Testo integrale con note e bibliografia

1.Il lavoro nel diritto comunitario (ora eurounitario) e l’ordinamento italiano (più di) trent’anni dopo: definizione ed impostazione del tema d’indagine.
Resta, beninteso, storia minore, né s’intende enfatizzare il remoto convegno di Parma – evocato fin dal titolo – sul medesimo tema: il lavoro nel diritto comunitario e l’ordinamento italiano.
E’ stato organizzato, più di trent’anni fa (correva l’anno 1985, era la fine di ottobre), dalla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Parma e dalla sezione Emilia-Romagna del Centro nazionale studi di diritto del lavoro Domenico Napoletano
Non segna, beninteso, l’inizio del periodo da indagare.
Ne risulta, tuttavia, la ricostruzione del coevo stato dell’arte – sul tema d’indagine – che s’intende assumere a base della riflessione – in prospettiva diacronica – sul medesimo tema.
Pare, invero, ricostruzione di sicura affidabilità.
Lo garantisce, infatti, la stessa struttura organizzativa – per così dire – del convegno.
Principi fondamentali dell’ordinamento delle comunità europee e contenzioso tra comunità e stati membri, parimenti in materia di lavoro, si coniugano – quale oggetto di relazioni – con portata ed efficacia della normativa comunitaria, segnatamente delle direttive, in relazione a contrattazione collettiva e giurisprudenza dei giudici ordinari italiani, nella stessa materia.
Tematiche specifiche di diritto comunitario del lavoro occupano, poi, gli interventi.
La struttura organizzativa del convegno, tuttavia, si coniuga con la elevata professionalità (di almeno alcuni) dei relatori.

1.1.Particolare rilevo assume – nella ricostruzione, che il remoto convegno di Parma propone – la giurisprudenza della Corte di giustizia e quella dei giudici nazionali.
La Corte di giustizia, infatti, concorre con la nostra Corte costituzionale per la definizione del rapporto tra ordinamento delle Comunità europee, appunto, ed il nostro ordinamento nazionale.
Le interpretazioni proposte dalle stesse Corti – nell’ambito delle rispettive competenze – sono destinate, poi, ad integrare la disciplina del caso concreto – (anche) in materia di lavoro – che i giudici comuni nazionali sono chiamati ad applicare.
Alla data del convegno di Parma, tuttavia, il diritto comunitario del lavoro risultava ignorato dai nostri giudici comuni e, segnatamente, dai nostri giudici ordinari .
Coerentemente, la coeva giurisprudenza della Corte di giustizia – in materia di lavoro – risultava formata, per quanto riguarda il nostro ordinamento, soltanto in procedure di infrazione.

1.2. Alla data del convegno di Parma (30 e 31 ottobre 1985, appunto), risultava sostanzialmente condivisa dalla Corte di giustizia e dalla nostra Corte costituzionale – fin dalle remote sentenze Simmenthal e Granital (Corte giust. 9 marzo 1978, in causa C- 106/77, e, rispettivamente, Corte cost. 8 giugno 1984, n. 170) – la definizione del rapporto tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale degli stati membri.
Superata ogni altra divergenza pregressa, infatti, restava ancora (come resta tuttora) – ma pare di rilievo puramene teorico – soltanto la configurazione alternativa – proposta dalla Corte di giustizia e, rispettivamente, dalla nostra Corte costituzionale – tra confluenza in unico sistema e, rispettivamente, separazione – con reciproco coordinamento – dei due ordinamenti.
Condiviso risultava, invece, il riconoscimento della speciale natura dell’ordinamento comunitario – nel panorama degli ordinamenti sovrannazionali – in quanto fonte di disciplina giuridica non solo per i rapporti tra stati.
Parimenti condiviso risultava, altresì, il riconoscimento della primazia dell’ordinamento comunitario – rispetto agli ordinamenti nazionali degli stati membri – nonché della efficacia diretta di norme comunitarie immediatamente precettive, nonché delle implicazioni e dei limiti relativi.
E tale è rimasto fino alla inversione, che pare avviata dalla c.d. saga Taricco (vedi infra, spec. § 3))

1.3. E’ ben vero, infatti, che Augusto Barbera – in funzione della tesi, propugnata contestualmente – prospetta una “lettura aggiornata della sentenza Simmenthal da parte della Corte di giustizia e della sentenza Granital da parte della Corte (costituzionale) italiana”.
La fonda, bensì, su alcune sentenze della Corte di giustizia , che hanno interpretato “l’articolo 267 TUFUE, relativo alla competenza della stessa (Corte di giustizia) in via pregiudiziale, (….) nel senso che questa (competenza) non preclude una normativa nazionale che preveda una domanda di annullamento erga omnes davanti ad una Corte costituzionale (sia pure) a quattro condizioni” stabilite contestualmente .
Perviene, tuttavia, alla conclusione che ne risulterebbe soltanto “una possibile direzione di marcia più che un risultato già raggiunto”.
Peraltro non può prescindersi dal rilievo che assumono, in senso diametralmente opposto, le lucide – quanto incontestate – conclusioni della sentenza Granital , secondo cui il fenomeno della norma interna incompatibile con l’ordinamento comunitario (ed, ora, eurounitario) – senza alcuna distinzione, sia detto per inciso, tra disposizioni e principi dello stesso ordinamento – “va distinto dall'abrogazione, o da alcun altro effetto estintivo o derogatorio” e – soprattutto, per quanto qui interessa – che “la norma interna contraria al diritto comunitario non risulta (……..) nemmeno affetta da alcuna nullità”.

1.4.La efficacia diretta delle norme immediatamente precettive – perché di contenuto certo ed incondizionate – riguardava, tuttavia, le norme di fonti primarie: trattati, regolamenti e, solo dopo il trattato di Lisbona, anche la Carta.
Per le direttive – che impongono agli stati membri soltanto un obbligo di risultato – la efficacia diretta era invece limitata – parimenti per le norme immediatamente precettive – ai rapporti con lo stato (c.d. efficacia diretta verticale), mentre era esclusa per i rapporti tra privati (c.d. efficacia diretta orizzontale).
In tale prospettiva, non può essere trascurato, tuttavia, che le sentenze della Corte di giustizia sono fonti ulteriori dell’ordinamento comunitario (ed, ora, eurounitario) e, di conseguenza, l’interpretazione – che ne risulti – delle direttive non ne condivide i prospettati limiti alla efficacia diretta

1.5.In coerenza con la prospettata natura speciale dell’ordinamento comunitario (ora, eurounitario) e con la sua primazia – rispetto agli ordinamenti nazionali degli stati membri – l’efficacia diretta delle direttive, tuttavia, risulta successivamente estesa.
L’ampliamento della nozione di stato si coniuga, in tale prospettiva, con la identificazione dello stesso stato – in tutte le sue funzioni – ivi compresa quella giurisdizionale.

