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Questo volume, uscito in edizione originale nel 2018 presso Accenture Global Solu-tions e Harvard University Press, e subito ampiamente diffuso (v. i numerosi riferimenti reperibili in rete, fra cui alcuni stimolanti interventi di Paul R. Daugherty, chief technology and innovation di Accenture), è indirizzato soprattutto agli executives, i vertici delle imprese, chia-mati non solo a gestire il presente ma anche e soprattutto a programmare il futuro. La chiave di questo futuro sarà l’applicazione sempre più estesa dell’intelligenza artificiale (arti-ficial intelligence: AI), sogno coltivato sin dagli anni Cinquanta e passato attraverso fasi sia di sviluppo sia di crisi (“gli inverni dell’AI”), dalle quali ultime è uscito indenne, con prepo-tenza, nei primi anni del nuovo secolo. L’intento degli autori è mostrare con esempi, in modo agile e non accademico, come le aziende dovranno adattarsi, in tempi accelerati, per espandersi e anzitutto sopravvivere rispondendo a sfide fino a ieri impensate.
La finalità divulgativa (e provocante) perseguita da Daugherty e Wilson non deve di-stogliere da una lettura non strettamente “manageriale” di quest’opera, che scaturisce da una estesa indagine svolta su scala internazionale su un buon numero di imprese e tocca problemi non solo di strategia aziendale ma anche di rilevante significato teorico, in partico-lare per le scienze sociali.
Il focus del volume, che si divide in due parti rispettivamente dedicate all’illustrazione di significative applicazioni dell’AI in imprese di varia grandezza e ad una “guida esclusiva” per una loro riorganizzazione, risiede nell’individuazione di uno spazio intermedio ( “spazio fantasma” nell’edizione italiana, “missing middle” in quella originale) ove, grazie all’AI, uomi-ni e macchine s’incontrano e collaborano sino a formare un tutt’uno in cui, anziché agire separatamente, gli uni per programmare le altre per eseguire secondo modelli prefissati (modalità tipica della fase post-fordista della produzione industriale), interagiscono appren-dendo reciprocamente e riadattandosi a circostanze sempre nuove.
Naturalmente Daugherty e Wilson non sono i primi a parlare di learning machines, di cui da tempo si discute con sentimenti misti fra ammirazione, aspettative e paure (notano gli autori che vi è tuttora molta algorithm aversion, pp. 159 ss.). Così pure, non sono i primi a proporre l’immagine di un ente complesso, “uomo+macchina” come dice il loro titolo, in cui l’algoritmo che “pensa” e il meccanismo che opera si integrano con l’organismo umano potenziandolo a livelli esponenziali: immagine che può bene innestarsi negli schemi della sociologia funzionalista, da Parsons a Luhmann. Certo però è loro merito aver centrato con forza l’attenzione sulle opportunità che offre quello “spazio intermedio”, ancora poco sfrut-tato, anche e in particolare nel campo del lavoro umano.
Scavando in questo spazio, che graficamente (pp. 21, 105, 112, 133) confina a sinistra con la sfera del lavoro solo umano (“Guidare”, “Empatizzare”, “Creare”, “Giudicare”) e a destra con quella del lavoro solo meccanico (“Transazionare”, “Iterare”, “Prevedere”, “Adattare”), gli autori individuano due grandi categorie – “Come l’uomo completa le mac-chine” e “I superpoteri che l’AI regala all’uomo” – e, in ciascuna di queste, tre campi di at-tività: da un lato “Addestrare”, “Spiegare”, “Sostenere”, dall’altro “Amplificare” “Interagi-re”, “Impersonare”.
Tutti questi campi appaiono forieri di nuove e molteplici posizioni di lavoro. Per esem-pio, l’uomo “completa le macchine” in quanto opera da trainer, le rende empatiche (si pensi ai chatbot che già interagiscono “emotivamente” fra aziende e clienti), ne modella le intera-zioni, analizza e spiega gli algoritmi complessi, definisce e muta le strategie, circoscrive i pericoli e garantisce la correttezza sul piano etico e legale. Le macchine, dal canto loro, “re-galano poteri all’uomo” in quanto gli permettono di raccogliere, analizzare, calcolare e sele-zionare nell’immenso universo del big data in modi e tempi infinitamente superiori alle ca-pacità della mente umana, liberano l’uomo da lavori di routine senza espellerlo, anzi ripor-tandolo perfino “in prima linea” (p. 142) e lo forniscono di inusitati strumenti di controllo (si pensi ai “gemelli digitali” che riproducono processi fisici e sui quali si può intervenire per individuare e risolvere problemi, oppure ai cobot, robot collaborativi che interagiscono col lavoratore in fase di produzione liberandolo dei compiti più faticosi sotto la sua super-visione).
