello destinato a qualsiasi altro danneggiato che può ottenere il risarcimento integrale avvalendosi delle più agevoli regole di accertamento della responsabilità civile» , in contrasto tanto con esigenze di coerenza sistematica quanto con il principio costituzionale e di uguaglianza e ragionevolezza.
D’altro lato, una siffatta disparità di trattamento apparirebbe per l’appunto incongrua sul piano sistematico (costringendo lo stesso giudice a utilizzare criteri di giudizio differenziati a seconda che sia chiamato a determinare danni complementari ovvero differenziali) e del tutto irragionevole alla luce dell’art. 3 Cost., tanto più «perché destinata a consumarsi nella sfera protetta dal riconoscimento costituzionale del diritto alla salute quale diritto fondamentale ed inviolabile della persona umana» ; dovendosi considerare che «dal nucleo irriducibile di tale diritto discende il principio dell’integrale riparazione del pregiudizio quale aspetto essenziale della tutela risarcitoria dei valori non patrimoniali dell’individuo» .
E analoghe esigenze (insieme di coerenza sistematica e di conformità ai principi costituzionali) valgono per l’azione di regresso dell’INAIL ai sensi dell’art. 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965: anche essa, infatti, è una azione di natura contrattuale, in quanto radicata nel rapporto assicurativo-sociale, e anch’essa è concessa per soddisfare finalità istituzionali che trovano diretta copertura nell’art. 38, comma 2, Cost. e nella funzione solidaristica assolta dall’Istituto . In una sfera così densamente presidiata dai principi costituzionali (di cui, rispettivamente, agli artt. 32 e 38 Cost.), dunque, negare al lavoratore e all’Istituto assicuratore, ai fini dell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro, l’applicazione di quei generali criteri, che costituiscono ormai comune acquisizione nel «diritto primo» della responsabilità civile, comporterebbe un sicuro vulnus a tali principi. Sennonché, ove considerate alla luce del mutato contesto normativo e assiologico di riferimento, le previsioni dettate dagli artt. 10 e 11 del testo unico si lasciano agevolmente ricondurre ai nuovi canoni ricostruttivo-interpretativi che presiedono alla revisione sistematica del danno non patrimoniale avvenuta nell’ambito del diritto privato generale.
4. Il danno differenziale e il danno complementare
Resta comunque importante delimitare con precisione l’area del danno complementare da quella del danno differenziale, poiché soltanto nella seconda – pur accomunata alla prima quanto ai criteri di accertamento della responsabilità datoriale – potrà svolgersi in via di regresso la pretesa recuperatoria dell’Istituto assicuratore ai sensi dell’art. 11 del testo unico.
È noto come, su questo rilevantissimo piano, nel quale entrano concretamente in tensione l’interesse del lavoratore al risarcimento integrale del danno subito e quello dell’Istituto assicuratore al recupero dal datore di lavoro delle indennità previdenziali complessivamente corrisposte, la Corte di cassazione, dopo un iniziale orientamento apparentemente neutro rispetto ai diversi indirizzi della giurisprudenza di merito , abbia assunto una posizione assai rigorosa, forse la più radicale che si potesse immaginare (e per questo oggetto, a tutt’oggi, delle critiche provenienti da una parte, pur minoritaria, della dottrina) . Secondo l’insegnamento ribadito dalla più volte evocata sentenza n. 12041 del 2020 ed oramai consolidato in giurisprudenza, la perimetrazione dei confini tra danno complementare e danno differenziale deve avvenire confrontando il danno civilistico (determinato secondo le comuni regole di responsabilità civile) e quello previdenziale (oggetto della copertura garantita dalle prestazioni dell’INAIL, alla stregua della speciale disciplina assicurativa), in modo analitico, ovvero per poste qualitativamente omogenee, aventi identità di natura quanto al tipo di pregiudizio considerato. E infatti, come anche più di recente chiarito dalla Suprema Corte, «secondo il principio affermato, in tema di compensatio lucri cum damno, da Cass. Sez. Un. n. 12566 del 22.5.2018, i pagamenti effettuati dall’assicuratore sociale riducono il credito risarcitorio vantato dalla vittima del fatto illecito nei confronti del responsabile, quando l’indennizzo abbia lo scopo di ristorare il medesimo pregiudizio del quale il danneggiato chiede di essere risarcito» .