1.6-La efficacia diretta comporta, poi, l’applicazione delle norme comunitarie – che ne siano dotate – in luogo delle norme interne confliggenti.
Vi provvedono, quindi, i giudici comuni.
Ne risulta superata, di conseguenza, la pregressa necessità – imposta, in un remoto passato, dalla nostra corte costituzionale, in contrasto della Corte di giustizia – di sollevare, in tal caso, questione di legittimità costituzionale (in relazione all’art. 11 cost.).
Alle stesse conclusioni sembrava doversi pervenire con riferimento alle norme – dotate, appunto, di efficacia diretta – della Carta di Nizza, una volta che il trattato di Lisbona (art. 6) le ha riconosciuto lo stesso valore del trattato.

1.7.Rimasto finora sostanzialmente immutato – a far tempo, appunto, dalle sentenze Simmenthal e Granital – il prospettato assetto dei rapporti – tra ordinamento comunitario (ora eurounitario) ed il nostro ordinamento interno – pare investito, ora, da segni di inversione.
Risultano concentrati, essenzialmente, nella c.d. saga Taricco (vedi infra, spec. §3)..

1.8.La c.d. saga Taricco, infatti, sembra innovare – almeno in parte – le raggiunte conclusioni.
Intanto una norma del trattato di Lisbona (art. 325) – della quale era stata, dalla Corte di giustizia, accertata la efficacia diretta (nella c.d. sentenza taricco 1) – risulta nuovamente investita, (anche) dalla Corte di cassazione, da questione di legittimità costituzionale.
Se ne pretende, infatti, una interpretazione adeguatrice che risulti rispettosa del controlimite – all’ordinamento eurounitario – costituito dal principio costituzionale di legalità in materia penale (art. 25 cost.): nullum crimen, nulla poena sine lege.
La Corte costituzionale adita, tuttavia, neanche si pone il problema circa l’ammissibilità della sollevata questione di legittimità costituzionale.
Eppure ne risulta investita una norma eurounitaria dotata di efficacia diretta, come tale affidata, da un lato, all’applicazione da parte del giudice comune – per quanto si è detto – e prevalente, dall’altro, rispetto alla norma costituzionale (art. 25 cost.) assunta quale controlimite.
La Corte costituzionale, infatti, dispone nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, che riecheggia – sostanzialmente – la questione di legittimità costituzionale – sollevata (anche) dalla Corte si cassazione – per ottenere una sorta di interpretazione autentica della pronuncia precedente, che risulti rispettosa, appunto, del principio costituzionale di legalità in materia penale (art. 25 cost.) .
La Corte di giustizia, tuttavia, ribadisce l’efficacia diretta della diposizione (art. 325 del trattato di Lisbona, cit.) – già dichiarata dalla sentenza Taricco 1, a seguito di precedente rinvio pregiudiziale della stessa Corte costituzionale –ed impone, nel contempo, l’obbligo dei giudici nazionali di osservare anche il principio di legalita, come previsto da norma – parimenti dotata di efficacia diretta – della Carta di Nizza (art. 49).

1.9.Resta, quindi, il problema se fosse proprio necessario, nella specie, un secondo rinvio pregiudiziale ed, ancor prima la rimessione alla Corte costituzionale.
I giudici comuni nazionali, infatti, sono tenuti a non applicare – ed hanno, quindi, l’obbligo di disapplicare (per dirla con il linguaggio, forse meno rigoroso, delle due sentenze Taricco) – le norme interne confliggenti con norme dell’ordinamento comunitario (ed, ora, eurounitario), che siano dotate di efficacia diretta.
Mentre la necessità di investire, in tal caso, la Corte costituzionale – della questione di legittimità costituzionale (in relazione all’articolo 11 della costituzione) – risultava concordemente esclusa fin dalle remote sentenze Simmenthal e Granital (Corte giust. 9 marzo 1978, in causa C- 106/77, e, rispettivamente, Corte cost. 8 giugno 1984, n. 170).

1.10.Per superare ill problema prospettato, sembra soccorrere – a costo di innovare radicalmente, tuttavia, l’assetto raggiunto in punto di rapporto tra ordinamento eurounitario ed ordinamento interno – la proposta di centralizzare nella Corte costituzionale – avanzata dalla medesima Corte – ogni controllo sulle norme della Carta di Nizza.
Ne risulta palese un ritorno al passato remoto – anteriore, cioè, alle sentenze Simmenthal e Granital, che si riferivano alle fonti primarie allora esistenti (quali i trattati) – sia pure con riferimento alle sopravvenute norme della carta, che del trattato, tuttavia, ha lo stesso valore.
La sentenza della Corte costituzionale – a seguito, appunto, della sentenza Taricco 2 della Corte di giustizia – esclude l’applicabilità della norma del trattato (art. 325 cit.) – sebbene dotata di efficacia diretta, come dichiarato dalla sentenza Taricco 1 – non solo a fatti anteriori all’8 settembre 2015 (data della sentenza Taricco 1), ma anche quando il giudice nazionale ne ravvisi contrasto con il principio di legalità in materia penale e, coerentemente, dichiara non fondate – in relazione allo stesso principio di legalità in materia penale – le questioni di legittimità costituzionale della legge di autorizzazione alla ratifica del trattato di Lisbona (legge n. 130 del 2008, articolo 2).
Sebbene improduttiva, allo stato, di effetti immediati, resta, comunque, la prospettata centralizzazione – in capo alla Corte costituzionale – del controllo su questioni concernenti il rapporto tra ordinamento dell’Unione ed il nostro ordinamento nazionale.
Ne risulta invertito, per quanto si è detto, il decentramento dello stesso controllo – in capo ai giudici comuni nazionali – sia pure con riferimento, almeno inizialmente, alla Carta di Nizza, che, tuttavia ha lo stesso valore del trattato.

