testo integrale con note e bibliografia

Premessa
Molto tempo fa il grande Valerio Onida, reduce dalla sua esperienza di Presidente della Corte costituzionale, sottolineò che la tutela dei diritti fondamentali può essere assicurata meglio in sede giudiziaria perché la velocità e l’imprevedibilità dei cambiamenti delle diverse fattispecie rendono difficile la tempestiva emanazione di norme legislative peri singoli casi che anzi potrebbero anche avere l’effetto contrario di creare delle barriere per l’esame delle diverse vicende. Ma questo presuppone che i giudici nazionali siano aperti al sopranazionale e all’internazionale e, cioè, ad instaurare un dialogo tra loro, non solo all’interno dei singoli ordinamenti di appartenenza, ma anche con le Corti sopranazionali, come la Corte EDU e la Corte di giustizia UE e che interpretino le relative pronunce con lo stesso metodo con il quale sono emanate, cioè partendo dall’analisi del caso deciso.
Ebbene, la realizzazione di questo modello comporta anche una configurazione dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte di giustizia UE che sia tale da consentire la più ampia tutela dei diritti fondamentali, le cui violazioni sono in costante aumento.
La Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 269 del 2017, ha delineato un modello di configurazione dei suddetti rapporti che ha trovato applicazione in alcune recenti sentenze della Corte (spec. sentenze n. 20 del 2019; nn.15, 181, 210 del 2024; nn. 1 e 7 del 2025).
Nella presente relazione si cercherà di approfondire il senso di questo nuovo orientamento del Giudice delle leggi nel rapporto tra l’introduzione del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, muovendo da una sintetica analisi dello sviluppo storico del rapporti tra le due suddette Corti.
1.- Un metodo nuovo
Nella indicata prospettiva deve essere, in primo logo, sottolineato che l’impatto delle decisioni delle Corti centrali europee su quelle dei giudici nazionali (in particolare: civili, visto che quelle dei giudici penali qui non vengono qui prese in considerazione) e quindi sull’operato della Corte di cassazione è imponente e si può dire che non solo riguarda – in modo più o meno significativo –moltissime materie, ma soprattutto che incide sul metodo da applicare per affrontare le diverse problematiche.
In particolare, va sottolineato che il dialogo tra la CGUE e le Supreme Corti italiane (Corte Costituzionale e Corte di Cassazione) ha origini remote.
Basti pensare che se siamo arrivati all’attuale configurazione, in ambito UE, del principio di uguaglianza come “principio generale ‘trasversale’ a tutto il diritto dell’Unione” (CGUE 24 gennaio 2012, causa C-282/10) ciò dipende dagli esiti del lungo processo evolutivo avvenuto all'interno della Unione - grazie alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, influenzata da quella della Corte EDU e dei giudici nazionali e quindi anche delle nostre Corti Supreme – che ha portato a intendere nel suddetto modo il principio di uguaglianza a conclusione di una importante operazione ermeneutica effettuata dalla CGUE.
Non va, infatti, dimenticato che i principi di uguaglianza e non discriminazione – a differenza di quanto avviene nella maggior parte degli ordinamenti nazionali dove gli stessi frequentemente sono geneticamente riconducibili nel novero dei principi fondamentali su cui si fondano le moderne costituzioni – nelle prime fasi del processo di integrazione europea hanno trovato collocazione all’interno dei trattati istitutivi delle Comunità europee, ma non in quanto principi fondamentali bensì sul presupposto della configurazione della parità di trattamento e del divieto di discriminazioni sulla base della nazionalità come cardini per l’attuazione dei principi di libera circolazione (delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali) fondamentali per la realizzazione del mercato interno.
Soltanto con le modifiche apportate dal Trattato di Maastricht (firmato il 7 febbraio 1992) ai trattati istitutivi che, nel perseguimento di una maggiore integrazione politica fra gli Stati membri, è stata istituita la cittadinanza dell’Unione e contestualmente enunciato (Titolo I, Articolo F, n. 2) il principio secondo cui: “l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario”.
Con il Trattato di Maastricht è stato anche aggiunto al trattato istitutivo della Comunità europea un secondo comma dell’art. 3, prevedendo che l’azione della Comunità mira ad eliminare le ineguaglianze e a promuovere la parità tra uomini e donne” nonché un nuovo articolo 6 A (divenuto articolo 13 a seguito della nuova numerazione e oggi 19 19 TFUE), ove si stabilisce che il Consiglio votando all’unanimità possa assumere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o l’orientamento sessuale. Veniva poi introdotto un quarto comma all’art. 119 (che secondo la nuova numerazione diverrà l’art. 141 TCE e ora 157 TFUE), che consente agli Stati membri di mantenere o adottare misure che facilitino l’esercizio di attività professionali da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali (cd azioni positive).
Per l’approvazione di tali modifiche normative un ruolo significativo ha avuto l’interpretazione evolutiva dei principi del diritto UE fornita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia principi presenti sia nelle fonti di diritto primario (i trattati istitutivi) sia in quelle di diritto secondario (regolamenti e direttive) e grazie a tale interpretazione si è finalmente giunti ad un generale principio di uguaglianza analogo (ma non uguale) a quello previsto da molte delle Costituzioni degli Stati membri, declinato nei due diversi aspetti dell’uguaglianza e della non discriminazione.
Tutto questo anche grazie al dialogo tra la CGUE e i giudici nazionali (ivi compresa la Corte costituzionale), che del resto è alla base del meccanismo del rinvio pregiudiziale, che “costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai trattati” proprio perché instaura un dialogo da giudice a giudice tra la CGUE e tutti i giudici degli Stati membri (come ribadito da Corte di giustizia UE, Grande Sezione, 6 ottobre 2021, C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi).
Infatti, la CGUE ha dato inizio a questo virtuoso cammino proprio muovendo l’esistenza di soli singoli divieti di discriminazione presenti nel diritto primario UE e delle statuizioni contenute nella giurisprudenza di alcuni giudici nazionali sul principio di uguaglianza.
Questa evoluzione ha poi portato al riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali della UE del principio generale di uguaglianza di tutte le persone davanti alla legge (art. 20), del divieto di qualunque forma di discriminazione (art. 21) con la garanzia di eventuali “azioni positive” in caso di discriminazioni fondate sul sesso (art. 23) nonché sulla disabilità (per via giurisprudenziale).
E può dirsi che questa evoluzione sia del tutto conforme alla giurisprudenza della nostra Corte costituzionale che, a partire dalla nota “svolta” giurisprudenziale del 1987, ha ritenuto che fosse necessario:
a) modificare il proprio precedente consolidato indirizzo, secondo cui l’art. 2 Cost. veniva riferito soltanto ai diritti fondamentali garantiti da altre disposizioni della stessa Carta fondamentale, per affermare che il suddetto articolo contiene un «elenco aperto», di diritti fondamentali;
b) nella stessa ottica, dare “energica attuazione in numerosissime occasioni al principio di eguaglianza enunciato dall’art. 3 Cost.” considerato – nei suoi due commi – come “un dato rilevantissimo ed essenziale della Costituzione repubblicana”, che “riflette un’evoluzione politica per cui i singoli ed i vari ceti sociali, specialmente quelli popolari e meno fortunati, non debbono subire indebite limitazioni e discriminazioni”. Di qui la conseguenza che l’indicazione dei fattori di possibile discriminazione di cui al primo comma dell’articolo 3 non ha carattere tassativo, ma si riferisce soltanto alle situazioni più frequenti.
La Corte costituzionale da allora non ha mai abbandonato questa strada ‒ come delineata dell’allora Presidente della Corte Francesco Saja – diretta a garantire la massima espansione possibile delle tutele delle posizioni giuridiche soggettive, specialmente in favore soggetti socialmente più deboli, che sono anche quelli per i quali il rischio di discriminazione è più alto.
Grazie a questa sintonia e anche alla giurisprudenza della Corte EDU è stata possibile una significativa evoluzione della nostra giurisprudenza nazionale in materia di discriminazioni specialmente nel mondo del lavoro, sulla base pure di importanti Convenzioni ONU sul contrasto alle discriminazioni.
Del resto, non va dimenticato l’elemento “scatenante” di tutto virtuoso processo che ha portato all’attuale configurazione del diritto antidiscriminatorio in ambito UE e nazionale è stata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, ove la precisazione secondo cui “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” (art. 1) viene poi proclamato, per la prima volta, il divieto di discriminazione con riferimento ad una serie di fattori discriminanti (art. 2).
Non deve, quindi, stupire se nell’evoluzione storico-giuridica della materia, essendo il diritto antidiscriminatorio nato prima ancora che in ambito europeo proprio in ambito ONU e sulla base della suddetta Dichiarazione universale, una grande rilevanza è da attribuire ad alcune specifiche Convenzioni emanate sulla sua base, come:
1) la CEDAW (del 1979), cioè la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women), ratificata e resa esecutiva dall’Italia con legge n. 132 del 14 marzo 1985 (mentre l’adesione del nostro Paese al Protocollo opzionale è avvenuta il 29 ottobre 2002). Si tratta di una Convenzione che, a livello mondiale, tuttora rappresenta il principale testo giuridicamente vincolante sui diritti delle donne, così come la Piattaforma d’azione approvata dalla Conferenza di Pechino del 1995 è il testo politico più rilevante e tuttora più consultato dalle donne di tutto il mondo;
2) la Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176);
3) l’importante Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18), alla quale il 23 dicembre 2010 l’Unione Europea ha aderito ufficialmente, come prima organizzazione intergovernativa che ha sottoscritto un trattato sui diritti umani e ne ha accettato gli obblighi indiscriminatamente.
2.- Un quadro normativo e giurisprudenziale variegato.
La tessitura del suddetto variegato quadro giurisprudenziale e normativo in materia di discriminazioni è quindi il frutto del dialogo tra giudici comuni, Corte costituzionale, CGUE e Corte di Strasburgo che ha consentito alla giurisprudenza nazionale e, in particolare a quella della Corte di cassazione, di rendere più efficace la tutela del principio della pari dignità umana e sociale di tutte le persone, che è alla base del principio di uguaglianza e quindi del principio democratico sul quale sono fondati il nostro Stato e la stessa UE, secondo cui ognuno riconosce agli altri esseri umani pari dignità e quindi non commette discriminazioni, perché le discriminazioni si basano sulla negazione della suddetta pari dignità.
Ma è importante sottolineare che, dal punto vista metodologico, la Corte di cassazione è partita da due presupposti.
2.1.- Il primo presupposto metodologico.
Quello delle discriminazioni è un campo in cui, oltre a potersi verificare sovrapposizioni e combinazioni tra diritto interno, internazionale e comunitario sono anche frequenti ‒ e in aumento ‒ le occasioni di interrelazione tra diritto UE e CEDU e quindi tra Corte EDU e Corte di giustizia UE.
