Omissis

Svolgimento del processo

Con sentenza del 27 marzo 2009 il giudice del lavoro di Trapani in parziale accoglimento della domanda proposta da C.R. nei confronti del Condominio (omissis), al fine di ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze di tale condominio per il periodo compreso tra luglio 1993 e giugno 2004 e delle relative differenze retributive, condannò il convenuto al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di Euro 23.932,46 accessori inclusi, a titolo di differenze retributive relative al periodo dal 4 marzo 1998 in poi, per il quale era stato stipulato un contratto di lavoro subordinato part-time.

Contro tale pronuncia ha interposto gravame la C., lamentandone l’erroneità limitatamente alle sue domande non accolte. La Corte di Appello di Palermo con sentenza n. 2466 in data primo dicembre 2011 - 8 febbraio 2012 rigettava l’impugnazione avverso la gravata pronuncia risalente al 27 marzo 2009, dichiarando interamente compensate tra le parti le spese relative al secondo grado del giudizio e ponendo a carico dell’Erario le spese le competenze ed onorari relativi alla difesa dell’appellante, ammessa al gratuito patrocinio, liquidate come da separato decreto.

Ad avviso della Corte distrettuale, contrariamente a quanto sostenuto dalla lavoratrice, l'esame del contratto di appalto in data 7 maggio 1994 non consentiva di ricavare elementi idonei a pervenire, con sufficiente grado di univocità e di verosimiglianza, alla ricostruzione dei rapporti intercorsi tra le parti secondo lo schema negoziale del rapporto di lavoro subordinato, mancando nella specie un quadro probatorio tale da asseverare con certezza la sussistenza del connotato fondamentale della subordinazione, intesa quale sottoposizione al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro.

L’effettuazione delle attività appaltate con cadenza giornaliera e nelle ore antimeridiane non equivaleva ipso facto all’osservanza di un orario di lavoro, restando comunque nella facoltà della C. di scegliere in un arco temporale ampio i tempi più idonei alla realizzazione del servizio. L’uso gratuito della casa poteva costituire una forma di corrispettivo parziale, in aggiunta a quello pecuniario, ma non rappresentava un elemento dirimente riguardo alla qualificazione del rapporto. Quanto alle risultanze della prova testimoniale la inattendibilità delle testi P. e A. era stata ampiamente motivata dal primo giudicante. Le altre testimonianze risultavano comunque carenti. Di conseguenza, la Corte territoriale non ravvisava elementi probatori idonei a dimostrare sufficientemente che il rapporto intercorso tra le parti in epoca anteriore al 4 marzo 1998 fosse riconducibile, in contrasto con il nomen juris attribuitogli dalle parti, alla subordinazione di cui all’art. 2094 c.c.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione C.R., come da atto notificato il 3 maggio 2012, affidato a un solo motivo, cui ha resistito il Condominio (omissis), mediante controricorso, di cui alla richiesta di notifica in data 8 giugno 2012, in seguito illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c., secondo il quale era stato intrattenuto un rapporto di lavoro autonomo con l’attrice, dal 1994 fino al 1998 in base a due contratti di appalto, regolarmente sottoscritti e debitamente registrati nonché allegati agli atti, laddove dal 1998 su conforme volontà delle parti tale rapporto si era trasformato in rapporto di lavoro subordinato a tempo parziale per complessive 13 ore settimanali.

Motivi della decisione

La ricorrente ha lamentato violazione o falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., e dell’art. 116 c.p.c., per l’errata valutazione delle prove testimoniali e documentali ai sensi dell’art. 360, n. 3, dello stesso codice di rito.

La decisione impugnata, infatti, secondo la C., contrastava con quanto statuito dal giudice di primo grado, che aveva inquadrato il rapporto tra le parti in quello di cui alla qualifica A4, avendo l’attrice la disponibilità dell’alloggio all’interno del fabbricato, qualifica prevista dal contratto collettivo per i dipendenti da proprietari di fabbricati in data 4 dicembre 2003 per cinque ore alla settimana dal lunedì al sabato, anche se il primo giudicante aveva considerato il rapporto dal marzo 1998 al 30 giugno 2004, data questa in cui la ricorrente era stata inquadrata dal condominio con un contratto di pulizia part-time per 13 ore settimanali, ma considerando i pregressi periodi.

Il rapporto di lavoro subordinato era stato sufficiente dimostrato per tutto quanto richiesto dal contratto di appalto del 7 maggio 1994, allegato al fascicolo di parte, che ad un attento esame consentiva di ricondurre tale appalto ad un rapporto di lavoro subordinato di portierato, visto che la pulizia dell’ingresso doveva avvenire giornalmente, che la C. avrebbe dovuto provvedere alla distribuzione della posta nella stessa giornata di arrivo, nonché al controllo degli impianti idrici ed elettrici, nonché dell'ascensore, comunicando eventuali guasti all’amministratore, che i servizi andavano svolti nelle ore antimeridiane dei giorni non festivi, e che era altresì previsto l’uso gratuito della casa.