1.11.Alla data del convegno di Parma, tuttavia, il diritto comunitario del lavoro – come è stato anticipato – risultava ignorato dai nostri giudici comuni e, segnatamente, dai nostri giudici ordinari.
Eppure la materia del lavoro – alla data di quel convegno (30 e 31 ottobre 1985, appunto) – aveva già formato oggetto non solo di norme dei trattati, ma anche – tra l’altro – delle importanti direttive sociali della seconda metà degli anni ’70 (in materia di licenziamento per riduzione del personale, trasferimento d’impresa, insolvenza del datore di lavoro).
Di conseguenza, non aveva seguito la coeva giurisprudenza della Corte di giustizia nella stessa materia del lavoro, che – per quanto riguarda il nostro ordinamento – si era formata, coerentemente, soltanto in procedure di infrazione.

1.12.Nel periodo successivo al convegno di Parma del 1985, la giurisprudenza dei giudici comuni – e segnatamente dei giudici ordinari – ha progressivamente acquisito sempre maggiore conoscenza del diritto comunitario – ed ora eurounitario – del lavoro.
Livelli diversi di sensibilità, talora di maturità culturale, degli stessi giudici – nella soggetta materia – pongono, tuttavia, problemi inediti di composizione.

1.13.. Resta, infine, il problema della cessione di sovranità– al tempo dei sovranismi.
Eppure la cessione risulti radicata nella nostra costituzione (art. 11) – ancor prima della stessa istituzione delle Comunità europee – e costituisca l’esito dell’intenso dibattito che – a partire dall’emendamento Dossetti (divenuto, appunto, articolo 11 della costituzione ) – si è svolto, sul punto, nell’Assemblea costituente.
Valga, tuttavia, il vero.

2. Il lavoro nel diritto comunitario (ora eurounitario) e l’ordinamento italiano: stato dell’arte a partire dal convegno di Parma del 1985.
Alla data del convegno di Parma (30 e 31 ottobre 1985, appunto) – come è stato ricordato – risultava già sostanzialmente condivisa dalla Corte di giustizia e dalla nostra Corte costituzionale – fin dalle remote sentenze Simmenthal e Granital (Corte giust. 9 marzo 1978, in causa C- 106/77, e, rispettivamente, Corte cost. 8 giugno 1984, n. 170) – la definizione del rapporto tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale degli stati membri.
Superata ogni altra divergenza pregressa, infatti, restava ancora (come resta tuttora) – ma pare di rilievo puramene teorico – soltanto la configurazione alternativa –proposta dalla Corte di giustizia e, rispettivamente, dalla nostra Corte costituzionale – tra confluenza in unico sistema e, rispettivamente, separazione – con reciproco coordinamento – dei due ordinamenti.
Condiviso risultava, già, il riconoscimento della speciale natura dell’ordinamento comunitario – nel panorama degli ordinamenti sovrannazionali – in quanto fonte di disciplina giuridica non solo per i rapporti tra stati.
Parimenti condiviso risultava, altresì, il riconoscimento della primazia dell’ordinamento comunitario – rispetto agli ordinamenti nazionali degli stati membri – nonché della efficacia diretta di norme comunitarie immediatamente precettive, nonché di implicazioni e limiti ad essa relativi.
La efficacia diretta delle norme immediatamente precettive – perché di contenuto certo ed incondizionate – riguardava, infatti, le norme di fonti primarie: trattati, regolamenti e, solo dopo il trattato di Lisbona, anche la Carta.
Per le direttive – che impongono agli stati membri soltanto un obbligo di risultato – la efficacia diretta era invece limitata – parimenti per le norme immediatamente precettive – ai rapporti con lo stato (c.d. efficacia diretta verticale), mentre era esclusa per i rapporti tra privati (c.d. efficacia diretta orizzontale).
In coerenza con la prospettata natura speciale dell’ordinamento comunitario (ora, eurounitario) e con la sua primazia – rispetto agli ordinamenti nazionali degli stati membri – l’efficacia diretta di norme delle direttive, tuttavia, è stata successivamente estesa.
L’ampliamento della nozione di stato si coniuga, in tale prospettiva, con la identificazione dello stesso stato – in tutte le sue funzioni – ivi compresa quella giurisdizionale.

2.1.In principio, è la configurazione della Comunità(ed ora Unione) europea – proposta dalla Corte di giustizia (fin dalla remota sentenza del 5 febbraio 1963, van Gend & Loos , in causa C-26/62, EU:C:1963:1) – come “ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini”.
Coerentemente – è la stessa Corte di giustizia a stabilirlo – “il diritto comunitario, indipendentemente dalle norme emananti dagli Stati membri, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi. Si deve ritenere che questi sussistano, non soltanto nei casi in cui il Trattato espressamente li menziona, ma anche come contropartita di precisi obblighi imposti dal Trattato ai singoli, agli Stati membri o alle Istituzioni comunitarie”

2.2.Coerente con la prospettata specialità dell’ordinamento comunitario – e con la sua primazia rispetto agli ordinamenti degli stati membri – risulta la efficacia diretta delle norme comunitarie, appunto, immediatamente precettive, perché di contenuto certo ed incondizionate.
Riguardava, infatti, le norme di fonti primarie (trattati, regolamenti) – che vincolano in ogni suo elemento – e la Carta di Nizza, dopo che il trattato di Lisbona (art. 6) le ha attribuito lo stesso valore del trattato.
Per le direttive – che impongono agli stati membri soltanto un obbligo di risultato – la efficacia diretta era invece limitata – parimenti per le norme immediatamente precettive – ai rapporti con lo stato (c.d. efficacia diretta verticale), mentre era esclusa per i rapporti tra privati (c.d. efficacia diretta orizzontale).
In tale prospettiva, va ricordato, tuttavia, che le sentenze della Corte di giustizia sono fonti ulteriori dell’ordinamento comunitario (ed, ora, eurounitario) e, di conseguenza, l’interpretazione – che ne risulti – delle direttive non ne condivide i prospettati limiti alla efficacia diretta

2.3.La efficacia diretta verticale delle direttive – proposta dalla Corte di giustizia – è stata accolta tiepidamente (per dirla con un eufemismo) dalla dottrina – secondo cui “le norme giuridiche, per loro natura, hanno uno scopo pratico” – in base, essenzialmente, al rilievo seguente:
“Qualsiasi norma giuridica è concepita in modo da funzionare efficacemente (in questo caso, siamo soliti parlare, in francese, di effet utile). Se non è funzionale, non è una norma giuridica. (…) La funzionalità pratica per tutti gli interessati, che altro non è se non l’efficacia diretta, deve essere considerata la normale caratteristica di qualsiasi norma giuridica (…). In altri termini, “l’efficacia diretta” deve essere presunta, non deve essere accertata a priori”.