Detto criterio, per poste omogenee e anzi identiche , ha una precisa conseguenza nella fissazione della linea di confine, anzitutto esterna, tra danno complementare e danno differenziale, e in secondo luogo interna, tra le diverse voci in cui quest’ultimo è scomponibile. La stessa linea di divisione tra danno complementare e differenziale, che ne consegue, si sovrappone, pertanto, costituendone a ben vedere una specificazione nell’ambito del diritto secondo dell’assicurazione contro gli infortuni , alla fondamentale bipartizione tra danno non patrimoniale e danno patrimoniale, su cui è generalmente costruito l’assetto bipolare del diritto primo della responsabilità civile.
Fa puntuale applicazione di detto criterio, e delle distinzioni analitiche e pratiche che ne debbono conseguire, una recente pronuncia della terza sezione civile della Cassazione in una fattispecie di azione di surroga nei confronti del terzo responsabile e del suo assicuratore. Vi si statuisce, in linea con l’indirizzo ormai dominante, che, considerata «la diversità strutturale e funzionale dell’indennizzo corrisposto dall’assicuratore sociale (INAIL) nel caso di infortunio rispetto al risarcimento civilistico del danno da lesione della salute, il criterio più coerente al detto principio per calcolare il credito residuo del danneggiato nei confronti del terzo responsabile (e cioè il c.d. danno differenziale) non è certo quello […] di sottrarre tout court per intero l’indennizzo INAIL dal credito risarcitorio che sia stato a monte calcolato e non è nemmeno quello di operare tale sottrazione secondo poste omogenee (vale a dire distinguendo all’interno dell’indennizzo INAIL le sole due grandi poste del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale e sottraendo tout court l’importo complessivamente liquidato per quest’ultima categoria di danno), ma è piuttosto quello di sottrarre l’indennizzo INAIL dal credito risarcitorio solo quando l’uno e l’altro siano stati destinati a ristorare pregiudizi identici (criterio per “poste identiche” e non per “poste omogenee”)» .
Ne consegue, quanto all’area del danno non patrimoniale, che, poiché l’INAIL «non indennizza il danno biologico temporaneo, non accorda alcuna “personalizzazione” dell’indennizzo per tenere conto delle specificità del caso concreto, non indennizza i pregiudizi non patrimoniali non aventi fondamento medico-legale (ovvero i pregiudizi morali)» , queste voci – di danno propriamente complementare – andranno riservate in via esclusiva al lavoratore vittima di infortunio sul lavoro o di malattia professionale, rimanendo sottratte in apicibus alla rivalsa dell’Istituto assicuratore . Pertanto, «il risarcimento del danno biologico temporaneo, del danno morale e della c.d. “personalizzazione” del danno biologico permanente in nessun caso potranno essere ridotti per effetto dell’intervento dell’assicuratore sociale» , trattandosi, appunto, di voci di danno complementare.
L’INAIL potrà invece rivalersi sul datore di lavoro (o sul terzo) danneggiante rimanendo dentro l’area del danno differenziale. E quindi, se l’Istituto ha pagato al danneggiato un capitale a titolo di indennizzo del danno biologico, il relativo importo dovrà essere detratto dal credito risarcitorio vantato dal lavoratore per danno biologico permanente, al netto però – come chiarito – della personalizzazione (nei limiti consentiti dalle tabelle milanesi) e del danno morale . E «se l’INAIL ha costituito in favore del danneggiato una rendita, occorrerà innanzitutto determinare la quota di essa destinata al ristoro del danno biologico, separandola da quella destinata al ristoro del danno patrimoniale da incapacità lavorativa; la prima andrà detratta dal credito per danno biologico permanente, al netto della personalizzazione e del danno morale, la seconda dal credito per danno patrimoniale, se esistente» .
