Testo integrale con note e bibliografia

L’immenso potenziale delle tecnologie digitali ha innovato radicalmente la nozione di luogo di lavoro così come definito dall’art. 62 del D. Lgs. 9.4.2008 n. 81 secondo cui “si intendono per ‘luoghi di lavoro’ i luoghi destinati ad ospitare posti di lavoro, ubicati all'interno dell'azienda o dell'unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell'azienda o dell'unità produttiva accessibile al lavoratore nell'ambito del proprio lavoro".
In particolare, secondo la prospettiva delineata dal T.U. del 2008, ai fini dell’individuazione dei soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, l’identificazione di uno spazio quale luogo di lavoro non può prescindere dall’identificazione del plesso organizzativo al quale lo spazio in questione accede in funzione servente; ciò si evince dalla definizione stessa di luogo di lavoro nella parte in cui il legislatore ha previsto un collegamento di ordine spaziale (“all’interno dell’azienda”) o almeno pertinenziale tra l’azienda o l’unità produttiva e il luogo di lavoro stesso.
Ebbene, in un contesto di autentica rivoluzione permanente come quello che contraddistingue la nostra società liquido-moderna così come definita da Bauman, se da un lato la digitalizzazione è in grado di offrire contenuti ideativi all’interno degli ambienti di lavoro, dall’altro lo sviluppo di tecnologie digitali, quali l’intelligenza artificiale, la robotica, la connettività pervasiva, i big data e le piattaforme online sta stravolgendo la natura, i soggetti, i tempi e le modalità di organizzazione e di gestione delle attività lavorative.
In tale contesto, gli ambienti di lavoro c.d. flessibili rappresentano sempre di più la norma e favoriscono una elevata flessibilità degli orari lavorativi senza considerare che il lavoro è sempre più supervisionato e coordinato da algoritmi e dall’intelligenza artificiale basata sui big data, in grado di registrare dati sulla produttività dei lavoratori, sulla loro esatta posizione, sugli indicatori di stress e finanche sulle loro espressioni microfacciali.
Sul punto, è di intuitiva percezione che le modalità pervasive di controllo e/o monitoraggio consentite dalle tecnologie digitali sono suscettibili di riverberarsi negativamente sulla salute mentale dei lavoratori, che potrebbero avvertire la sensazione di perdere il controllo in ordine al proprium delle loro mansioni e/o alla pianificazione della loro attività e sul modo in cui la svolgono, oltre a ritenere che la loro privacy venga violata.
Per evitarlo, è importante garantire la trasparenza in relazione alla raccolta e all’utilizzo di tali dati nonché il coinvolgimento dei lavoratori nella progettazione e nell’attuazione di tutte le strategie di digitalizzazione.

E’ chiaro che stiamo vivendo un’epoca caratterizzata da una rivoluzione copernicana. La pandemia di COVID-19 ci ha lanciato una grande sfida: quella di imparare ad adattarci, rapidamente, giorno dopo giorno, al mutato scenario lavorativo oltre che di adottare scelte plastiche e modulari in relazione alla specificità del caso concreto. Le aziende stanno facendo fronte a perdite di ricavi, incertezza finanziaria, problemi relativi alla catena di distribuzione, per non parlare dei piani di emergenza per l'eventuale interruzione delle attività economiche.
Si aggiunga a ciò che, nel bel mezzo dell’emergenza sanitaria, a seguito della graduale riapertura delle attività è stata richiesta a gran voce una soluzione rispetto ad un problema che è poi esploso in tutta la sua rilevanza attraverso la previsione dell’art. 42 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 e la successiva circolare Inail n. 13/2020, ovvero quello della responsabilità giuridica configurabile in capo al datore di lavoro nel caso in cui il lavoratore fosse risultato positivo al Covid-19.
La norma sopra citata, esplicata dalla successiva circolare Inail n. 22/2020, ha previsto che nei casi accertati di infezione da SARS-Cov-2) del lavoratore in occasione di lavoro, l’evento dovesse essere qualificato in termini di infortunio e non come malattia con la specifica, poi introdotta dall’Istituto, secondo cui il criterio della presunzione semplice vale solo per le attività sanitarie e per quelle che implicano un costante contatto con il pubblico e/o con l’utenza, laddove i lavoratori che non svolgono attività in siffatti ambienti saranno tenuti a fornire in giudizio la prova rigorosa che il contagio è avvenuto in occasione del lavoro.
Senonchè, ed è qui il punto, nell’ambito dell’obiettivo prioritario di coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia del rispetto di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e nella consapevolezza dell’impossibilità di azzerare il rischio biologico da Covid-19, il complesso delle norme prevenzionistiche vigenti nel nostro ordinamento non è stato affatto stravolto, bensì sono stati offerti al datore di lavoro strumenti di immediata applicazione (informazioni, protocollo di regolamentazione per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus, linee guida ed istruzioni) che gli permettono di poter organizzare in sicurezza il luogo di lavoro.
Ma se così è, non v’è allora chi non veda come i protocolli allegati al DPCM del 26 aprile 2020 rappresentano la misura indispensabile per poter ritenere praticabile l’attività lavorativa in sicurezza, gestendo il rischio contagio in modo puntuale e rispondente agli attuali standard di conoscenza scientifica, viepiù considerando come la più recente giurisprudenza di legittimità, superando il concetto di responsabilità oggettiva, ha adottato un nuovo criterio di valutazione ed individuazione della colpa del datore di lavoro concretantesi nel non aver diligentemente predisposto misure di sicurezza idonee ad evitare occasioni di danno “prevedibili” (cfr. Cass. civ., sez. lav., n. 8911/2019).
A conferma di quanto precede si consideri come l’art. 29 bis, introdotto in sede di conversione in legge del DL 23/2020, ha previsto che “i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo”: si ritiene che al termine “applicazione” possa ricondursi la medesima logica, propria dei modelli di organizzazione e gestione, della “adozione ed efficace attuazione” (art. 30, D.lgs. n. 81/2008).
L’effetto decisivo dell’art. 29-bis è, dunque, quello di riempire di contenuto l’art. 2087 cod. civ. con previsioni conoscibili ex ante da parte dei soggetti obbligati e non rimesse alla consueta interpretazione giurisprudenziale condotta ex post.