Complessivamente, dunque, si prospetta una gran quantità di competenze nuove, de-stinate naturalmente a sostituire quelle obsolete, ma soprattutto ad arricchire il quadro complessivo delle prestazioni di lavoro in una prospettiva generale di crescita economica. Sempreché – avvertono gli autori – le aziende imbocchino senza indugio una via nuova, cambiando mentalità e rinunciando alle procedure statiche e ripetitive rassicuranti fino a ie-ri, ma perdenti nel breve e perfino brevissimo periodo.
Il messaggio degli autori si riassume nell’acronimo MELDS (Mindset, Experimentation, Leadership, Data, Skills), discusso negli ultimi due capitoli del volume. Sugli skills, in partico-lare, gli autori descrivono “otto competenze miste per guidare manager e lavoratori nella programmazione e sviluppo di una forza lavoro in grado di fiorire nello spazio fantasma” (p. 177), che vale la pena enumerare: “Riumanizzare il tempo”, “Normalizzazione respon-sabile”, “Giudizio integrato”, “Interrogazione intelligente”, “Potenziamento automatico”, “Fusione olistica”, “Apprendistato reciproco” e “Reinvenzione incessante”.
Ai cultori di scienze sociali non può sfuggire che il messaggio del libro, secondo cui, nel quadro di una profonda riorganizzazione della produzione e degli scambi, lo sfrutta-mento di quello “spazio intermedio” è destinato a moltiplicare le opportunità di lavoro umano (Un rapporto del McKinsey Global Institute del dicembre 2017 preconizza “da 20 a 50 milioni entro il 2030” ) va in controtendenza rispetto a prospettive che da molto tempo tengono campo nelle loro discipline.
Naturalmente la prima e più radicata fra queste è che la macchina sarebbe destinata a soppiantare l’uomo privandolo del lavoro e costringendo alla disoccupazione masse cre-scenti di lavoratori. Questo incubo antico (Carlo Marx già se ne preoccupava nell’Ottocento) non è mai scomparso, tanto più che l’esperienza corrente dei mercati del lavoro sembra confermarlo mese dopo mese attraverso il costante ampliamento dell’area di lavoro precario, occasionale, non garantito, ormai vicino in molti campi, anche fra le attività non manuali, alla sfera del lavoro coatto, se non proprio schiavistico.
La seconda prospettiva, che della prima costituisce la versione ottimistica e in questo senso vi si contrappone, è che grazie alle macchine l’uomo sarà finalmente liberato dal lavo-ro e potrà dedicarsi all’arte, alla scienza, al lavoro gratuito o semplicemente all’ozio, come auspicato da quel Paul Lafargue che, come noto, di Marx era il (poco amato) genero. An-che questa utopia – contrapposta alla precedente distopia – è ricorrente, e anzi autorevoli voci, in Italia soprattutto Domenico De Masi fra i sociologi, se ne sono fatti portavoce an-che in tempi recenti.
Una terza e se possibile ancor più ampia prospettiva che Daugherty e Wilson paiono mettere in discussione sembra quella, rilanciata continuamente dai teorici dello sviluppo so-stenibile, e ripresa a diversi livelli divulgativi, della c.d. decrescita felice, secondo cui, pur di fronte all’incontrollabile aumento della popolazione mondiale e alla conseguente necessità di moltiplicare la produzione di beni di consumo, sarà indispensabile ridurre sensibilmente il ritmo di sviluppo per proteggere l’ambiente già ampiamente devastato. Infatti, secondo gli autori, la riorganizzazione del sistema economico dovuta all’introduzione massiva dell’intelligenza artificiale comporterà non solo sostanziali contenimenti dei costi di produ-zione senza ulteriori sacrifici per quelli del lavoro già ridotti all’osso, ma anche forti limita-zioni e risparmi nello sfruttamento delle risorse naturali. Per esempio, nel campo dell’agricoltura, il volume (pp. 44-46) menziona processi produttivi che permettono drasti-che riduzioni nel consumo di acqua e di fertilizzanti, come pure nell’uso dei pesticidi.