La Corte di Appello aveva errato nella valutazione delle anzidette prove, giudicando inattendibili le due suddette testi, poiché parenti e affini della ricorrente, le cui dichiarazioni però risultavano confermate dallo stesso contratto di appalto in data 7 maggio 94 e dalla certificazione anagrafica, da cui emergeva la residenza della ricorrente nell’alloggio condominiale dal 14 giugno 1994. Sulla riconducibilità per tutto il periodo evidenziato ad un rapporto di lavoro subordinato avevano certamente deposto, ad avviso della ricorrente, le risultanze delle altre dichiarazioni testimoniali, unitamente ai prodotti documenti, che dimostravano l’inizio del rapporto all’estate dell’anno 1993.

Per di più, la C. non disponeva di alcuna organizzazione imprenditoriale, sia pure in termini minimi, e non sopportava alcun rischio economico, percependo una retribuzione predeterminata, per cui non aveva dovuto affrontare alcuna spesa, poiché i materiali di pulizia erano a carico del condominio. Inoltre, l’obbligo di giustificare assenze ed allontanamenti all’amministratore ed ai condomini costituivano un’ulteriore prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Per tutto il periodo in contestazione i testi avevano fatto riferimento ad un lavoro avente sempre le stesse caratteristiche, sia durante la pendenza dell’appalto, che durante il periodo di lavoro part time.

Nel caso di specie, non trattandosi di un lavoro ripetitivo con prestazioni estremamente elementari, era chiaro che il rapporto di lavoro subordinato poteva manifestarsi anche con forme attenuate di subordinazione, in ogni caso con l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione condominiale e mediante l’espletamento di compiti che esulavano dal normale servizio di pulizia, con l’assoggettamento, inoltre, al potere direttivo dell’amministratore. Era stato, altresì, provato il rispetto di un orario di lavoro.

Tanto premesso, il ricorso va disatteso in base alle seguenti considerazioni.

Deve in primo luogo, osservarsi come il ricorrente abbia omesso di riportare sufficientemente il contenuto dei documenti (le scritture private relative ai tre rapporti contrattuali in questione, indicati nella precedente narrativa), nonché le testimonianze (le cui deposizioni sono state invece richiamate in modo alquanto sintetico), che si assumono erroneamente valutati dai giudici del merito, con conseguente violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, la cui inottemperanza è sanzionata “a pena di inammissibilità”.

Inoltre, in questo giudizio di legittimità ciò che viene in rilievo è soltanto quanto accertato, valutato e deciso nel merito in sede di gravame, nei limiti di quanto devoluto allo stesso sulla scorta di appositi e specifici motivi. Come già visto in narrativa, circa il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale, i giudici dell’appello hanno sufficientemente motivato il proprio convincimento in ordine a fatti di causa mediante argomentato apprezzamento, perciò incensurabile in sede di legittimità. Peraltro, va anche evidenziato in proposito come parte ricorrente non abbia nemmeno lamentato, almeno espressamente, un eventuale vizio sussumibile nell’ambito della previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in tema di “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio” (secondo il testo nella specie ratione temporis applicabile, anteriore alla modifica introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con L. 7 agosto 2012, n. 134, stante il regime transitorio di cui allo stesso art. 54 cit., comma 3).

Orbene, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio contemplato dall’art. 360 c.p.c., n. 5. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta - è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (v. Cass. Sez. un. civ. n. 10313 del 05/05/2006, conformi Cass. 1a civ. n. 4178 del 22/02/2007, sez. lav. n. 7394 del 26/03/2010, id. n. 16698 del 16/07/2010. Cfr. altresì Cass. 5a civ. n. 8315 del 4/4/2013, secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione - peraltro nei rigorosi limiti al riguardo fissati dalla giurisprudenza, pure con riferimento alla previgente formulazione dell’art. 360, n. 5. Nel caso di specie, quindi, era ritenuto inammissibile il motivo di ricorso con il quale era stata contestata la valutazione che la commissione tributaria regionale aveva fatto in ordine alla concludenza di una prova presuntiva. In senso conforme, ancora Cass. 5a civ. n. 26110 del 30/12/2015, nonché Sez. lav. n. 195 - 11/01/2016, la quale, per l’effetto, rigettava il motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, mediante cui era stata contestata, ai fini dell’accertamento del diritto all’indennizzo da mancato godimento dei riposi compensativi, la valutazione delle risultanze di causa in ordine alla penosità delle prestazioni di lavoro svolte nei turni di pronta disponibilità.