2.4.Tuttavia la stessa Corte di giustizia – fin da quando ha elaborato la dottrina della efficacia diretta verticale delle direttive – ha ritenuto fondamentale conoscere i limiti della nozione di Stato ai fini dell’applicazione, appunto, della dottrina dell’efficacia diretta verticale.
La ratio del riconoscimento dell’efficacia diretta delle direttive, infatti, “si basa, in definitiva, su due obiettivi complementari: l’esigenza di garantire efficacemente i diritti conferiti ai singoli da tali atti e la volontà di sanzionare le autorità nazionali che non abbiano rispettato l’effetto obbligatorio e assicurato l’effettiva applicazione dei medesimi atti”.

2.5.Intanto la emanazione dello Stato – ai fini (dell’estensione) dell’efficacia diretta verticale delle direttive – deve essere una nozione autonoma del diritto dell’Unione, necessariamente formulata in termini astratti.
Ciò risulta, all’evidenza, funzionale alla applicazione uniforme del diritto dell’Unione in tutta l’Unione europea.
Coerentemente, la Corte ne ha enunciato, in termini generali ed astratti, la definizione seguente:
“disposizioni incondizionate e sufficientemente precise di una direttiva potevano essere invocate dagli amministrati nei confronti di organismi o di enti che erano soggetti all’autorità o al controllo dello stato o che disponevano di poteri che eccedevano i limiti di quelli risultanti dalle norme che si applicano fra singoli”.
Del pari coerentemente, la Corte di giustizia ha identificato in termini astratti – sulla base di fonti dell’ordinamento comunitario (ora eurounitario), in materie affatto diverse tra loro(ivi compresi, ad esempio, appalti pubblici, aiuti di stato e concorrenza) – una serie di enti riconducibili alla nozione di emanazione dello stato – ai fini della efficacia diretta verticale delle direttive, appunto – senza considerarli, tuttavia, numero chiuso.
Ne risulta che una emanazione dello stato – al fine dell’efficacia diretta verticale delle direttive – è configurabile – a prescindere dalla sua forma giuridica, dalla quotidianità dell’esercizio dei poteri di direzione e controllo e dal finanziamento dello stato – nelle seguenti ipotesi:
- proprietà o controllo dell’organismo da parte dello stato;
- autorità comunali, regionali o locali o organismi analoghi;
- assegnazione all’organismo del compito di svolgere un servizio pubblico, che altrimenti lo Stato stesso avrebbe potuto svolgere direttamente, e contestuale conferimento allo stesso organismo di una qualche forma di poteri supplementari.
Tuttavia il singolo può far valere disposizioni precise e incondizionate di una direttiva nei confronti dello Stato – o di una sua emanazione – indipendentemente dalla veste in cui lo stato (o la sua emanazione) agisce, in quanto occorre evitare che lo Stato possa trarre vantaggio dalla sua inosservanza del diritto dell’Unione.
L’ampliamento della nozione di stato si coniuga – in funzione della estensione della efficacia diretta verticale delle direttive – con la identificazione dello stesso stato – in tutte le sue funzioni – ivi compresa quella giurisdizionale.

2.6. “Se è vero che, con riferimento a una controversia tra privati, la Corte ha dichiarato in maniera costante che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un privato e non può, quindi, essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti (v., in particolare, sentenze Marshall, 152/84, EU:C:1986:84, punto 48; Faccini Dori, C 91/92, EU:C:1994:292, punto 20, nonché Pfeiffer e a., da C 397/01 a C 403/01, EU:C:2004:584, punto 108), essa ha parimenti dichiarato a più riprese che l’obbligo per gli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato previsto da quest’ultima così come il loro dovere di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo s’impongono a tutte le autorità degli Stati membri, comprese, nell’ambito delle loro competenze, quelle giurisdizionali (v., in tal senso, in particolare, sentenze von Colson e Kamann, 14/83, EU:C:1984:153, punto 26, nonché Kücükdeveci, C 555/07, EU:C:2010:21, punto 47)”.

2.7. La efficacia diretta – come è stato anticipato – comporta, poi, l’applicazione delle norme comunitarie – che ne siano dotate – in luogo delle norme interne confliggenti.
Vi provvedono, quindi, i giudici comuni.
Ne risulta superata, di conseguenza, la pregressa necessità – imposta, in un remoto passato, dalla nostra corte costituzionale, in contrasto della Corte di giustizia – di sollevare, in tal caso, questione di legittimità costituzionale (in relazione all’art. 11 cost.).
Alle stesse conclusioni sembrava doversi pervenire con riferimento alle norme – dotate, appunto, di efficacia diretta – della Carta di Nizza, una volta che il trattato di Lisbona (art. 6) le ha riconosciuto lo stesso valore giuridico del trattato.
La saga Taricoo, tuttavia, sembra recare segni di inversione, non solo con riferimento alla Carta di Nizza (vedi infra).

2.8.Per colmare la lacuna creata dalla mancanza di efficacia diretta, tuttavia, soccorrono:
- il principio di interpretazione conforme (interprétation conforme);
- e, come extrema ratio, la responsabilità dello Stato per danni.