Gli argomenti degli autori, accompagnati da numerosi esempi solo in parte noti e in molti casi assai significativi di applicazione dell’intelligenza artificiale nei più diversi settori, appaiono complessivamente solidi, benché a volte frettolosi e non sempre convincenti in mancanza di dettagli più specifici: per esempio, come rilevato in una recensione a firma di W.C. Hagen su LibraryThing , peraltro positiva (“the book breaks new ground”), questo vi-zio tocca proprio un punto cruciale del lavoro, quello sugli skills necessari per applicare a dovere nelle aziende l’intelligenza artificiale. Molti interrogativi che sorgono spontanei a chi – come il sottoscritto – vede le tecnologie dal lato delle scienze sociali più che da quello delle scienze “dure”, che ne sono il retroterra, trovano una risposta e inducono a nuove ri-flessioni. Altri interrogativi, sempre limitandosi alle scienze sociali, restano irrisolti, e gli stessi autori di Human+Machine lo riconoscono in più punti.
Alcune perplessità valgono già per l’assunto principale del libro, ovvero la moltiplica-zione delle opportunità di lavoro. La tendenza può darsi per scontata nel suo complesso, ma se si guarda più in dettaglio sorgono dubbi: in primo luogo, che le nuove posizioni all’orizzonte vadano a riguardare più che altro le fasce alte e medio-alte della scala delle prestazioni di lavoro; in secondo luogo, che soprattutto nelle fasce più basse il saldo possa essere comunque negativo (l’opera reca vari esempi di sostituzione di operai, anche minato-ri, attraverso l’uso di macchine intelligenti per il cui controllo bastano pochi individui esper-ti); in terzo luogo, che nel tempo pur breve entro cui si attuerà la rivoluzione descritta nel volume, ampie masse di persone siano comunque destinate ad essere espulse dal mercato del lavoro e condannate alla precarietà, con conseguenze politico-sociali già oggi percepibili. Non dimentichiamo che anche le decine di milioni di nuovi posti di lavoro di cui parla il rapporto McKinsey, ovviamente benvenuti, non sono decisive se rapportate ai miliardi di persone in età lavorativa.
Qualche interrogativo sorge altresì là dove l’intelligenza artificiale sfocia nei campi in cui l’arbitrio umano è tradizionalmente padrone, come l’etica e il diritto. Per esempio il li-bro informa di un prototipo, Quixote, in grado “di imparare l’etica – ad esempio, che non si deve rubare – leggendo storie semplici” e, in tal modo, “apprendere i valori umani”, e giustamente avverte dei rischi relativi e della necessità di impiegare automation ethicists per circoscriverli (p. 126-7). Ma questa soluzione non rimuove il problema di base perché resta sempre vivo il quesito di fondo: quale etica e quale diritto (e conseguentemente quale ethicist e quale giurista o giudice o legislatore). L’etica di Gandhi o l’etica di Goebbels? La legge de-mocratica o la legge del più forte? Proprio il fatto che l’input provenga da “storie semplici” preoccupa, dato che sono proprio queste storie che spesso fanno presa, come dimostrano gli infiniti esempi di manipolazione del consenso sociale mediante la ripetizione di slogan inconsistenti che nascondono privilegi e spesso sopraffazione. Queste osservazioni non parranno peregrine se si pensa a quel chatbot che, intendendo il linguaggio corrente, può usare espressioni volgari (p. 94) e a quell’altro, già ben noto, che nel prevedere i compor-tamenti devianti ha mostrato un chiaro orientamento razzista (p. 172). Entrambi, ovvia-mente, riflettendo stili e valori diffusi, se non maggioritari.
Alla fine – lo si legge nelle parole degli autori – anche questa appassionata descrizione del brave new world di domani conferma che la macchina più intelligente, se da un lato per-mette di assumere decisioni personalizzate anziché standardizzate, dall’altro riflette le scelte ugualmente singolari e “profilate” di chi provvede, come usa dire col trattino, ad “in-formarla”.

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