Alla maggiore frequenza di tale ultima evenienza hanno contribuito, da un lato, l’emanazione della Carta dei diritti fondamentali UE (cui il Trattato di Lisbona ha attribuito lo stesso valore dei Trattati, art. 6) con conseguenti maggiori occasioni per la Corte di Giustizia di richiamare i diritti fondamentali in essa contemplati e, da un differente versante, la sempre più spiccata sensibilità mostrata dalla Corte EDU ad occuparsi anche delle violazioni dei diritti socio-economici, non rientranti direttamente nella Convenzione (ma contemplati nella Carta Sociale Europea Riveduta), anche dal punto di vista delle discriminazioni.
Per la soluzione delle questioni di interrelazione tra fonti di diversa provenienza si deve applicare il metodo indicato dalla consolidata giurisprudenza costituzionale, secondo cui l’applicazione alla singola fattispecie della normativa internazionale (Convenzioni varie, specie ONU per le discriminazioni), UE (direttive o Carta UE) così come della CEDU − con l’utilizzazione dei relativi strumenti ermeneutici, nel modo stabilito dalla stessa Corte costituzionale − presuppone che, almeno in tesi, sia ipotizzabile la eventuale operatività di un plus di tutela convenzionale o UE rispetto a quella interna (vedi per tutte: sentenza n. 317 del 2009 e ordinanza n. 11 del 2011).
Da questo principio si desume che, secondo la Corte costituzionale, il criterio “principale” da utilizzare è quello della interpretazione in conformità alla nostra Costituzione e che l’utilizzazione di norme internazionali o sovranazionali si giustifica solo se porta ad una tutela più efficace.
Tale impostazione, trova riscontro:
1) per i rapporti diritto interno-diritto UE, anche nel “principio di equivalenza”, come inteso dalla CGUE;
2) per i rapporti diritto interno-CEDU, nell’art. 53 della stessa Convenzione, secondo cui l’interpretazione delle disposizioni CEDU non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati dalle fonti nazionali.
L’applicazione del suddetto metodo in materia di diritto antidiscriminatorio comporta che gli operatori nazionali devono muovere dalla consapevolezza di avere a disposizione uno strumento di tutela delle vittime molto efficace, che può consentirci di contrastare qualunque tipo di discriminazione e, ove necessario, di utilizzare nel migliore dei modi la normativa di provenienza ONU, UE e CEDU.
Si tratta degli artt. 2 e 3 Cost., come sono stati intesi dalla Corte costituzionale, a partire dalla richiamata nota “svolta” giurisprudenziale del 1987.
2.1.1.- Le recenti sentenze della Corte costituzionale sul rapporto tra rinvio pregiudiziale e incidente di legittimità costituzionale.
Deve anche essere considerato che nella evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di discriminazioni è questo l’ambito in cui si è maggiormente dato seguito al famoso “obiter dictum” della sentenza n. 269 del 2017, secondo cui quando principi e diritti fondamentali enunciati dalla CDFUE(ma anche nei trattati o nel diritto derivato) intersecano principi e diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione – fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130 – va preservata l’opportunità di un intervento con effetti erga omnes della Corte costituzionale, in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di legittimità costituzionale a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.), con la precisazione che, in tali fattispecie, la Corte costituzionale giudicherà alla luce dei parametri costituzionali interni, ed eventualmente anche di quelli europei (ex artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), comunque secondo l’ordine che di volta in volta risulti maggiormente appropriato.
Invero, le più recenti sentenze in cui la Corte costituzionale ha fatto applicazione di tale orientamento sono prevalentemente in materia di discriminazioni derivanti dalla violazione di diritti fondamentali riconosciuti sia in ambito UE sia dalla nostra Costituzione (vedi, per tutte: sentenza n. 181 del 2024, con riguardo ad una discriminazione in danno delle donne in un concorso per la qualifica iniziale di ispettore della polizia penitenziaria; sentenze n. 15 del 2024 e n. 1 del 2025 per il diritto alla abitazione e all’accesso alla edilizia residenziale pubblica dei cittadini extra UE titolari di permessi di soggiorno di lungo periodo).
Comunque, in linea generale, quello che conta per legittimare l’eventuale intervento della Corte costituzionale è la denuncia della violazione di una norma europea (contenuta nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nei trattati o anche di diritto derivato) che presenti un nesso con interessi o principi di rilievo costituzionale, tale da configurare il “tono costituzionale” della questione.
In tal caso, il giudice, ove ravvisi l’incompatibilità del diritto nazionale con il diritto dell’Unione dotato di efficacia diretta, può non applicare la normativa interna, all’occorrenza previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (art. 267 TFUE), ovvero sollevare una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. (vedi, per tutte: sentenza n. 210 del 2024).
Ma deve essere chiaro che la competenza della Corte costituzionale non può in alcun modo ostacolare o limitare il potere dei giudici comuni di proporre un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e di non applicare la legge statale incompatibile con il diritto dell’Unione (CGUE, grande sezione, sentenza 22 giugno 2010, in cause riunite C-188-10 e C-189/10, Melki e Abdeli; CGUE, grande sezione, sentenza 22 febbraio 2022, in causa C-430/21, RS).
In definitiva, è il giudice comune a decidere, in relazione alle caratteristiche del caso concreto, se disapplicare la legge oppure sollevare una questione di legittimità costituzionale, ferma restando la possibilità di proporre un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ex art. 267 TFUE. Rinvio pregiudiziale che potrà essere proposto anche da parte della stessa Corte costituzionale, investita della questione di legittimità costituzionale, allorché esistano dei dubbi sull’interpretazione del diritto dell’Unione.
Infatti, la Corte di giustizia ha il compito di assicurare, con la sua interpretazione, l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione, garantendo così l’eguaglianza degli Stati membri davanti a tale diritto (art. 2 TUE).
La “comunità delle Corti” e il “dialogo” che si svolge tra le stesse, improntato al principio della leale collaborazione, promuovono la piena attuazione del principio del primato del diritto europeo e assicurano il buon funzionamento delle interdipendenze tra i diversi sistemi giuridici, nazionali ed eurounitario.
Il sistema è caratterizzato da un concorso di rimedi, destinato ad assicurare la piena effettività del diritto dell’Unione e, per definizione, ad escludere ogni preclusione.
Il sindacato accentrato di costituzionalità non si pone in antitesi con un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo, ma con esso coopera a costruire tutele sempre più integrate, rimettendo al giudice la scelta del rimedio più appropriato, ponderando le peculiarità della vicenda sottoposta al suo esame.
L’interlocuzione «con questa Corte, chiamata a rendere una pronuncia erga omnes, si dimostra particolarmente proficua, qualora l’interpretazione della normativa vigente non sia scevra di incertezze o la pubblica amministrazione continui ad applicare la disciplina controversa o le questioni interpretative siano foriere di un impatto sistemico, destinato a dispiegare i suoi effetti ben oltre il caso concreto, oppure qualora occorra effettuare un bilanciamento tra principi di carattere costituzionale» (sentenze nn. 15, 181 de 210 del 2024).
Quindi il meccanismo non vale solo per le discriminazioni ma per tutti i casi in cui si riscontra una incompatibilità del diritto nazionale con il diritto dell’Unione dotato di efficacia diretta e la disapplicazione non appare come uno strumento sufficiente per assicurare una risposta valida per tutti i casi analoghi su tutto il territorio nazionale e pertanto il giudice preferisca sollevare una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. (vedi, per tutte: sentenza n. 210 del 2024), salva la possibilità di proporre rinvio pregiudiziale alla CGUE.
Questo, ad esempio, è stato affermato in materia di trattamento sanzionatorio dei reati societari, vicenda nella quale la Corte di cassazione remittente aveva sottolineato la necessità di assicurare un trattamento (in particolare con riguardo alla confisca obbligatoria dei beni utilizzati per commettere i reato, considerata dalla Corte sproporzionata) uguale in tutto il territorio nazional, risultato considerato non ottenibile dalla Corte remittente con la disapplicazione (totale o parziale) in riferimento »all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE di una pena (confisca obbligatoria) prevista dalla legge italiana in quanto foriera di «incertezze e disparità di trattamento» (sentenza n. 7 del 2025).
In tutte le indicate sentenze la Corte costituzionale ha ribadito che il sindacato accentrato di costituzionalità non si pone in antitesi con un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo quale è il rinvio pregiudiziale alla CGUE, ma con esso coopera a costruire tutele sempre più integrate che in questo modo viene data al giudice ala scelta di individuare il rimedio più appropriato, ponderando le peculiarità della vicenda sottoposta al suo esame.
Ne deriva che la suindicata scelta interpretativa non può certamente essere considerata in contrapposizione con principi affermati dalla sentenza della CGUE 9 marzo 1978, in causa C-106/77 (Simmenthal), e dalla successiva sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 1984 (Granital) con i seguiti ad essa conforme.
Piuttosto, a mio avviso, essa costituisce una evoluzione di quei principi (che vanno comunque storicizzati) come già si è verificato con la proposizione (con ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2013) del primo rinvio pregiudiziale nell’ambito di un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale (dopo il primo rinvio pregiudiziale in un giudizio instaurato in via principale, di cui alla ordinanza n. 103 del 2008).
In altri termini, si tratta di un potenziamento degli strumenti a disposizione del giudice comune che è in linea con la richiamata “svolta” giurisprudenziale del 1987 nonché con le famose sentenze gemelle del 2007 e che ne rappresenta un aggiornamento derivante dalla emanazione della Carta UE e dagli sviluppi in materia di diritti fondamentali che si sono riscontrati nella giurisprudenza della CGUE e soprattutto dall’aumento dei casi di violazione della pari dignità e dei diritti fondamentali delle persone pure da parte delle Pubbliche Amministrazioni.
Quindi si tratta di un potenziamento applicabile specialmente quando viene in considerazione la tutela della dignità della persona che è alla base del principio democratico, come avviene in materia di discriminazioni e può avvenire anche in materia di immigrazione oltre che in materia di penale.
In simili contesti al fine di rendere la tutela più efficace e assicurare la piena effettività del diritto dell’Unione si considera opportuno prevedere una pluralità di strumenti a disposizione del giudice comune impegnato a dare attuazione al diritto dell’Unione europea nell’ordinamento italiano, nell’ambito della propria competenza.
E appare del tutto da condividere la precisazione della Corte secondo cui il sindacato accentrato di costituzionalità non si pone in antitesi con un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo, ma con esso coopera nella costruzione di tutele sempre più integrate (sentenza n. 15 del 2024, punto 7.3.3. del Considerato in diritto, richiamata nella sentenza n. 1 del 2025).