2.9.Il principio di interpretazione conforme (interprétation conforme) risulta ripetutamente enunciato dalla Corte di giustizia.
La stessa Corte ha chiarito, tuttavia, che “l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del diritto nazionale trova un limite nei principi generali del diritto e non può servire a fondare un’interpretazione contra legem del diritto nazionale” .
Pertanto – ove l’interpretazione conforme non sia plausibile, in dipendenza del tenore letterale della norma interna – soccorre, nel nostro ordinamento , la questione di legittimità costituzionale della stessa norma (in relazione all’articolo 117, primo comma, costituzione, integrato dalla noma eurounitaria congliggente, quale fonte interposta).

2.10.Quanto, poi, alla responsabilità per danni dello Stato – in dipendenza dell’inadempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza alla Comunità (ora Unione) europea – il principio ha origine nella sentenza Fracovich
Ne risulta affermata, infatti, la responsabilità obiettiva dello stato, appunto, in presenza delle tre condizioni, contestualmente previste (ai punti da 39 a 41) nei termini testuali seguenti:.
“40.La prima di queste condizioni è che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti in favore dei singoli. La seconda condizione è che il contenuto di tali diritti possa esere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva. La terza condizione è l’esistenza di un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello stato e il danno subito dai soggetti lesoi.
41.Tali condizioni sono sufficienti per far sorgere a vantaggio dei singoli un diritto ad ottenere un risarcimento, che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario”.
Tale conclusione risulta sostanzialmente confermata dalla successiva sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame , sia pure limitatamente all’ipotesi in cui lo Stato membro sia soggetto all’obbligo di adottare, entro un certo termine, tutti i provvedimenti necessari per conseguire il risultato prescritto da una direttiva (punto 46).
Per la diversa ipotesi – in cui lo Stato membro disponga di un ampio potere discrezionale (punto 51) – è ritenuta necessaria, invece, una violazione sufficientemente caratterizzata, definita come “violazione manifesta e grave, da parte di uno Stato membro (…) dei limiti posti al [suo] potere discrezionale” (punto 55).
Una logica conclusione, poi, risulta – dalla sentenza Dillenkofer – “rispetto a ciò che la Corte aveva già affermato nella sentenza Francovich (punti da 39 a 41) e confermato nella sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame (punto 46)”.

2.11. L’incompatibilità della legislazione nazionale con le disposizioni comunitarie (ed, ora, eurounitarie) – ancorché direttamente efficaci e, come tali, da applicare in luogo delle norme interne confliggenti – può essere definitivamente soppressa, tuttavia, solo tramite disposizioni interne che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle incompatibili, appunto, con il diritto comunitario.
Né possono considerarsi equivalenti, all’uopo, disposizioni di fonti interne di diverso valore – rispetto a quelle delle norme incompatibili – né, tantomeno, prassi amministrative – peraltro suscettibili di modifiche da parte dell’amministrazione – in quanto risultano, all’evidenza, inidonee a sopprimere definitivamente le norme interne confliggenti, appunto, con il diritto dell’Unione.
Lo stabilisce la Corte di giustizia, sia pure con riferimento a norme del trattato – sin dalla remota sentenza 15 ottobre1986, in causa C- 168/85 – laddove sancisce:
“La facoltà degli amministrati di far valere dinanzi ai giudici nazionali disposizioni del trattato direttamente applicabili costituisce solo una garanzia minima e non è di per sé sufficiente ad assicurare la piena applicazione del trattato stesso; mantenere immutata, nella legislazione di uno stato membro, una disposizione interna incompatibile con una norma del trattato direttamente applicabile, crea una situazione di fatto ambigua in quanto mantiene gli interessati in uno stato di incertezza circa la possibilità di fare appello al diritto comunitario e costituisce quindi una trasgressione degli obblighi imposti dal trattato”.

 

3 Segue: segni di inversione di tendenza a partire dalla c.d. saga Taricco

A consuntivo – per così dire – la c.d. saga taricco risulta un palese spreco di giurisdizione – diffusamente riconosciuta risorsa non illimitata – non solo a livello nazionale, ma anche a livello eurounitario.
Due sentenze della Corte di giustizia su rinvio pregiudiziale – anche da parte della nostra Corte costituzionale – nonché l’ordinanza di rinvio ed una sentenza della stessa Corte costituzionale sono state ritenute necessarie per raggiungere un risultato – che, forse, avrebbe potuto prescinderne – o, comunque, sarebbe stato agevole, quantomeno, dopo la prima sentenza della Corte di giustizia.
Nel processo evolutivo della saga, tuttavia, sono pure saltati alcuni punti di sintesi – che sembravano definitivamente acquisiti – nel rapporto tra ordinamento eurounitario ed ordinamento nazionale.
Lo scrutinio delle questioni – relative al rapporto tra gli stessi ordinamenti – pare, infatti, sottratto ai nostri giudici comuni – e ricentralizzato in testa alla Corte costituzionale – con un palese ritorno al passato remoto, non disgiunto dalla negazione della efficacia vincolante delle sentenze della Corte di giustizia.

3.1.La sequenza della saga può essere sintetizzata, per quel che qui interessa, nei termini essenziali seguenti.
In principio è la sentenza della Corte di giustizia (c.d. Taricco 1) , che ha dichiarato immediatamente efficace una disposizione del trattato e, coerentemente, disapplicato norme confliggenti del nostro ordinamento interno.
La sentenza Taricco 1 è stata direttamente investita, da questione di legittimità costituzionale, (anche) dalla nostra Corte di cassazione. , in relazione al principio costituzionale di legalità in materia penale (art. 25 cost.).
La Corte costituzionale ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, che riecheggia – sostanzialmente – la proposta questione di legittimità costituzionale.
E la sentenza Taricco 2 della Corte di giustizia (detta anche sentenza M.A.S.) ha confermato, bensì, l’efficacia diretta della disposizione del trattato (art. 325) e la disapplicazione delle norme interne confliggenti sulla prescrizione (art. 160 e 161 c.p.) del reato in materia di imposta sul valore aggiunto – già stabilite dalla sentenza Taricco 1 – ma ha fatto salva (a meno che), tuttavia, l’ipotesi che “una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato”.
La sentenza Taricco 2, poi, sembra la ratio o, comunque, l’occasione di un obiter dictum della Corte costituzionale, che prospetta – sostanzialmente – la ricentralizzazione del controllo – in testa alla stessa Corte – quando una questione investa (anche) la violazione di norme della Carta di Nizza.
Tuttavia è la sentenza della Corte costituzionale – che dà seguito, appunto, alla stessa sentenza Taricco 2 della Corte di giustizia – a dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale della legge di autorizzazione alla ratifica del trattato di Lisbona (legge n. 130 del 2008, articolo 2) – in relazione al principio di legalità in materia penale (art. 25 cost.) – risultando esclusa l’applicabilità della norma del trattato (art. 325 cit.) – sebbene dotata di efficacia diretta, come dichiarato sin dalla sentenza Taricco 1 – non solo a fatti anteriori all’8 settembre 2015 (data della sentenza Taricco 1), ma anche quando il giudice nazionale ne ravvisi, appunto, contrasto con lo stesso principio di legalità in materia penale.