Cfr. altresì Cass. lav. n 26307 del 15/12/2014, secondo cui il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, ricorre - o non ricorre - a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione - id est: del processo di sussunzione - rilevando solo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata, poiché il ricorrente è tenuto, in ogni caso, a prospettare l’erronea interpretazione di una norma da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata e ad indicare, a pena d’inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4, motivi per i quali chiede la cassazione. Conforme Cass. n. 22348/2007).

Invero, poi, il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo, giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, dello stesso codice, non solo con la indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti, tese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di “errori di diritto” individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme che si assumono violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (così, tre le altre, Cass. 1a civ. n. 5353 in data 08/03/2007 e Cass. n. 11501 del 2006).

Pertanto, nella specie si appalesano inconferenti ed insufficienti le censure mosse da parte ricorrente, fondate più che altro su diverse valutazioni in punto di fatto - dissenzienti rispetto a quanto motivatamente però deciso dai giudici di merito - come tali assolutamente irrilevanti, soprattutto perché non specificano errori in diritto, eventualmente commessi con l’impugnata pronuncia.

Basti, dunque, ricordare (v. Cass. lav. n. 21028 del 28/09/2006) come l’elemento, che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto di lavoro autonomo, sia essenzialmente l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia ed inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e di per sé non decisiva; sicché qualora vi sia una situazione oggettiva di incertezza probatoria, il giudice deve ritenere che l’onere della prova a carico dell’attore non sia stato assolto, e non già propendere per la natura subordinata del rapporto.

Peraltro, al fine del rigetto della domanda fondata sulla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il giudice del merito, che neghi la ricorrenza degli elementi costitutivi di detto rapporto, non è tenuto ad accertare se le prestazioni svolte dall’attore siano ricollegabili ad un contratto d’opera o ad un contratto di appalto, stante l’irrilevanza di una tale indagine al fine indicato. Di conseguenza, anche l’eventuale erroneità dei criteri adottati in quell’accertamento non può essere utilmente dedotta come motivo di ricorso per cassazione avverso una tale pronuncia.

Ed invero, in caso di domanda diretta ad accertare la natura subordinata del rapporto di lavoro, qualora la parte che ne deduce l’esistenza non abbia dimostrato la sussistenza del requisito della subordinazione - ossia della soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che discende dall’emanazione di ordini specifici oltre che dall’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo sull’esecuzione della prestazione lavorativa - non occorre, ai fini del rigetto della domanda, che sia provata anche l’esistenza del diverso rapporto dedotto dalla controparte, dovendosi escludere che il mancato accertamento di quest’ultimo equivalga alla dimostrazione dell’esistenza della subordinazione, per la cui configurabilità è necessaria la prova positiva di specifici elementi che non possono ritenersi sussistenti per effetto della carenza di prova su una diversa tipologia di rapporto (in tal sensi v. pure Cass. lav. n. 2728 del 17/11/2009 - 08/02/2010).

D’altro canto, indipendentemente dal nomen juris utilizzato dalle parti nel caso di specie, con riferimento all’arco temporale per il quale non è stata riconosciuta la natura subordinata del rapporto, va per completezza ricordato (cfr. Cass. 2a civ. n. 12519 del 21/05/2010) che il contratto d’appalto ed il contratto d’opera si differenziano per il fatto che nel primo l’esecuzione dell'opera commissionata avviene mediante una organizzazione di media o grande impresa cui l’obbligato è preposto, mentre nel secondo con il prevalente lavoro di quest’ultimo, pur se coadiuvato da componenti della sua famiglia o da qualche collaboratore, secondo il modulo organizzativo della piccola impresa (conforme Cass. n. 7307 del 29/05/2001). Ne deriva che non appaiono fondate, né altrimenti decisive le anzidette doglianze di parte ricorrente, fondate sull’assunto dell’impossibilità di ravvisare il contratto di appalto in capo alla stessa C., non essendo ella una imprenditrice, nulla vietando, invece, che le sue prestazioni, durante il periodo luglio 1993/febbraio - marzo 1998, siano state rese, più precisamente e correttamente, nell’ambito del contratto tipizzato dall’art. 2222 c.c., ossia da persona che si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente.

Dunque, il ricorso va respinto, con conseguente condanna della parte rimasta soccombente al rimborso delle relative spese.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, a favore di parte controricorrente, in Euro 3500,00 (tremilacinquecento/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Così deciso in Roma, il 29 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 2 gennaio 2018.

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