E va aggiunto che resta integra la facoltà del giudice di individuare il rimedio più appropriato, ponderando le peculiarità della vicenda sottoposta al suo esame, ma l’interlocuzione «con questa Corte, chiamata a rendere una pronuncia erga omnes, si dimostra particolarmente proficua, qualora l’interpretazione della normativa vigente non sia scevra di incertezze o la pubblica amministrazione continui ad applicare la disciplina controversa o le questioni interpretative siano foriere di un impatto sistemico, destinato a dispiegare i suoi effetti ben oltre il caso concreto, oppure qualora occorra effettuare un bilanciamento tra principi di carattere costituzionale» (sentenza n. 181 del 2024, punto 6.5. del Considerato in diritto).
Perché questo orientamento possa rivelarsi realmente utile quel che conta è seguirne il “senso” e quindi, fra le possibili interpretazioni della norma nazionale, considerare preferibile optare, fin dove è possibile, per quella più conforme al diritto dell’Unione nella consapevolezza che vi sono situazion nelle quali la disapplicazione nel singolo caso non basta per evitare future violazioni (specialmente da parte delle Pubbliche Amministrazioni) ed è quindi necessario rivolgersi alla Corte costituzionale per ottenere una pronuncia valida erga omnes.
Tutto questo ‒ come chiaramente si desume dalle sentenze della Corte costituzionale ‒ ricercando l’armonia, la convergenza e la coerenza attraverso la via di minore attrito fra gli ordinamenti piuttosto che enfatizzare i profili di criticità e di frizione (vedi: Cass. n. 34898 e 35220 del 2024) perché l’obiettivo da raggiungere è quello di garantire la massima espansione possibile delle tutele delle posizioni giuridiche soggettive, specialmente in favore soggetti socialmente più deboli, che sono anche quelli per i quali il rischio di discriminazione e/o di violazione della pari dignità è più alto (secondo le parole del Presidente Francesco Saja, già richiamate).
2.2.- Il secondo presupposto metodologico
Nella stessa ottica, in materia di discriminazioni, per la Corte di cassazione la elencazione dei fattori discriminanti contenuta nelle numerose direttive UE emanate a partire dal 2000 si deve ritenere che risponda maggiormente alla logica dei Paesi di common law, mentre è meno rilevante nei Paesi di civil law, nei quali, in via interpretativa, è più agevole tutelare tutte le situazioni, anche se, in ipotesi, non contemplate nell’elencazione stessa. Questo si verifica, in particolare, in Italia ove il principio di razionalità-equità, sancito dall’art. 3 Cost. ha portata generale, come affermato dalla Corte costituzionale, nel senso che non va considerata tassativa l’indicazione dei fattori di possibile discriminazione di cui al primo comma dell’art. 3 ma va riferita soltanto alle situazioni più frequenti, senza escludere possibili integrazioni. Ciò in quanto l’art. 3 Cost. – nei suoi due commi – come va considerato “rilevantissimo ed essenziale della Costituzione repubblicana”, che “riflette un’evoluzione politica per cui i singoli ed i vari ceti sociali, specialmente quelli popolari e meno fortunati, non debbono subire indebite limitazioni e discriminazioni”. Una simile interpretazione ‒ come delineata dell’allora Presidente della Corte Francesco Saja –è diretta a garantire la massima espansione possibile delle tutele delle posizioni giuridiche soggettive, specialmente in favore soggetti socialmente più deboli, che sono anche quelli per i quali il rischio di discriminazione è più alto. E questo indirizzo non è mai stato abbandonato dalla Corte costituzionale.
3.- L’evoluzione della giurisprudenza della Corte di cassazione in materia di discriminazioni.
Su queste basi si è sviluppata, soprattutto grazie ad un proficuo dialogo con la CGUE, una nutrita giurisprudenza della Corte di cassazione in materia di discriminazioni ha interessato specialmente alcuni ambiti materiali:
3.1.- Discriminazioni dei c.d. lavoratori flessibili rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato nell’ambito del rapporto di lavoro privato e pubblico.
In questo ambito, nel quale tuttora il contenzioso è ampio, grazie alla direttiva 1999/70/CE con l’allegato Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato e alla copiosa giurisprudenza della CGUE in materia, a partire dalla ordinanza della CGUE C-50/13 Papalia si è arrivati ad apprestare una tutela adeguata anche per l’ipotesi di abusiva utilizzazione dei contratti flessibili nel lavoro pubblico con il meccanismo del “danno comunitario” (Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza 15 marzo 2016, n. 5072). E quindi si è giunti a riconoscere ai lavoratori pubblici precari immessi in ruolo (con concorso o con procedure di stabilizzazione) il diritto alla ricostruzione della carriera al riconoscimento dell’anzianità di servizio.
È in questo ambito che -- con l’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2013 ‒ si è avuto il primo rinvio pregiudiziale in un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale (dopo il primo rinvio pregiudiziale in un giudizio instaurato in via principale, di cui alla ordinanza n. 103 del 2008). Rinvio riguardante il trattamento dei lavoratori precari della scuola, che è stato seguito dalla sentenza Mascolo della CGUE e poi dalla sentenza della Corte costituzionale n. 187 del 2016 e dalla copiosa giurisprudenza della Corte di cassazione e degli altri giudici comuni.
3.2.- Il diritto irrinunciabile alle ferie.
La Corte di cassazione ha anche emanato significative pronunce in materia di riconoscimento il diritto alle ferie retribuite per i lavoratori pubblici al pari degli altri lavoratori, in particolare facendo riferimento alla sentenza della Grande Sezione, 6 novembre 2018, C-684/16, Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften, punti 75 e ss., che è una delle sette interessanti sentenze emanate sul finire dell’anno 2018 dalla Corte di giustizia ‒ di cui cinque della Grande Sezione ‒ in materia di diritto di ogni lavoratore pubblico e privato alle ferie annuali retribuite .
Un elemento di grande rilevanza di queste sentenze ‒ che attiene alle tematiche qui di interesse ‒ è rappresentato dalla soluzione da esse data agli strumenti interpretativi a disposizione dei giudici nazionali per riconoscere il diritto incondizionato e imperativo alle ferie in presenza di normative interne che non siano conformi al diritto UE in materia.
Al riguardo la CGUE, innanzi tutto, ha ricordato il proprio costante indirizzo secondo cui la facoltà per il giudice nazionale di disapplicare la normativa interna contraria al diritto UE è esercitabile solo se risulta impossibile interpretala in modo da garantirne la conformità, nella specie all’art. 7 della direttiva 2003/88 e all’art. 31, paragrafo 2, della Carta .
In proposito ha sottolineato che, nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali sono tenuti a interpretarlo per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva in questione, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 288, terzo comma, TFUE e si è insistito sul fatto che il principio di interpretazione conforme esige che i giudici nazionali si adoperino al meglio nei limiti del loro potere, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo complesso e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della direttiva di cui trattasi e di pervenire a una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima.
È stato anche ribadito il costante orientamento della Corte in base al quale l’esigenza di un’interpretazione conforme siffatta include in particolare l’obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva, sicché un giudice nazionale non può, in particolare, validamente ritenere di trovarsi nell’impossibilità di interpretare una disposizione nazionale conformemente al diritto dell’Unione per il solo fatto che detta disposizione è stata costantemente interpretata in ambito nazionale in un senso che è incompatibile con tale diritto.
Per l’ipotesi in cui non fosse possibile fare ricorso all’interpretazione conforme al diritto UE la Corte, nelle sentenze in oggetto , ha potenziato gli strumenti a disposizione del giudice nazionale per la disapplicazione.
Ciò è avvenuto lungo due direttrici.
Da un lato la Corte ha finalmente affermato in modo chiaro che l’art. 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2003/88 soddisfa i criteri di incondizionalità e di sufficiente precisione richiesti per beneficiare di un effetto diretto , sicché le disposizioni ivi previste sono suscettibili di essere direttamente invocate nell’ambito di una controversia dinanzi ai giudici nazionali allo scopo di garantire la piena efficacia del diritto alle ferie annuali retribuite e di disapplicare ogni disposizione di diritto nazionale contraria. In base all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali. In forza del paragrafo 2 di tale articolo, il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro.
Ma, la Corte ha ricordato anche che, in base alla propria costante giurisprudenza, tale effetto diretto non può prodursi nelle controversie tra privati perché estendere l’invocabilità di una disposizione di una direttiva non recepita, o recepita erroneamente, all’ambito dei rapporti tra privati equivarrebbe a riconoscere all’Unione il potere di istituire con effetto immediato obblighi a carico di questi ultimi, mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti.
Il suddetto effetto può prodursi, quindi, solo quando una delle parti del giudizio sia una parte pubblica intesa in senso ampio,, indipendentemente dalla veste, di datore di lavoro o di pubblica autorità nella quale si trova in giudizio agisce. Deve trattarsi, cioè, di uno Stato membro e/o di tutti gli organi della sua amministrazione, comprese le autorità decentrate oppure di organismi ed enti soggetti all’autorità o al controllo dello Stato e/o cui sia stato demandato da uno Stato membro l’assolvimento di un compito di interesse pubblico e che dispongono a tal fine di poteri che eccedono quelli risultanti dalle norme applicabili nei rapporti fra privati.
Per tali ragioni la Corte sia nella sentenza 6 novembre C-619/16 sia per uno dei due giudizi principali di cui alla coeva sentenza sulle cause riunite C-569/16 e C-570/16 ha fatto riferimento alla possibilità per il giudice nazionale di fare ricorso all’efficacia diretta dell’art. 7 della direttiva 2003/88, eventualmente anche per disapplicare le normative interne contrarie al diritto UE. Ciò in quanto in tali giudizi si contestava il comportamento di datori di lavoro pubblici.
Per le ipotesi di controversie fra privati, nelle quali il suddetto effetto diretto non si può produrre, la Corte ‒ con un’affermazione del tutto innovativa ‒ ha dichiarato che allo scopo di garantire la piena efficacia del diritto alle ferie annuali retribuite, in questi casi il giudice nazionale ove necessario può fare ricorso alla disapplicazione della normativa interna contraria al diritto UE facendo riferimento all’art. 31, paragrafo 2, della Carta UE, disposizione che è di per sé sufficiente a conferire ai lavoratori un diritto invocabile in quanto tale in una controversia contro il loro datore di lavoro privato.
La Corte ha anche aggiunto che si deve trattare di una controversia in cui si discuta di una situazione disciplinata dal diritto dell’Unione, come tale rientrante nell’ambito di applicazione della Carta.