3.2.La centralizzazione del controllo – in testa alla Corte costituzionale, appunto – sembra costituire il filo rosso che collega tra loro i passaggi essenziali dei contributi della stessa Corte alla saga Taricco.
Intanto una norma del trattato di Lisbona dotata di efficacia diretta (art. 325) – come dichiarato dalla Corte di giustizia (sin dalla sentenza Taricco 1) – risulta investita, (anche) dalla Corte di cassazione, da questione di legittimità costituzionale.
E la Corte costituzionale – come è stato anticipato – neanche si pone il problema circa l’ammissibilità della sollevata questione di legittimità costituzionale.
Eppure ne risulta investita una norma eurounitaria dotata di efficacia diretta, come tale affidata, da un lato, all’applicazione da parte del giudice comune – per quanto si è detto – e prevalente, dall’altro, rispetto alla norma costituzionale (art. 25 cost.) assunta quale controlimite.
Tanto più la conclusione ora proposta s’impone ove si consideri che – della stessa norma eurounitaria – il giudice rimettente pretende – del pari inammissibilmente – una interpretazione adeguatrice che risulti rispettosa del controlimite – allo stesso ordinamento dell’Unione – quale risulta dal principio di legalità in materia penale, come previsto dalla nostra costituzione (art. 25).
In altri termini, un principio dell’ordinamento interno – sia pure di fonte costituzionale (art. 25 cost.) – ne risulta prospettato quale parametro per conformare l’interpretazione di norma del diritto dell’Unione (art. 325 TUE), nonostante la efficacia diretta e la prevalenza di questa rispetto allo stesso principio dell’ordinamento interno (art. 25 cost., appunto) .
La Corte costituzionale, infatti, dispone nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, che riecheggia – per quanto si è detto – la questione di legittimità costituzionale – sollevata (anche) dalla Corte si cassazione – per ottenere una sorta di interpretazione autentica della pronuncia precedente, che risulti rispettosa, appunto, del principio costituzionale di legalità in materia penale (art. 25 cost.) .

3.3.La Corte di giustizia , intanto, ribadisce l’efficacia diretta della diposizione (art. 325 del trattato di Lisbona, cit.), già dichiarata dalla sentenza Taricco 1, a seguito di precedente rinvio pregiudiziale della stessa Corte costituzionale
Tuttavia impone l’obbligo dei giudici nazionali di osservare anche il principio di legalita in materia penale, come previsto da norma – parimenti dotata di efficacia diretta – della Carta di Nizza (art. 49) e non già dal principio – di contenuto sostanzialmente non dissimile – della nostra costituzione (art. 25), che risulta invocato dai giudici nazionali (Corte costituzionale, appunto, e giudici rimettenti).

3.4.Resta confermato, vieppiù, il problema se fosse proprio necessario, nella specie, un secondo rinvio pregiudiziale ed, ancor prima, la rimessione alla Corte costituzionale.
I giudici comuni nazionali, infatti, sono tenuti a non applicare – ed hanno, quindi, l’obbligo di disapplicare (per dirla con il linguaggio, forse meno rigoroso, delle due sentenze Taricco) – le norme interne confliggenti con norme dell’ordinamento comunitario (ed, ora, eurounitario), che siano dotate di efficacia diretta.
Mentre la necessità di investire, in tal caso, la Corte costituzionale – della questione di legittimità costituzionale (in relazione all’articolo 11 della costituzione) – risultava concordemente esclusa fin dalle remote sentenze Simmenthal e Granital (Corte giust. 9 marzo 1978, in causa C- 106/77, e, rispettivamente, Corte cost. 8 giugno 1984, n. 170).

3.5.Per superare il problema ora prospettato – sia pure a costo di un ritorno al passato remoto, per quanto si è detto – la Corte costituzionale propone in un obiter – con riferimento specifico, tuttavia, alla Carta di Nizza – e, sostanzialmente, ribadisce – con la sentenza che dà seguito alla Taricco 2 – la centralizzazione, in testa alla stessa Corte, del controllo su qualsiasi contrasto tra norme del diritto dell’Unione e norme dell’ordinamento nazionale.
In funzione della centralizzazione, il ritorno al passato remoto, tuttavia, si coniuga con la sostanziale negazione della competenza della Corte di giustizia – sebbene contestualmente predicata – nella interpretazione uniforme del diritto dell’Unione e nella specificazione se esso abbia effetto diretto.
Peraltro il principio di legalità in materia penale – sebbene previsto (anche) dalla Carta di Nizza (articolo 49) – diventa parametro di legittimità costituzionale – per la legge che autorizza la ratifica del trattato di Lisbona – sia pure impiegando lo stesso principio – come previsto della nostra costituzione (art. 25) – apoditticamente elevato, tuttavia, a principio supremo.

3.6.Intanto è la stessa Corte costituzionale a riconoscere (punto 12) che la sentenza Taricco 2 ha ritenuto “assorbito il terzo quesito in forza della risposta data ai primi due ” nei termini testuali seguenti:
“l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di imposta sul valore aggiunto, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.”.
In altri termini – chiarisce, esplicitamente, la stessa Corte costituzionale – “la Corte di giustizia ha ribadito i contorni della “regola Taricco”, ma ha confermato che essa può trovare applicazione solo se è rispettosa del principio di legalità in materia penale, nella duplice componente della determinatezza e del divieto di retroattività. Quanto alla prima ha sollecitato una verifica della competente autorità nazionale, mentre sulla retroattività ha sùbito specificato che la “regola Taricco” non si estende ai fatti compiuti prima dell’8 settembre 2015, data di pubblicazione della sentenza che l’ha enunciata”.
All’esito di tali premesse, tuttavia, la Corte costituzionale pronuncia su questione di legittimità costituzionale, che sembra riecheggiare, nella sostanza, la questione pregiudiziale ritenuta assorbita dalla Corte di giustizia (nella Taricco 2).
Resta da domandarsi, tuttavia, se ne risulti frainteso quanto stabilito dalla Corte di giustizia, anche nella Taricco 2.