Il che ovviamente ha rilevanti effetti anche sul piano della tutela dell’ambiente di lavoro. La pandemia non ha stravolto solo le attività aziendali ma ha impattato in maniera significativa sul benessere psicologico di ogni dipendente, da chi rischia la vita, come nel caso degli operatori sanitari in prima linea, a chi svolge una prestazione remotizzata non già per un benefit occasionale ma a causa delle misure di isolamento e/o di contenimento del rischio.
Lo stato di benessere di un soggetto, infatti, non è riconducibile esclusivamente alle componenti biologiche, sociali o psicologiche posto che la modalità di funzionamento dello stesso è al contempo unitario e globale.
Tale forma di pensiero del benessere è legata alla Teoria Generale dei Sistemi, elaborata nel corso della prima metà del ‘900 da Ludwig von Bertalanffy secondo il quale il mondo deve essere inteso quale organismo dotato di principi e leggi coinvolgenti la totalità delle sue componenti costitutive.
Come sappiamo, ogni azienda è caratterizzata da uno specifico clima organizzativo: si tratta di una caratteristica interna dell’organizzazione che viene sperimentata dai suoi dipendenti e che assume un ruolo di grande rilevanza poiché influisce sulle performance lavorative, sulla relazione fra colleghi e sulla capacità di concentrazione dei lavoratori.
In questo periodo storico, la situazione risulta particolarmente avversa sia per le persone che per l’economia globale: inutile negare che il Covid ha provocato danni ingenti, difficili da quantificare e soprattutto da contenere.
Lo stress associato all’incertezza può avere infatti conseguenze negative sul benessere e sulla salute mentale dei lavoratori, come l’ansia, l’esaurimento e la depressione (Kim e von dem Knesebeck, 2015).
Inoltre, il carico di lavoro dei lavoratori in prima linea aumenta in maniera sensibile, con l’aggravante di una probabile riduzione del personale, poiché molti colleghi potrebbero ammalarsi o potrebbero essere messi in quarantena.
Sotto un altro aspetto, va poi considerato come lavorare da casa può portare a sentirsi isolati, a lavorare più a lungo e a confondere i confini tra lavoro e vita familiare ove si consideri che se da una parte l’isolamento può facilitare la concentrazione, la mancanza di interazione sociale può diventare un forte fattore di stress.
Senza considerare che le persone che lavorano da casa possono anch’esse essere esposte ad alcuni rischi legati all’ambiente domestico che spesso non soddisfa gli stessi standard di salute e sicurezza dei luoghi di lavoro.
Va da sé che tutte le parti devono delineare meglio le aspettative e i risultati che ci si attende dai lavoratori, i loro compiti, le condizioni di lavoro, gli orari di reperibilità e le modalità di monitoraggio e discussione del progresso compiuto (senza obblighi di segnalazione eccessivamente rigorosi).
A titolo esemplificativo, è essenziale stabilire e rispettare delle regole precise sui tempi di disponibilità o indisponibilità dei lavoratori. Inoltre, è raccomandabile che i lavoratori ricevano informazioni adeguate su aspetti legati al lavoro da svolgere da casa quali verificare la posizione dello schermo, ad esempio lontano dalla finestra, in modo da evitare esposizioni dirette alla luce, posizionare i dispositivi in modo da circoscrivere al minimo i movimenti del corpo, effettuare pause regolarmente, effettuare la pulizia e la disinfezione con prodotti chimici per ridurre il contagio, etc.
In conclusione, una sfida come quella posta dalla pandemia del COVID-19 può essere vinta solo tramite una risposta globale coordinata basata su un forte dialogo sociale e una cooperazione, come mai prima d’ora, tra governi, parti sociali, organizzazioni internazionali e istituzioni economiche e finanziarie a tutti i livelli.
A meno di non voler dare ragione al credo dello scrittore Zygmunt Bauman condensato nella seguente espressione “Abbandonate ogni speranza di totalità, futura come passata, voi che entrate nel mondo della modernità liquida».

 

 

 

 

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