Per quanto riguarda l’effetto così prodotto dall’art. 31, paragrafo 2, della Carta nei confronti dei datori di lavoro che hanno la qualità di privati, la Corte ha sottolineato che:
a) l’art. 51, paragrafo 1, della Carta, nello stabilire che le sue disposizioni si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione, detto art. 51, paragrafo 1, non affronta, tuttavia, la questione relativa alla possibilità che tali soggetti privati si trovino, all’occorrenza, direttamente obbligati al rispetto di determinate disposizioni di tale Carta e non può, pertanto, essere interpretato nel senso che esso esclude sistematicamente una simile possibilità;
b) infatti, se talune disposizioni di diritto primario si rivolgono, in primis, agli Stati membri ciò non porta, di per sé, ad escludere che esse possano applicarsi nei rapporti fra privati;
c) inoltre, nella giurisprudenza della Corte è già stato ammesso che il divieto sancito all’art. 21, paragrafo 1, della Carta è di per sé sufficiente a conferire ai soggetti privati un diritto invocabile in quanto tale in una controversia che li vede opposti a un altro soggetto privato, senza, quindi, che vi osti l’art. 51, paragrafo 1, della Carta;
d) infine, il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite‒ di cui all’art. 31, paragrafo 2, cit. ‒ implica, per sua stessa natura, un corrispondente obbligo in capo al datore di lavoro, ossia quello di concedere tali ferie retribuite o un’indennità per le ferie annuali retribuite non godute alla cessazione del rapporto di lavoro. In base a tale disposizione, pertanto, non è consentito ai datori di lavoro invocare una normativa nazionale per sottrarsi agli obblighi cui sono tenuti in forza del diritto fondamentale garantito dalla suddetta disposizione.
È la prima volta che la Corte di giustizia ha riconosciuto un simile effetto (c.d. efficacia diretta orizzontale) ad una norma della Carta dei diritti relativa ad un diritto fondamentale dei lavoratori, in quanto tali.
Fin ad allora la Carta dei diritti aveva avuto spazio nella giurisprudenza della CGUE soprattutto per il diritto relativo all’accesso alla giustizia (art. 47), alla protezione dei dati personali (art. 41), alla non discriminazione (art. 21), nonché per il diritto di proprietà (art. 17) e quello di libertà di impresa (art. 16).
Ed era stata riconosciuta l’efficacia diretta orizzontale solo al divieto di discriminazioni.
Quindi non si può che commentare favorevolmente una simile svolta della Corte, ma è opportuno anche considerarne i limiti applicativi e tenere presente che essa è stata “combinata” con il riconoscimento dell’effetto diretto all’art. 7 della direttiva 2003/88.
Questa osservazione può, di per sé, portare ad escludere che tra le sentenze della CGUE del 2018 e la sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2017 (con le successive conformi) vi sia un collegamento diretto.
Però sembra indubbio che la finalità della apertura effettuata dalla CGUE nel 2018 sia quella di attribuire un plus di tutela ai diritti fondamentali dei lavoratori (in particolare al diritto alle ferie) sia la stessa che ha portato la Corte costituzionale a potenziare gli strumenti a disposizione del giudice per assicurare la tutela dei diritti fondamentali, in generale, muovendo dalla considerazione che tali diritti vengono sempre di più violati, con esponenziale aumento delle diseguaglianze.
3.3.- Discriminazioni in danno delle donne lavoratrici.
Altri settori nei quali di recente sono state esaminate situazioni discriminatorie riguardano le donne lavoratrici e i lavoratori disabili e/o malati.
Quanto alle donne lavoratrici mi limito a ricordare:
a) Cass. 26 febbraio 2021, n. 5476 ha affermato, nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato, il carattere discriminatorio di comportamenti datoriali che si siano tradotti in una ingiustificata differenza di trattamento o anche solo in una posizione di particolare svantaggio derivanti dallo stato di gravidanza di una dipendente, nella specie a termine, con conseguente applicazione del regime probatorio agevolato previsto per le vittime di discriminazioni. E lo ha fatto con ampi richiami alla normativa UE (a partire dall’art. 157 TFUE e dall’art. 33 della CDFUE), alla giurisprudenza della CGUE, alla giurisprudenza della Corte EDU oltre che alla disciplina nazionale. Anche sottolineando la rilevanza dell’onere probatorio agevolato.
Va anche sottolineato che la suddetta sentenza è coeva alla sentenza Corte EDU, Prima Sezione, 4 febbraio 2021, Jurčić c. Croazia, nella quale è stato affermato che il rifiuto di assumere una donna incinta, ovvero di riconoscerle una prestazione previdenziale, in ragione del suo stato di gravidanza costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso, che non può essere giustificata dagli interessi finanziari dello Stato. Di conseguenza, la differenza di trattamento subita dalla ricorrente, in quanto donna rimasta incinta a seguito di fecondazione in vitro, non essendo obiettivamente giustificata o necessaria, si è ritenuto costituisca violazione dell’art. 14 CEDU, con conseguente responsabilità dello Stato anche per il risarcimento dei danni morali;
b) Cass. 19 febbraio 2024, n. 4313 che, dopo aver precisato che costituisce discriminazione indiretta, ai sensi dell’art. 25, comma 2, d.lgs. n. 198 del 2006, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che, pur non illecito o intrinsecamente discriminatorio, metta, di fatto, i lavoratori di un determinato sesso in posizione di particolare svantaggio rispetto a quelli dell’altro, ha sottolineato, che ai fini dell’applicazione della norma citata, rileva il solo effetto discriminatorio finale sul piano della realtà sociale. Di conseguenza ha affermato che, nella specie, l’attribuzione da parte dell’Agenzia delle Entrate datrice di lavoro di un punteggio ridotto ai lavoratori a tempo parziale, rispetto a quelli a tempo pieno ai fini delle progressioni economiche orizzontali si configurava come discriminazione indiretta in danno delle lavoratrici, in ragione dell’accertata preponderanza statistica delle donne tra i lavoratori in part time. Anche questa pronuncia contiene un riferimento al d.lgs. n. 61 del 2000 (con cui la Repubblica italiana ha dato attuazione alla direttiva 97/81/CE relativa all’accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES).
3.4.- Tutela della salute dei lavoratori.
La profonda modificazione del mondo del lavoro – derivante soprattutto dalla eccessiva flessibilizzazione – ha avuto importanti effetti anche sul fronte del diritto alla salute dei lavoratori, nella sua duplice configurazione individuale e sociale adottata dalla nostra Costituzione, riscontrati sia nel lavoro privato sia in quello pubblico.
E anche in questo ambito il dialogo con la CGUE (e anche con la Corte EDU) ha consentito di potenziare le tutele già molto incisive per la nostra Costituzione.
Il lavoro concepito come il “valore fondante” di tutta la Carta – con la conseguente creazione di un profondo collegamento tra democrazia e lavoro, configurandosi la questione democratica come questione del lavoro, come è stato acutamente osservato − è un lavoro diretto al benessere – materiale e spirituale − del singolo e della società che consenta a ciascuno di coltivare le proprie aspettative personali – anche affettive – programmando, con sacrifici ma con serenità, il proprio futuro, in una condizione in cui vi sia armonia tra lo sviluppo della personalità individuale, che ha bisogno di certezze e di stabilità, e l’esperienza di vita e lavorativa.
In questa ottica la tutela del diritto ad un lavoro dignitoso dai nostri Costituenti è stata collegata a quella del diritto alla salute, tanto che a questi due diritti è stata attribuita una configurazione similare, essendo stati entrambi delineati in una duplice dimensione sia individuale – cioè come diritti fondamentali delle singole persone ‒ sia anche sociale.
Pertanto, il principio della pari dignità e quindi dell’uguale valore di tutte le persone umane viene a poggiare sulle due imponenti colonne rappresentate dal diritto al lavoro dignitoso e alla tutela della salute, sicché di fatto la definizione della salute contenuta nell’art. 32 Cost. risulta conforme a quella del Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), secondo cui non si tratta di “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”, ma di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”.
A questa definizione si riferiscono tutte le Carte internazionali in materia − a partire dalla importante Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità – ed essa è stata espressamente recepita nell’art. 2, comma 1, lettera o) del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (T.U. in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro).
La salute così intesa va, quindi, considerata elemento di base da cui deve partire l’interprete nel compiere le proprie scelte ermeneutiche tutte le volte si pongono questioni riguardanti la salute dei lavoratori nella consapevolezza che si tratta di un settore nel quale è molto forte l’esigenza di garanzia dei diritti fondamentali dell’individuo e della dignità delle persone che, a volte, può portare anche a soluzioni che possono risultare del tutto nuove perché collegate alle continue innovazioni del mondo del lavoro.
Il compito non è certamente facile perché si tratta di un argomento che, nella sua attuale configurazione, oltre ad avere una complessa disciplina nazionale è fortemente influenzato dalla normativa internazionale (soprattutto Convenzioni ONU, OIL e CEDU) e UE e, quindi, dalle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU) e che è caratterizzato dalla necessità di operare un bilanciamento tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente (art. 4 e 32 Cost.) e per il lavoro privato la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro (art. 41 Cost.) mentre per il lavoro pubblico le necessità organizzative e i limiti di spesa delle P.A.
E va sottolineato che si tratta di una problematica “trasversale”, che cioè riguarda sia il lavoro privato sia quello pubblico.
Va anche considerato che la tutela della salute spesso è intrecciata con quella delle discriminazioni e delle molestie e violenze sul lavoro specialmente nei confronti delle persone aventi problemi di salute o affette da disabilità nonché dei lavoratori considerati vulnerabili in linea generale (a partire dalle donne), situazioni in costante aumento .
Al riguardo va rilevato che, con sempre maggiore frequenza le imprese, ma anche le Pubbliche Amministrazioni, si trovano ad affrontare casi di molestie psicologiche, mobbing, bullismo, molestie sessuali e altre forme di violenza, mentre i lavoratori, nel tentativo di far fronte allo stress, sono portati, a volte, ad adottare comportamenti non salubri, quali abuso di alcol e stupefacenti.
Va anche precisato che in ambito UE e nella giurisprudenza della CGUE le molestie (e anche le violenze) – a prescindere dall’eventuale sanzione nell’ambito del diritto penale nazionale, come si verifica in Italia – si fanno rientrare nel diritto antidiscriminatorio quali comportamenti intimidatori (in senso ampio) che possono essere discriminatori in sé oppure prodromici alla realizzazione di veri e propri comportamenti discriminatori o addirittura penalmente rilevanti (secondo quanto stabilito dai singoli Stati membri).
3.5.- Il benessere nel luogo di lavoro.
Fin da tempi lontani la giurisprudenza della Corte di cassazione – anche facendo ricorso al canone preferenziale dell’interpretazione conforme a Costituzione rinforzato dal concorrente canone dell’interpretazione non contrastante con la normativa UE e con la CEDU – si è preoccupata di garantire in modo incisivo la tutela della salute nei luoghi di lavoro, tenendo conto anche degli effetti dello stress correlato al lavoro, la cui tutela è stata riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità molto prima dell’emanazione del d.lgs. n. 81 del 2008.