3.7.Invero la motivazione della sentenza di rigetto della Corte costituzionale si articola nei passaggi essenziali seguenti:
- resta fermo che “compete alla sola Corte di giustizia interpretare con uniformità il diritto dell’Unione, e specificare se esso abbia effetto diretto”;
- tuttavia, “come ha riconosciuto la sentenza M.A. S.(altro nome della Taricco 2), un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento”;
- quanto appena rilevato concerne la “regola Taricco”, che non troverebbe una base legale sufficientemente determinata nell’art. 325 TFUE, dal quale una persona non avrebbe potuto, né oggi potrebbe, desumere autonomamente i contorni della regola Taricco”, appunto;
- pertanto “ciò comporta la non fondatezza di tutte le questioni sollevate, perché, (…….), la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della “regola Taricco”” nel nostro ordinamento”.
Resta, tuttavia, il problema – già prospettato – se ne risulti frainteso quanto stabilito dalla Corte di giustizia – nell’ambito della propria competenza – anche nella Taricco 2.

3.8.Rispondendo alle prime due questioni pregiudiziali, infatti, la sentenza Taricco 2 della Corte di giustizia ribadisce la efficacia diretta (dell’art. 325 TFUE, appunto) – già accertata dalla Taricco 1 – ed impone, nel contempo, il rispetto del principio di legalità in materia penale – parimenti dotato di efficacia diretta – stabilito dallo stesso diritto dell’Unione (art. 49 Carta di Nizza), sia pure in termini non dissimili rispetto alla nostra costituzione (art. 25).
Pertanto il principio di legalità risulta radicato – con efficacia diretta – nel diritto dell’Unione.
Non pare, quindi, neanche configurabile un qualsiasi contrasto di tale ordinamento con lo stesso principio di legalità, come stabilito dalla nostra costituzione (art. 25).
La conclusione proposta si impone, vieppiù, ove si consideri la prevalenza del principio di legalità – stabilito dal diritto dell’Unione – rispetto al principio omologo previsto dalla nostra costituzione.
Palese ne risulta il rilievo ove si consideri il contenuto identico di tanti principi della Carta di Nizza e della nostra costituzione.
Pare, invece, assorbita la questione attinente alla elevazione del principio di legalità da principio fondamentale a principi supremo , come tale idoneo a costituire parametro di legittimità costituzionale per la legge di autorizzazione della ratifica del trattato di Lisbona.
Peraltro il contrasto con il principio di legalità – previsto dalla nostra costituzione (art. 25) – risulta prospettato, sotto il profilo della indeterminatezza. in relazione alla regola Taricco (di cui all’art. 325 TFUE).
Tuttavia la indeterminatezza non è compatibile con la efficacia diretta – che postula, appunto, contenuto normativo sicuro (oltre che incondizionato) – della stessa regola Taricco.
Mentre la verifica circa la indeterminatezza – che la Corte di giustizia demanda ai giudici nazionali – pare riferita alle norme interne con essa confliggenti.

 

 

3.9.Al pari di ogni altra decisione di rigetto delle questioni di legittimità costituzionale, la sentenza della Corte costituzionale – che sembra concludere la sagaTaricco – non produce alcun effetto giuridico al di fuori del giudizio a quo.
Restano, tuttavia, i messaggi che la nostra Corte costituzionale ha ritenuto di dovere rivolgere ai giudici comuni – che ne risultano espropriati della competenza a decidere, su qualsiasi contrasto tra diritto dell’Unione ed ordinamento interno, attribuita agli stessi giudici fin dalle remote sentenze Simmenthal e Granital – in un obter dictum ed in una sentenza di rigetto.
Non vincolati dalla sentenza di rigetto né, tantomeno, dall’obiter dictum della Corte costituzionale i nostri giudici comuni potrebbero, quindi, continuare a conformarsi alle sentenze – che, invece, restano per loro vincolanti – Simmenthal e Granital.
Oppure potrebbero riproporre, direttamente, alla Corte di giustizia la stessa questione pregiudiziale – già decisa con la remota sentenza Immenthal, finora condivisa dai giudici nazionali a far tempo dalla sentenza Granital –concernente, appunto, il rapporto tra ordinamento dell’Unione e nostro ordinamento interno.
Ne potrebbe risultare – alla luce della giurisprudenza (anche attuale) della Corte di giustizia – una sorta di sentenza Simmenthal del XXI secolo, alla quale non potrebbe non seguire una sorta di sentenza Granital, parimenti del XXi secolo: con buona pace del risparmio di giurisdizione e dello stesso dialogo tra le Corti.

3.10.Il rischio paventato pare escluso, tuttavia, da sentenze sopravvenute della stessa Corte costituzionale.
Ne risulta stabilito, infatti, che – nel contrasto di disposizione interna con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza) e con la nostra costituzione – resta “fermo (….) il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta”.
Tanto basta per escludere la paventata centralizzazione – in testa alla nostra Corte costituzionale – del controllo sul contrasto di disposizioni interne con norme della Carta dotate di efficacia diretta.
Il potere del giudice comune di non applicarle nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame – previo rinvio pregiudiziale (eventuale) alla Corte di giustizia – risulta coerente con l’assetto, risalente alle remote sentenze Simmenthal e Granital, del rapporto tra ordinamento comunitario (ora euro unitario) e diritto interno.
Infatti la efficacia diretta comporta – per quanto si detto (vedi § 1.6.) – l’applicazione delle norme comunitarie (ora eurounitarie) – che ne siano dotate – in luogo delle norme interne confliggenti.
Vi provvedono, quindi, i giudici comuni.
Ne risulta superata, di conseguenza, la pregressa necessità – imposta, in un remoto passato, dalla nostra Corte costituzionale, in contrasto della Corte di giustizia – di sollevare, in tal caso, questione di legittimità costituzionale (in relazione all’art. 11 cost.).
Non può essere trascurato, peraltro, che l’incompatibilità della legislazione nazionale con disposizioni comunitarie (ed, ora, eurounitarie) – ancorché direttamente efficaci e, come tali, da applicare al caso concreto in luogo delle norme interne confliggenti – può essere soppressa, definitivamente, solo tramite disposizioni interne che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle incompatibili, appunto, con il diritto comunitario.
E la trasgressione (eventuale) dell’obbligo di conformazione relativo – derivante dalla appartenenza alla Comunità (ed, ora, all’Unione) europea – comporta la soggezione dello stato membro inadempiente alla procedura di infrazione.
Ne risulta, infatti, che l’applicazione di norme dotate di efficacia diretta – all’evidenza, casistica – si coniuga con la conformazione definitiva dell’ordinamento interno a quello comunitario (ed, ora, euurounitario).