5. Qualche appunto problematico in tema di danno terminale, a mo’ di conclusione
Se gli approdi del diritto vivente in punto di criteri di accertamento della responsabilità datoriale ai sensi degli artt. 10 e 11 del testo unico e di conseguente definizione dei rapporti tra danno complementare e differenziale appaiono, quindi, per quanto sin qui detto, sufficientemente assestati, qualche incertezza ricostruttiva è più di recente riaffiorata sul delicatissimo versante della configurazione e della liquidazione del danno terminale. Gli aspetti problematici che pare opportuno considerare in conclusione di queste riflessioni affiorano, da un lato, dalla più recente giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di malattie professionali asbesto correlate (spesso casi di mesotelioma allo stadio avanzato) e, d’altro lato, dalla nuova configurazione che il danno terminale riceve nell’ultima versione delle tabelle del Tribunale di Milano.
Quanto al primo aspetto, ha suscitato in dottrina un qualche dibattito la recente sentenza con cui la Suprema Corte ha affermato che, in tema di neoplasie polmonari causate da inalazione di amianto e, in generale, di malattie ingravescenti con evoluzione sfavorevole (nella fattispecie concreta, un adenocarcinoma), l’incapacità biologica temporanea perdura in relazione alla durata della malattia e viene a cessare o con la guarigione, con pieno recupero delle capacità anatomo funzionali (ipotesi, tuttavia, normalmente irrealizzabile, purtroppo, nei casi di specie), o con l’adattamento dell’organismo alle degradate condizioni di salute o, ancora, con la morte . Come precisato dalla Corte, in particolare, una volta avvenuto l’adattamento dell’organismo alle degradate condizioni di salute, con la c.d. stabilizzazione, spetta al lavoratore il risarcimento del danno non patrimoniale sub specie di danno biologico liquidato come invalidità permanente, utilizzando le apposite tabelle.
La (temporanea) stabilizzazione, pur in malattie ingravescenti a inevitabile esito infausto, segnerebbe, dunque, il momento nel quale il giudice dovrà considerare il danno alla salute subito dal lavoratore come danno biologico permanente. Sta in ciò uno scostamento di un certo rilievo rispetto a quel consistente filone di giurisprudenza che riconosce invece in tali situazioni uno stato patologico ingravescente e irreversibile, risarcibile come danno biologico temporaneo di natura propriamente terminale . Come ha ricordato Patrizia Tullini, infatti, «l’orientamento giurisprudenziale più accreditato ha ricondotto nell’ambito della voce di danno terminale la fattispecie della grave menomazione della salute per inalazione di amianto. Si è ritenuto che le neoplasie polmonari, determinando un’evoluzione peggiorativa e un esito letale pressoché scontato, comportino un risarcimento del danno da inabilità temporanea assoluta sino al momento del decesso del lavoratore. In base a questa logica risarcitoria, il pregiudizio biologico sarebbe liquidabile secondo il valore tabellare giornaliero, pur adeguatamente personalizzato, moltiplicato per i giorni decorrenti dalla diagnosi della malattia terminale sino a quello del decesso (oltre il ristoro della componente morale soggettiva)» .
Occorre essere avvertiti della diversa qualificazione risarcitoria così impressa dalla pronuncia in esame alla voce fondamentale del danno non patrimoniale subito dal lavoratore tecnopatico in tali situazioni, con il transito della stessa, in buona sostanza, dall’area del danno tout court complementare (tale essendo pacificamente il danno terminale, anche nella sua componente di sofferenza soggettiva, sino alla punta massima del danno c.d. catastrofale) a quella del danno differenziale da invalidità permanente (pur al netto, come ovvio, della personalizzazione e del danno morale). Si tratta di uno slittamento qualificatorio che può determinare significative implicazioni sull’ammontare del risarcimento , a svantaggio del lavoratore, visto che sul danno differenziale incide la pretesa dell’Istituto assicuratore ai sensi dell’art. 11 del testo unico rientrandosi nel perimetro di residua rilevanza dell’art. 10.