Infatti, grazie alla combinazione dell’art. 2087 cod. civ. con l’art. 32 Cost. (sulla tutela del diritto alla salute) e con l’art. 41 Cost. (secondo cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana) nonché con gli artt. 2 e 3 Cost., la tutela delle condizioni di lavoro da sempre è stata concepita come uno degli obblighi essenziali del datore di lavoro.
In questa ottica si sottolinea che per l’applicazione dell’art. 2087 cod. civ. si deve fare riferimento alla normativa internazionale (soprattutto Convenzioni ONU, OIL e CEDU) e UE e, quindi, dalle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU) e he su queste basi si deve operare il suddetto bilanciamento tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente malato o disabile (art. 4 e 32 Cost.) e la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro privato ;(art. 41 Cost.) e quella organizzativa del datore di lavoro pubblico.
Questa giurisprudenza è divenuta ancora più incisiva da quando, ormai più di venti anni fa, si è cominciato ad affrontare in ambito UE la problematica del benessere in ambito lavorativo che, nata solo per la tutela della salute dei lavoratori, nel corso del tempo ha avuto come oggetto la necessità della creazione di ambienti di lavoro sicuri, salubri e positivi nei quali vi sia una buona comunicazione tra le persone, una fiducia circolare tra datore di lavoro e lavoratore e i dipendenti siano orgogliosi del lavoro che fanno e che siano “sani” anche dal punto di vista normativo.
Tanto che oggi gli imprenditori più avveduti ritengono che quella suindicata sia la strategia vincente e che la trasformazione digitale chiama i datori di lavoro a realizzare ambienti lavorativi caratterizzati da un mix di tecnologia, formazione, inclusione e quindi fiducia circolare. Un modello nel quale vengono valorizzati insieme le persone e il bene della struttura lavorativa (privata o pubblica).
Una simile ottica dovrebbe, a maggior ragione, essere propria delle Pubbliche Amministrazioni e in questo dovrebbe consistere l’auspicato cambiamento di prospettiva richiesto da tempo da UE e OIL che, dalle Pubbliche Amministrazioni – che sono lo specchio dello Stato – dovrebbe diffondersi anche nel lavoro privato.
Del resto, come più volte sottolineato anche in sede UE un simile ambiente di lavoro diminuisce l’incidenza delle discriminazioni e delle malattie professionali e favorisce la produttività per gli imprenditori privati e incide positivamente sulla fiducia interna ed esterna nelle P.A.
In questo quadro, la Corte di cassazione ha esaminato diverse fattispecie nelle quali i dipendenti denunciavano di essere stati vittime di mobbing, straining, burn-out etc. ed ha chiarito, in premessa, che quelle richiamate sono nozioni di tipo medico-legale, che non hanno autonoma rilevanza ai fini giuridici e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (vedi, per tutte: Cass. 19 febbraio 2016, n. 329; Cass. 10 dicembre 2019, n. 32257).
Pertanto, in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 cod. civ. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi (di recente: Cass. n. 3692 del 2023 cit nonché; Cass. nn. 3291/2016; 10992/2020; 33428/2022; 33639/2022).
Ciò significa che essendo il datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. − norma di chiusura del sistema antinfortunistico, suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro − tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di “mobbing”, è comunque tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti e accertati − per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto − possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291 e molti seguiti conformi).
L’“ambiente lavorativo stressogeno” è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 cod. civ. (vedi, tra le altre: Cass. 7 febbraio 2023 n. 3692 e nello stesso senso: Cass. nn. 33639/2022, 33428/2022, 31514/2022).
3.6.- Tutela dei lavoratori disabili o semplicemente malati.
Un settore nel quale si è avuta una importante evoluzione nell’ambito della giurisprudenza della Corte di cassazione è quello – sempre trasversale, perché riguardante sia il lavoro pubblico sia quello privato – della tutela dei lavoratori disabili o semplicemente malati, con particolare riguardo al licenziamento ma non solo.
Dal punto di vista definitorio va sottolineato che, sulla base della giurisprudenza della CGUE, vanno distinte solo due situazioni di compromissione dello stato di salute (del lavoratore): lo stato di malattia e quello di disabilità.
Si tratta di fattispecie le cui definizioni (rispettivamente dell’OMS e della Convenzione ONU sulla tutela dei diritti dei disabili) sono molto ampie, sicché in esse si possono far rientrare tutte le situazioni patologiche che possono colpire il lavoratore (e.g. disabilità certificata che è comunque una disabilità rispetto alla quale la certificazione si pone come un elemento richiesto, volta per volta, per determinate finalità oppure fragilità, che a seconda dei casi può essere considerata una malattia o una vera e propria disabilità), così contribuendo in modo significativo alla chiarezza della relativa disciplina e ad una maggiore efficacia della tutela.
Detto questo, va precisato che in questo ambito, è particolarmente importante perseguire la logica della prevenzione soprattutto per evitare il licenziamento, in particolare quello per inidoneità sopravvenuta del lavoratore alla mansione assegnatagli.
Infatti, se, in linea generale, il licenziamento deve rappresentare una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio del datore di lavoro (come, di recente, affermato da Corte cost., sentenze n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022) . a maggior ragione questo vale per il licenziamento delle persone divenute inidonee allo svolgimento della mansione per ragioni di salute, situazione che ormai, per l’evoluzione della giurisprudenza soprattutto della CGUE, può riguardare sia i lavoratori assunti come disabili sia tutti gli altri lavoratori (divenuti disabili) e che si riferisce ad una disabilità non necessariamente dipendente da cause professionali potendo derivare anche da cause extralavorative.
Per il nostro ordinamento l’origine di questa ampia configurazione si può rinvenire nella sentenza di condanna del nostro Paese 4 luglio 2013, C-312/11 con la quale la CGUE ha confermato l’impianto accusatorio della Commissione europea (che aveva avviato una procedura di infrazione) sul principale rilievo secondo cui “le garanzie e le agevolazioni previste a favore dei disabili in materia di occupazione dalla normativa italiana non riguardano tutti i disabili, tutti i datori di lavoro e tutti i diversi aspetti del rapporto di lavoro”.
Per effetto di tale pronuncia si è stabilito che la disciplina nazionale in materia deve essere interpretata in senso conforme alle statuizioni della CGUE, anche sulla base dell’art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003 e, quindi, nel senso di tutelare indistintamente tutti i lavoratori per i quali si riscontri la suddetta inidoneità sopravvenuta, qualunque ne sia la causa.
Nel nostro ordinamento il cammino per arrivare a questa ampia nozione di inidoneità sopravvenuta alla mansione è stato piuttosto lungo, ma ha avuto una importante accelerazione specialmente grazie alla giurisprudenza della CGUE, della Corte EDU, delle Convenzioni OIL e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18).
Tale ultima Convenzione è stata salutata come il primo grande trattato sui diritti umani del XXI secolo e rappresenta sicuramente una “svolta epocale” nel percorso di accettazione, partecipazione e inserimento dei disabili nella vita sociale e lavorativa, come è stato riconosciuto anche dalla Corte di Giustizia UE, avendo come principale obiettivo quello di portare la società a cambiare atteggiamento nei confronti delle persone con disabilità, onde garantire loro il reale riconoscimento dei fondamentali diritti alle pari opportunità e alla non discriminazione (arg. ex: Cass. civ., Sez. Lavoro, 14 luglio 2016, n. 14388).
Ne consegue che oggi comunque non si può non tenere conto di questo composito quadro normativo di riferimento e soprattutto non considerare che, nella giurisprudenza delle Corte europee centrali, spesso il licenziamento dei disabili − originari o divenuti tali nel tempo – è incluso nell’ambito del diritto antidiscriminatorio e che le suddette Corti in materia fanno principale riferimento alla citata Convenzione ONU che oggi rappresenta, per gli ordinamenti degli Stati che l’hanno ratificata, una pietra miliare nel percorso di accettazione, partecipazione e inserimento alla vita sociale e lavorativa dei disabili perché nei suoi cinquanta articoli, cui si aggiungono i diciotto articoli del Protocollo opzionale, senza introdurre nuovi diritti, si persegue l’obiettivo di promuovere, proteggere e assicurare alle persone con disabilità il pieno ed eguale godimento del diritto alla vita, alla salute, all’istruzione, al lavoro, ad una vita indipendente, alla mobilità, alla libertà di espressione e in generale alla partecipazione alla vita politica e sociale.
La Corte di giustizia UE, soprattutto dopo la ratifica da parte del Consiglio UE, con fermo indirizzo, attribuisce grande rilevanza alla suddetta Convenzione ONU, per la stessa definizione di disabilità.
Le sentenze della CGUE sono molte e ad esse si aggiungono quelle della Corte EDU, anch’esse emanate tenendo conto principalmente della Convenzione ONU sui diritti dei disabili.
Vanno anche considerate le sentenze della Corte costituzionale nelle quali, a partire dalla sentenza n.80 del 2010, è stato sottolineato il valore cogente della suindicata Convenzione ONU, aggiungendosi che in materia di discriminazioni la situazione, al livello di normativa primaria UE, è profondamente cambiata dopo l’adozione della Carta dei diritti fondamentali della UE (proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), i cui artt. da 20 a 23 e 26 riconoscono rispettivamente in linea generale l’uguaglianza davanti alla legge, il rispetto da parte della UE della diversità culturale, religiosa e linguistica, il principio non discriminazione, il principio di parità tra uomini e donne e la necessità di adottare azioni positive soprattutto in particolare in favore dei disabili, principi che vanno “combinati” con l’art. 27 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità che riconosce il diritto al lavoro delle persone con disabilità, da garantire con “appropriate iniziative” volte a favorirne l’assunzione nel settore pubblico ovvero l’impiego nel settore privato (vedi, per tutte: Cass. 6 aprile 2011, n. 7889),
Ovviamente, le pronunce in materia della Corte di cassazione sono moltissime.
Qui mi limito a ricordare l’orientamento ormai consolidato secondo cui per evitare discriminazioni indirette, in base alla direttiva 2000/78/CE e all’art. 3, comma 3bis, d. lgs. n. 216 del 2003 (che ne ha dato attuazione), il datore di lavoro pubblico o privato è obbligato ad adottare “adottare accomodamenti ragionevoli”, ai sensi dell’articolo 5 della menzionata direttiva salvo che richiedano oneri finanziari sproporzionati. Una misura di questo tipo consiste nel computo del periodo di comporto del lavoratore di cui il datore di lavoro conosca la situazione di salute (oppure non la conosca colpevolmente) effettuato senza contare le assenze che si collegano direttamente alla situazione di disabilità ma soltanto quelle di tipo diverso, onde evitare che il licenziamento per superamento del periodo di comporto possa essere considerato indirettamente discriminatorio nei confronti del particolare gruppo sociale protetto di appartenenza del disabile perché in posizione di particolare svantaggio. Ciò in quanto dalla giurisprudenza della CGUE (vedi, per tutte: sentenza 18 gennaio 2018, in causa C-270/16, Carlos Enrique Ruiz Conejero) si desume che applicare in modo indistinto la disciplina del licenziamento per superamento del periodo di comporto sia nei confronti dei lavoratori affetti da patologie transitorie che di disabili originari o divenuti tali, nel corso del rapporto di lavoro, per malattia grave ed irreversibile rappresenta una forma di discriminazione indiretta (vedi, per tutte: Cass. 31 marzo 2023, n. 9095 e, di recente: Cass. 22 maggio 2024, n. 14316; Cass. 23 maggio 2024, n. 14402).
4.- Libertà di stabilimento dei medici del SSN.
Un altro ambito nel quale hanno avuto rilevanza il diritto UE e la giurisprudenza della CGUE è quello della libertà di stabilimento dei medici del SSN.
Cass. 12 febbraio 2024 n. 3860 ha affermato il principio secondo cui ai fini dell’anzianità di servizio e dei relativi vantaggi economici o professionali, in caso di passaggio da una struttura sanitaria pubblica di uno Stato membro UE a quella di un altro Stato membro, gli artt. 12, 28 e 29 del CCNL 8 giugno 2000 della dirigenza medica e veterinaria vanno disapplicati nelle parti in contrasto con il disposto dell’art. 5 del d.l. n. 59 del 2008 (conv. dalla legge n. 101 del 2008 e dall’art. 44 del d.l. n. 69 del 2013, conv. dalla legge n. 98 del 2013), in attuazione del principio di libera circolazione dei lavoratori nell’Unione europea, senza che abbia rilevanza il presupposto della necessaria continuità del servizio.
A tale conclusione si è pervenuti sulla base del consolidato indirizzo espresso dalla Corte di giustizia UE, che ha delineato in maniera sempre più stringente la necessità per il giudice nazionale di valutare la disciplina interna sulla progressione per anzianità in coerenza con il principio di libera circolazione dei lavora-tori all’interno dell’Unione;
Cass. 23 maggio 2024, n. 14457 ha escluso che le normative legislativa e contrattuale nazionali, che non prevedono per il dirigente medico un diritto incondizionato all’aspettativa per incarichi non all’interno del SSN (nella specie in uno Stato UE) ‒ facendo salvo per il collocamento in aspettativa in tale caso «il motivato diniego dell’amministrazione di appartenenza in ordine alle proprie preminenti esigenze organizzative» ‒ integrino una ingiustificata restrizione alla libera circolazione dei lavoratori riconosciuta dagli articoli da 45 a 48 TFUE, in quanto non sono idonee a impedire, o per lo meno a dissuadere, il dirigente medico dal lasciare lo Stato membro di origine per accettare un impiego in un altro Stato membro.
La Corte ha sottolineato che la normativa speciale dell’art. 15-septies d.lgs. n. 502/92, laddove esclude che gli incarichi esterni al SSN possano avere la stessa disciplina di quelli interni al SSN, non opera con intenti discriminatori basati sulla cittadinanza né mira ad attuare una differenziazione con riferimento agli incarichi all’estero. Essa, piuttosto, soddisfa l’esigenza propria della sanità pubblica, limitando, con una disciplina calibrata (c.d. principio di proporzionalità), rispetto all’obiettivo perseguito, la possibilità di fruizione dell’aspettativa “senza assegni” a incarichi che realizzano una mobilità in seno al SSN, escludendola come automatica non solo per quelli conferiti da strutture di Paesi dell’UE ma anche da parte di strutture private site nel territorio nazionale.
Allo stesso tempo, la normativa nazionale stabilisce che laddove ‒ nel rispetto delle condizioni previste ‒ si possa verificare una situazione nella quale una struttura sanitaria pubblica del nostro Stato e altra analoga struttura di un altro Stato membro siano coinvolte nel passaggio di un medico del SSN dall’una all’altra (o viceversa) il servizio svolto presso la struttura sanitaria estera può essere computato ai fini dell’anzianità di servizio e dei relativi vantaggi economici o professionali (vedi: Cass. 12 febbraio 2024, n. 3860).
E questo conferma che se in materia si verifica una restrizione alla libertà di stabilimento nei confronti di un medico del SSN – come accade nella presente vicenda ‒ questo è dovuto solo alla valutazione in concreto delle esigenze proprie della sanità pubblica ‒ cioè di un “motivo imperativo di interesse generale”, come richiamato dalla della giurisprudenza della CGUE in tema di libertà di stabilimento ‒ e non ad una chiusura pregiudiziale della normativa nazionale rispetto ad eventuali esperienze all’estero da parte dei medici del SSN e alla loro possibile valutazione nel relativo percorso professionale.
Pertanto, la normativa nazionale riconosce il principio della libertà di stabilimento dei medici del SSN nell’ambito dell’Unione europea in modo conforme alla relativa interpretazione da parte della Corte di Giustizia UE e questo, di per sé, esclude la necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea della questione di compatibilità dell’art. 15-septies d.lgs. n. 502/92, cit., con gli artt. 45-48 TFUE.
5.- Immigrazione. Cenni.
Anche in materia di immigrazione è stato applicato lo stesso metodo e si è avuto un importante dialogo tra le Corti europee centrali, le Corti Supreme nazionali e gli altri giudici nazionali.
Come è noto, la disciplina della condizione giuridica dei migranti si caratterizza per la coesistenza di ragioni di ordine pubblico e sicurezza con ragioni di tutela di diritti fondamentali.
Infatti, come risulta anche dalla consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, nel nostro ordinamento agli immigrati vanno riconosciuti tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona, nel rispetto del principio di eguaglianza, che, in linea generale, informa il godimento di tutte le posizioni soggettive (si vedano, per tutte, le sentenze n. 203 del 1997, n. 252 del 2001, n. 432 del 2005 e n. 324 del 2006).
Ma al contempo, come affermato più volte dalla stessa Corte costituzionale, «la regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un’ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli» (si vedano, per tutte, le sentenze n. 206 del 2006 e n. 148 del 2008 nonché l’ordinanza n. 361 del 2007).
Tuttavia, deve anche essere sottolineato che con lo svilupparsi del fenomeno migratorio si è registrato un sempre più diffuso atteggiamento degli Stati europei di chiusura verso i cittadini di Paesi terzi.
Questo si è verificato mentre la competenza della UE in materia diventava più incisiva.
Invero, la competenza in materia di immigrazione è stata inizialmente attribuita all’Unione dal trattato di Maastricht, nell’ambito del terzo pilastro, e tale materia è poi divenuta “comune” con il trattato di Amsterdam, nel titolo IV CE (articolo 63, paragrafo 3, CE).
Il successivo trattato di Lisbona ha fornito un chiarimento in ordine alla ripartizione delle competenze tra l’Unione e i suoi Stati membri, stabilendo che l’Unione dispone di una competenza concorrente volta allo sviluppo di una politica comune in materia di immigrazione che viene delineata, in termini di obiettivi e modalità di esercizio, nel titolo V della terza parte del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Si tratta di una competenza autonoma, che si distingue, per i suoi obiettivi, dalla competenza relativa ai controlli alle frontiere e dalla competenza in materia di asilo, anche se la gestione dei flussi migratori, obiettivo dell’Unione in termini di immigrazione, è influenzata dalla politica dei controlli alle frontiere. Comunque, tale gestione riguarda una fase preliminare, che non rientra nell’ambito della politica migratoria UE in senso vero e proprio ma è di competenza degli Stati membri i quali però hanno il dovere di esercitare tale competenza con lealtà, nel rispetto degli atti e degli obiettivi della politica migratoria dell’UE.
L’insieme di questi fenomeni ha portato all’aumento dei ricorsi in sede europea volti a bilanciare le prerogative statali con l’esigenza di tutelare i diritti fondamentali e inderogabili dei soggetti migranti sempre più vulnerabili.
Ed ha anche determinato – pure per effetto della Carta dei diritti fondamentali UE − un aumento delle pronunce della CGUE nella materia, della quale prima la Corte di giustizia si occupava molto di rado e con un’ottica diversa.
Tale complessiva situazione si è tradotta nella progressiva attribuzione in ambito UE di un nucleo di diritti intangibili in favore dei migranti, con inevitabili ripercussioni sulle modalità di esercizio delle politiche migratorie dei singoli Stati.
Tutto questo mentre, anche dinanzi alla Corte EDU, si registrava un notevole incremento dei ricorsi, dovuto all’aumento delle violazioni.
5.1.- Priorità del diritto di difesa.
Va sottolineato che, nel diritto dell’immigrazione, diversamente da ciò che normalmente accade, la disciplina procedurale e processuale, con le relative pronunce interpretative delle varie Corti supreme nazionali ed europee ha un ruolo prioritario — e anche “condizionante” (in termini definitori della situazione giuridica protetta) — rispetto alla disciplina sostanziale.
Questo perché spesso i migranti – che, come tutti i soggetti deboli, dovrebbero essere quelli nei cui confronti i principi di base dovrebbero trovare più scrupolosa applicazione − fin dal loro primo arrivo nel territorio nazionale, possano subire violazioni dei propri diritti fondamentali, a partire dal diritto di difesa, inteso in senso ampio, cioè non legato alla realtà processuale.
Questo trova riscontro anche nella giurisprudenza sia della Corte EDU sia della CGUE e, in particolare, nelle pronunce in materia di immigrazione nella quali la CGUE attribuisce primaria rilevanza alle tutele procedurali da riconoscere al migrante, come è accaduto in molti giudizi relativi provvedimenti di allontanamento dal territorio di uno Stato membro,
E, in particolare, nelle molte delle pronunce nelle quali la CGUE ha richiamato il principio di non respingimento congiuntamente all’articolo 47 della CDFUE sul diritto a un ricorso effettivo, ponendo l’accento sul riconoscimento delle tutele procedurali da offrire a fronte di un provvedimento di allontanamento.
La CGUE ha anche emanato sentenze di ampio respiro come l’importante sentenza della Grande Sezione della CGUE 14 maggio 2019, cause riunite C 391/16, C 77/17 e C 78/17, nella quale ha precisato che l’obbligo di conformità alla Convenzione di Ginevra, posto dall’art. 78, par. 1, TFUE deve essere interpretato alla luce della Carta UE e questo impone di individuare nella Convenzione di Ginevra il “livello minimo di tutela da garantire ai rifugiati, ponendo tale Convenzione in una posizione analoga a quella in cui l’articolo 52, par. 3, della Carta colloca la CEDU nel sistema di tutela dei diritti fondamentali dell’Unione”. Ciò significa che se, da un lato, la protezione offerta dalla Convenzione di Ginevra si configura come un obbligo imprescindibile, d’altra parte, il diritto dell’Unione è suscettibile di offrire un livello di tutela maggiore e tale soluzione appare possibile in forza del vincolo derivante dalle disposizioni della Carta.