Si deve essere anche consapevoli che l’inquadramento nell’una o nell’altra voce, con le conseguenze appena evocate, dipende in modo decisivo dal concreto atteggiarsi dello stato patologico della vittima e dal modo in cui esso viene definito sotto il profilo medico-legale. Si tratta, in altre parole, di accertamenti di merito diagnostico-clinico nei quali il giudice è largamente tributario dell’apporto della scienza medica e, quindi, delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, cui spetta in ultima analisi la individuazione di un momento oltre il quale possa dirsi verificata una situazione di stabilizzazione. È, infatti, la stessa sentenza n. 35416 del 2022, qui in commento, a ricordare, del tutto correttamente, che «in ipotesi di decesso, avvenuto senza stabilizzazione, invece, può rilevare il c.d. danno terminale, il quale è una forma lessicale descrittiva di un danno biologico temporaneo che consiste nella incapacità del soggetto di attendere alle comuni attività quotidiane ed allo svolgimento delle relazioni sociali per un tempo limitato, in quanto destinato a cessare, in considerazione della natura letale della lesione, con l’exitus, ossia con la definitiva estinzione della persona fisica» .
Esiste peraltro un secondo aspetto da sottolineare a questo riguardo, che attiene più specificamente ai criteri di liquidazione del danno terminale. La giurisprudenza, ancora oggi prevalente, che nelle neoplasie provocate da amianto individua un danno biologico terminale, fa sovente ricorso a un criterio equitativo puro, che sappia guardare «all’enormità del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte» .
La più recente versione delle tabelle milanesi compie invece al riguardo uno sforzo di standardizzazione che giunge al punto di prefigurare una configurazione unitaria del danno terminale, con assorbimento al suo interno della componente morale soggettiva del danno catastrofale. Nelle nuove tabelle, infatti, è proposto un unico valore riferito a entrambe le componenti, che pure hanno natura molto diversa, anche nei presupposti risarcitori, visto che, secondo l’orientamento consolidato, soltanto il danno catastrofale esige la percezione e la consapevolezza della fine imminente da parte della vittima, quella condizione di «lucidità agonica» che non è necessaria per il danno biologico terminale (per il quale è invece richiesta una unità temporale minima ai fini della risarcibilità).
Questa configurazione tabellare unitaria è stata condivisibilmente sottoposta a critica da chi ha rimarcato l’intrinseca problematicità della reductio ad unum di voci così diverse . Questa problematicità è emersa anche in un recente arresto della Suprema Corte , che ha cassato una pronuncia che, facendo una pedissequa applicazione della tabella milanese, aveva liquidato agli eredi, «per un lavoratore ucciso dopo quattro giorni di torture, sevizie e prigionia», la somma massima prevista di 30.000 euro «non ulteriormente personalizzabili come dice la tabella» .
Questo caso, per quanto estremo, ci ricorda che il giudice deve sempre esercitare una attenta e scrupolosa valutazione dei fatti di causa e che, quando questi esibiscono una tale gravità, una tale offensività dei valori fondamentali della persona, allora deve tornare a valere un criterio equitativo puro, un canone di giustizia del caso concreto, dovendosi chi giudica, quantomeno in queste situazioni, affrancare da valutazioni di tipo tabellare, comunque costruite su ipotesi standardizzate.
Come suggerisce Roberto Riverso, nella materia del danno, specialmente da infortunio sul lavoro, «c’è bisogno di giudici accorti che guardino più dentro i fascicoli che dentro le tabelle» . È una conclusione che posso senz’altro fare mia, a chiusura di queste riflessioni.