5.2.- Paesi terzi di origine sicuri.
Nella stessa ottica è stata esaminata la questione ‒ oggi al centro dell’attenzione ‒ relativa all’elenco nazionale di Paesi terzi considerati come di origine sicuri, che nasce dall’art. 37 della direttiva 2013/32/UE che ha dato facoltà agli Stati membri di stilare il suddetto elenco stabilendo le condizioni di applicazione e gli effetti dell’elenco stesso nonché, per il nostro Paese, dalle originarie modifiche apportate all’art. 28 del d.lgs. n. 25 del 2008 per la domanda proposta da un richiedente asilo proveniente da un Paese di origine sicuro con la previsione di un esame prioritario, con una procedura accelerata e con una decisione di manifesta infondatezza.
A partire dal 2018, l’Italia, esercitando la facoltà di cui alla direttiva 2013/32, ha previsto la designazione di paesi di origine sicuri attraverso un decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con il Ministro dell’interno e il Ministro della giustizia.
L’ultimo decreto ministeriale è stato adottato il 7 maggio 2024.
La designazione del paese di provenienza come paese di origine sicuro costituisce una agevolazione per l’autorità amministrativa preposta all’esame delle domande, la quale è esentata dal provare di volta in volta che il Paese di origine offre al richiedente un’effettiva e sufficiente protezione dal rischio di persecuzione o di altri gravi danni, riversando sul richiedente l’onere di fornire elementi contrari connessi alla sua situazione particolare. La presunzione che vi si ricollega non è dunque una fictio, ma deve essere fondata su fonti certe che consentano di dimostrare la sicurezza del Paese designato.
La disciplina sopravvenuta ha elevato il rango della fonte di designazione del paese di origine come sicuro.
Mentre, infatti, inizialmente (e nell’ambiente normativo nel quale è stata sollevato il rinvio pregiudiziale), l’art. 2-bis del decreto-legge n. 25 del 2008 (rimasto in vigore dal 4 dicembre 2008 al 23 ottobre 2024) affidava ad un decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, l’adozione dell’elenco dei Paesi di origine sicuri; oggi, invece, per effetto della legge n. 187 del 2024, la qualificazione come sicuri dei paesi di origine è materia di legge.
La designazione, in altri termini, è operata direttamente dalla legge. Allo stesso modo, l’elenco dei paesi di origine sicuri di cui al comma 1 è aggiornato periodicamente con atto avente forza di legge ed è notificato alla Commissione europea.
Ai fini dell’aggiornamento dell’elenco, è previsto che il Consiglio dei ministri, entro il 15 gennaio di ciascun anno, delibera una relazione nella quale, compatibilmente con le preminenti esigenze di sicurezza e di continuità delle relazioni internazionali e tenuto conto delle pertinenti informazioni, riferisce sulla situazione dei paesi inclusi nell’elenco vigente e di quelli dei quali intende promuovere l’inclusione. Il Governo – prosegue la disposizione di legge – trasmette la relazione alle competenti commissioni parlamentari. Non è tema di questo rinvio pregiudiziale definire anche l’ambito del sindacato del giudice ordinario, investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale, a fronte di una designazione del paese di origine come sicuro ad opera della legge.
In questo contesto sono stati proposti i primi ricorsi da parte degli immigrati (riferiti al d.m. 4 ottobre 2019) e alcuni Tribunali con un attento scrutinio relativo sia alla prevista decisione di manifesta infondatezza per origine da un Paese sicuro, hanno interpretato la normativa nel rigoroso rispetto dei limiti imposti dal quadro giuridico costituzionale, sovranazionale e internazionale, giungendo a disapplicare il d.m. cit. nel caso deciso, dopo aver rilevato che l’effetto deflattivo voluto non può realizzarsi privando il richiedente del diritto ad un attento esame nel merito della propria domanda, in quanto questo esito si pone in contrasto con i principi stabiliti nella procedura bifasica introdotta originariamente con la direttiva 2005/85/CE (c.d. direttiva procedure) al fine di fornire agli Stati membri strumenti di carattere procedurale diretti a facilitare allo straniero l’esercizio dei propri diritti fondamentali coinvolti, attraverso, la presentazione di una unica domanda ad oggetto indistinto e un ruolo attivo delle diverse autorità (amministrative e giurisdizionali) di cooperazione ai fine dell’accertamento delle condizioni che possono consentire allo straniero di avvalersi della protezione internazionale.
Peraltro, anche la CGUE nella propria giurisprudenza sottolinea da sempre la necessità che l’esame delle domande di protezione deve essere effettuato senza ritardo e in modo individuale, conformemente all’articolo 10, paragrafo 3, lettera a), della pertinente direttiva e nel rispetto dei termini enunciati al suo articolo. E propri richiamando questo orientamento i giudici del merito hanno superato la “presunzione” di sicurezza dei Paesi di origine derivante dal d.m. citato.
Il suddetto orientamento dei Tribunali è stato sostanzialmente confermato dalla Corte di cassazione con la sentenza 11 novembre 2020, n. 25311 con l’affermazione dei seguenti principi di diritto:
(a) in tema di protezione internazionale, l’inserimento del Paese di origine del richiedente asilo nell’elenco dei “paesi di origine sicuri” di cui al d.m. 4 ottobre 2019 produce l’effetto di far gravare sul ricorrente l’onere di allegazione rinforzata in ordine alle ragioni soggettive o oggettive per le quali invece il Paese non può considerarsi sicuro, per la situazione particolare in cui il richiedente si trova, ovvero alle ragioni per le quali, nonostante l’indicazione desumibile (in generale) dall’inserimento del Paese nel novero di quelli cd. sicuri, sussistano comunque i presupposti della protezione internazionale. Ne deriva che esso è applicabile soltanto ai ricorsi giurisdizionali presentati dopo l’entrata in vigore del d.m. stesso, in quanto i principi del giusto processo (art. 111 Cost.) ostano al mutamento in corso di causa delle regole alle quali deve essere informato l’onere di allegazione;
(b) nelle cause per le quali ratione temporis rileva l’anzidetto inserimento, ove il suindicato onere di allegazione sia stato rispettato dal ricorrente, resta comunque intatto per il giudice il potere-dovere di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi utili a indagare sulla sussistenza degli indicati presupposti della protezione internazionale.
La problematica trova riscontro anche nella celebre sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia, del 23 febbraio 2012 (spec. p. 178 e successive conformi) nella quale la Corte EDU − nel condannare il nostro Stato per la pratica dell’intercettazione in mare e del respingimento di imbarcazioni trasportanti migranti, in quanto in contrasto con il principio di non respingimento contenuto nella Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 1951− la Corte ha esteso il divieto di espulsione alle operazioni in mare, affermando che la giurisdizione dello Stato si estende anche in acque internazionali ai fini della configurazione di un respingimento vietato, se ivi lo Stato esercita «controllo e autorità» su un individuo, il quale si deve pertanto considerare sottoposto alla sua giurisdizione, (§ 74 della sentenza)., con specifico riferimento al principio di non respingimento che viene qui in considerazione).
5.3.- Le ordinanze interlocutorie della Prima Sezione della Corte di cassazione n. 33398, n. 34898 e n. 35220 di dicembre 2024.
Questa problematica è stata di recente esaminata nelle tre ordinanze interlocutorie della Prima Sezione della Corte di cassazione n. 33398, n. 34898 e n. 35220 di dicembre 2024.
Nella ordinanza n. 33398 la Corte è stata chiamata ad esaminare l’ordinanza emessa il 1° luglio 2024 con la quale il Tribunale di Roma ha sottoposto alla Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 363-bis cod. proc. civ., un rinvio pregiudiziale circa l’ambito e l’ampiezza del sindacato del giudice sulla designazione di un paese di origine come sicuro per effetto del decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, in data 7 maggio 2024.
La Corte ha risolto il caso enunciando il seguente principio di diritto: “Nell’ambiente normativo anteriore al decreto-legge 23 ottobre 2024, n. 158, e alla legge 9 dicembre 2024, n. 187, se è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale di richiedente proveniente da paese designato come sicuro, il giudice ordinario, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc, può valutare, sulla base delle fonti istituzionali e qualificate di cui all’art. 37 della direttiva 2013/32/UE, la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in via incidentale, in parte qua, il decreto ministeriale recante la lista dei paesi di origine sicuri (secondo la disciplina ratione temporis), allorché la designazione operata dall’autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale. Inoltre, a garanzia dell’effettività del ricorso e della tutela, il giudice conserva l’istituzionale potere cognitorio, ispirato al principio di cooperazione istruttoria, là dove il richiedente abbia adeguatamente dedotto l’insicurezza nelle circostanze specifiche in cui egli si trova. In quest’ultimo caso, pertanto, la valutazione governativa circa la natura sicura del paese di origine non è decisiva, sicché non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale”.
Le altre due ordinanze interlocutorie (n. 34898 e n. 35220 di dicembre 2024) sono state pronunciate in due analoghi giudizi introdotti con ricorsi del Ministero dell’Interno avverso due ordinanze del Tribunale ordinario di Roma che non hanno convalidato il provvedimento di trattenimento in Albania disposto rispettivamente per un migrante proveniente dall’Egitto e per un migrante proveniente dal Bangladesh.
La Corte, affermata l’ammissibilità dei ricorsi, ha ritenuto di rinviare a nuovo ruolo la trattazione delle cause principalmente perché sulla questione di rinvio pregiudiziale alla CGUE sollevata dal Tribunale di Roma nelle cause riunite C758/24 e C-759/24, Alace e altro, l’udienza pubblica dinanzi alla Seconda Sezione della Corte di giustizia, in esito a un procedimento accelerato ai sensi dell’art. 105, paragrafo 1, del regolamento di procedura, si terrà a breve, il prossimo 25 febbraio 2025.
Inoltre, numerosi altri giudici di merito italiani si sono rivolti alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 TFUE, mettendo in dubbio la possibilità di qualificare un paese di origine come sicuro là dove siano presenti esenzioni per categorie soggettive.
Un rinvio pregiudiziale è stato sollevato anche da giudici di altri Stati membri dell’Unione, come il Tribunale amministrativo regionale di Berlino, con ordinanza del 29 novembre 2024.
Né va omesso di considerare che la Corte di cassazione, giudice nazionale di ultima istanza, è investita di un ruolo di orientamento della giurisprudenza ed è chiamata ad assicurare l’uniforme, coerente e stabile interpretazione del diritto e, in questo modo, a garantire l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Nella specie, la questione all’esame della Corte coinvolge un istituto importante del diritto dell’Unione europea e dello Stato italiano, con copertura anche costituzionale, e la soluzione ermeneutica non è priva di ricadute sulle prassi operative di altre istituzioni della Repubblica.
Quindi ha ritenuto opportuno attendere la decisione della CGUE.
Ma è stato precisato che l’attesa non è abdicazione del giudice di legittimità al ruolo nomofilattico né al compito di decidere in tempi ragionevoli il ricorso.
La Corte di cassazione italiana, recependo le conclusioni del Pubblico Ministero, rinvia la decisione della causa in vista della elaborazione di un prodotto della propria giurisprudenza più maturo ed affidabile, in uno spirito di leale cooperazione con la Corte di giustizia, anche per evitare una sovrapposizione di decisioni potenzialmente contrastanti tra loro.
La Corte di cassazione però ritiene di poter contribuire al dialogo con la Corte di giustizia indicando, attraverso un’ordinanza di rinvio a nuovo ruolo non avente natura decisoria, alcune considerazioni circa la possibile interpretazione della disciplina ricavabile dal quadro normativo di riferimento, idonea a superare i dubbi di compatibilità comunitaria della disciplina nazionale di recepimento e di attuazione della direttiva.
Ciò nella ferma convinzione che alla cooperazione e alla sinergia tra i giudici è affidato il controllo giurisdizionale sull’osservanza del diritto dell’Unione, che non è un diritto straniero ma è the law of the land in ciascuno Stato membro.
Del resto, la Corte di giustizia (Grande Sezione), con la sentenza 6 ottobre 2021, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi s.p.a. c. Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. nella causa C-561/19, dopo aver ricordato che il rinvio pregiudiziale costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai trattati, ha anche precisato che, qualora ritenga di essere esonerato dall’obbligo di sottoporre alla Corte un rinvio pregiudiziale, il giudice di ultima istanza debba motivare la propria decisione specificando quale ipotesi reputi sussistere. La Corte ha poi evidenziato che l’iniziativa delle parti nel giudizio di ultima istanza non può privare il giudice della propria indipendenza nel vagliare se ricorra una delle ipotesi di cui alla sentenza Cilfit, obbligandolo così a presentare un rinvio pregiudiziale.
Il sistema – si potrebbe dire mutuando le espressioni contenute in una recente decisione della Corte costituzionale italiana (sentenza n. 181 del 2024) – è improntato a una pluralità di rimedi: una pluralità destinata ad arricchire gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali, in un contesto che vede anche il giudice comune impegnato a dare attuazione al diritto dell’Unione europea nell’ordinamento italiano, con i propri strumenti e nell’ambito della propria competenza.
In questo sistema si inserisce anche collaborazione della Corte di cassazione in oggetto che muove da queste premesse:
a) Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione) con sentenza del 4 ottobre 2024, nella causa C-406/22, ha affermato che l’art. 37 della direttiva 2013/32 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un paese terzo sia designato come paese di origine sicuro qualora talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali per una siffatta designazione;
b) non sembra possibile applicare la decisione della Corte di giustizia del 4 ottobre 2024 in modo automatico ed estensivo ai paesi designati sicuri con eccezioni di categorie di persone. Dunque, potrebbe ritenersi ragionevole – oltre che maggiormente conforme alla lettera dell’allegato I – che la designazione del paese sicuro risponda a un criterio di prevalenza, non di assolutezza delle condizioni di sicurezza, a condizione, tuttavia, che la presenza di eccezioni soggettive tanto estese nel numero, accompagnata da persecuzioni e menomazioni generalizzate ed endemiche, non incida, complessivamente, sulla tenuta dello Stato di diritto. Una interpretazione per sineddoche, che dalla insicurezza di alcuni giunga automaticamente alla insicurezza dell’intero paese terzo, sembrerebbe smentita dal considerando della direttiva ratione temporis applicabile;
c) si tratta, allora, di verificare se la disciplina normativa contenuta nel d.lgs. n. 25 del 2008, là dove, all’art. 2-bis, consenta di designare un paese di origine sicuro con l’eccezione di categorie di persone, sacrifichi o meno i diritti dello straniero che, nel disegno personalista che lega la dignità alla solidarietà e all’accoglienza, la Costituzione protegge come fondamentali, sia direttamente, sia tramite le Carte internazionali alle quali gli artt. 10, 11 e 117 rinviano;
d) al riguardo un primo limite è costituito dal diritto alla libertà personale, che spetta anche allo straniero che si trova al confine del territorio della Repubblica italiana. Qui viene subito in rilievo il fascio di garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione. Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza n. 212 del 2023), infatti, la misura del trattenimento dello straniero presso centri di permanenza e assistenza comporta una situazione di assoggettamento fisico all’altrui potere, che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale;
e) il secondo limite si ricollega al fondamento dei diritti e delle libertà: la dignità della persona umana. La dignità, che era stata calpestata dal nazifascismo, è un valore che entra nell’art. 3 della Costituzione italiana, dove viene prima dell’eguaglianza. La tutela delle minoranze da persecuzioni è, infatti, un profilo essenziale e imprescindibile perché sia configurabile uno Stato di diritto che si possa definire realmente sicuro per tutti;
f) va richiamato, infine, il principio già enunciato da questa Corte nella sentenza 19 dicembre 2024, n. 33398, sulla base di quanto statuito dalla Corte di giustizia (Grande Sezione) nella sentenza in data 4 ottobre 2024 con riguardo al dovere di esame completo ed ex nunc imposto dall’art. 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto anche alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali. Il giudice è chiamato a verificare, in ipotesi limite, se la valutazione ministeriale abbia superato i confini esterni della ragionevolezza e sia stata esercitata in modo manifestamente arbitrario o se la relativa designazione sia divenuta, ictu oculi, non più rispondente alla situazione reale (come risultante, ad esempio, dalle univoche ed evidenti fonti di informazione affidabili ed aggiornate sul paese di origine del richiedente).
Su queste basi, la Corte di cassazione partecipando al dialogo tra le Giurisdizioni ha ritenuto di offrire, nello spirito di leale cooperazione, la propria ipotesi di lavoro, senza tuttavia tradurla né in decisione del ricorso né in principio di diritto suscettibile di orientare le future applicazioni, prospettando la seguente proposta di interpretazione della pertinente disciplina:
1) nell’ambiente normativo anteriore al decreto-legge n. 158 del 2024 e alla legge n. 187 del 2024, la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro può essere effettuata, attraverso un decreto ministeriale, con eccezioni di carattere personale;
2) tuttavia, la procedura accelerata di frontiera non può applicarsi là dove, anche in sede di convalida del trattenimento, il giudice ravvisi sussistenti i gravi motivi per ritenere che il paese non è sicuro per la situazione particolare in cui il richiedente si trova. In ogni caso, le eccezioni personali, pur compatibili con la nozione di paese di origine sicuro, non possono essere ammesse senza limiti;
3) tali eccezioni, infatti, non sono ammesse a fronte di persecuzioni estese, endemiche e costanti, tali da contraddire, nella sostanza, il requisito dell’assenza di persecuzioni che avvengano generalmente e costantemente, secondo l’allegato I alla direttiva 2013/32, perché, altrimenti, sarebbe gravemente pregiudicato il valore fondamentale della dignità e, con esso, la connotazione dello Stato di origine come Stato di diritto, il quale postula il rispetto delle minoranze nel nucleo irriducibile dei diritti fondamentali della persona;
4) il giudice della convalida, garante, nell’esame del singolo caso, dell’effettività del diritto fondamentale alla libertà personale, non si sostituisce nella valutazione che spetta, in generale, soltanto al Ministro degli affari esteri e agli altri Ministri che intervengono in sede di concerto, ma è chiamato a riscontrare, nell’ambito del suo potere istituzionale, in forme e modalità compatibili con la scansione temporale urgente e ravvicinata del procedimento de libertate, la sussistenza dei presupposti di legittimità della designazione di un certo paese di origine come sicuro, rappresentando tale designazione uno dei presupposti giustificativi della misura del trattenimento;
5) pertanto, egli è chiamato a verificare, in ipotesi limite, se la valutazione ministeriale abbia varcato i confini esterni della ragionevolezza e sia stata esercitata in modo manifestamente arbitrario o se la relativa designazione sia divenuta, ictu oculi, non più rispondente alla situazione reale (come risultante, ad esempio, dalle univoche ed evidenti fonti di informazione affidabili ed aggiornate sul paese di origine del richiedente).
6.- Conclusioni.
È noto l’insegnamento di Piero Calamandrei secondo cui: «per far vivere una democrazia non basta la ragione codificata nelle norme di una Costituzione democratica, ma occorre dietro di esse la vigile e operosa presenza del costume democratico, che voglia e sappia tradurla, giorno per giorno, in concreta, ragionata e ragionevole realtà» .
Ebbene, a fronte di un continuo aumento delle violazioni del principio della pari dignità di tutte le persone che è il principio di base delle nostre democrazie e anche delle UE, dal mio punto di vista il potenziamento degli strumenti a disposizione del giudice per far valere tali violazioni disposto dalla Corte costituzionale (dando seguito alla sentenza n. 269 del 2017) credo debba essere proprio come diretto a favorire il diffondersi di un corretto “costume costituzionale”, non in contrapposizione con principi affermati dalla sentenza della CGUE 9 marzo 1978, in causa C-106/77 (Simmenthal), e dalla successiva sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 1984 (Granital) con i seguiti ad essa conforme, come evoluzione di quei principi (che vanno comunque storicizzati).
Del resto, questo si è già verificato con la proposizione (con ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2013) del primo rinvio pregiudiziale nell’ambito di un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale (dopo il primo rinvio pregiudiziale in un giudizio instaurato in via principale, di cui alla ordinanza n. 103 del 2008).
Come chiaramente si desume dalle richiamate sentenze della Corte costituzionale in questo la Corte non ha inteso minimamente mettere in dubbio il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE ma ha solo voluto dare il proprio autorevole contributo al tutela delle posizioni giuridiche soggettive basate su diritti fondamentali ricercando l’armonia, la convergenza e la coerenza attraverso la via di minore attrito fra gli ordinamenti piuttosto che enfatizzare i profili di criticità e di frizione (vedi: Cass. n. 34898 e 35220 del 2024).
Infatti, quello prefigurato è un sistema improntato a un concorso di rimedi destinato ad assicurare un migliore rispetto dei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione e al contempo la piena effettività del diritto dell’Unione.
Non si tratta di una gara fra Corti, tra le quali da sempre si è instaurato un proficuo dialogo.

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.