3.11.Nè rileva, in contrario, il controllo accentrato, affatto diverso, della Corte costituzionale – sul contrasto di leggi nazionali con parametri costituzionali, cioè su questioni di legittimità costituzionale – che viene prospettato, contestualmente, nei termini testuali seguenti: “a questa Corte non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta”.
Infatti il controllo centralizzato della Corte costituzionale – ritenuto incoerente con l’assetto del rapporto tra ordinamenti risalente alle remote sentenze Simmenthal e Granital – sembrava emergere, per quanto si è detto (vedi § 3.2.), dalla circostanza che una norma del trattato di Lisbona dotata di efficacia diretta (art. 325) – come dichiarato dalla Corte di giustizia (sin dalla sentenza Taricco 1) – è stata investita da questione di legittimità costituzionale e la Corte costituzionale neanche si è posto il problema circa l’ammissibilità della stessa questione.
Ancor prima, tuttavia, era stato stabilito (vedi retro: § 3.1.) – in un obiter dictum – che, “,laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE”.
La indispensabilità del controllo centralizzato della Corte costituzionale – che sembrava risultarne – non è, all’evidenza, compatibile con l’applicazione delle norme comunitarie (ed ora eurounitarie) – dotate di efficacia diretta – in luogo delle norme interne confliggenti.
Mentre l’esigenza che sia salvaguardata “l’opportunità di un intervento con effetti erga omnes” – che pare addotta a giustificazione del sindacato accentrato della Corte costituzionale, “alla luce dei parametri costituzionali interni” – pare garantita, per quanto di è detto (nel paragrafo, che precede), anche nel caso di norme comunitarie (ed, ora, eurounitarie) – dotate di efficacia diretta – da applicare, come tali, al caso concreto, anche in luogo di norme interne confliggenti.
Alle stesse conclusioni sembra pervenire la relazione annuale 21 marzo 2019 del Presidente della Corte costituzionale sulla giurisprudenza della Corte del 2018 (spec. § 8).
Sinceramente non so – né mi pare rilevante scrutinare – se le due sentenze del 2019 abbiano soltanto confermato – come asserito dalle sentenze stesse – quanto stabilito dalla Corte costituzionale in pronunce precedenti.
Infatti pare certo, (quantomeno) all’esito delle pronunce del 2019, che il rapporto tra ordinamenti – eurounitario, appunto, e nazionale – continua ad essere governato dall’assetto – risalente alle remote sentenze Simmenthal e Granital – del quale si erano paventati segni di inversione.

4.Segue: evoluzione della giurisprudenza dei nostri giudici ordinari a partire dal convegno di Parma del 1985.
Alla data del convegno di Parma – come è stato anticipato – il diritto comunitario del lavoro risultava ignorato dai nostri giudici comuni e, segnatamente, dai nostri giudici ordinari.
Eppure la materia del lavoro – alla data di quel convegno (30 e 31 ottobre 1985, appunto) – aveva già formato oggetto non solo di norme dei trattati, ma anche – tra l’altro – delle importanti direttive sociali della seconda metà degli anni ’70 (in materia di licenziamento per riduzione del personale, trasferimento d’impresa, insolvenza del datore di lavoro).
Di conseguenza, non aveva seguito la coeva giurisprudenza della Corte di giustizia nella stessa materia del lavoro, che – per quanto riguarda il nostro ordinamento – si era formata, coerentemente, soltanto in procedure di infrazione.

4.1.Nel periodo successivo al convegno di Parma del 1985, la giurisprudenza dei giudici comuni – e segnatamente dei giudici ordinari – ha progressivamente acquisito sempre maggiore conoscenza del diritto comunitario – ed ora eurounitario – del lavoro.
Coerentemente, hanno trovato applicazione – dinanzi ai nostri giudici comuni – i diritti che, ai lavoratoti subordinati, sono garantiti dal diritto comunitario (ed, ora, eurounitario) ed, in genere, dal patrimonio costituzionale comune.
Del pari coerentemente, la giurisprudenza comunitaria (ed, ora, eurounitaria) proviene da sentenze della Corte di giustizia in sede – non solo di procedura d’infrazione , ma anche – di rinvio pregiudiziale.

4.2.Livelli diversi di sensibilità degli stessi giudici – nella soggetta materia –pongono, tuttavia, problemi inediti di composizione.
Mi imito soltanto a qualche esemplificazione.

4.3.Su eguaglianza e lavoro, non posso che ribadire quanto poco resta nel nostro diritto vivente , pur non essendo mancata qualche indicazione di segno contrario.
Una qualche timidezza, peraltro, sembra connotare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia – peraltro obbligatorio per i giudici di ultima istanza – sebbene ne siano risultati, talora, esiti di palese ingiustizia in dipendenza della sopravvenienza di sentenze della Corte di giustizia, appunto, contrastanti con pronunce dei nostri giudici comuni passate in giudicato e di problematica revocazione.
In palese controtendenza pare, tuttavia, il rinvio pregiudiziale – per asserita discriminazione fondata sull’età – della disposizione in materia di lavoro intermittente , che – per promuovere l’occupazione giovanile – stabilisce la cessazione automatica del rapporto di lavoro al raggiungimento di una certa età.
La scontata sentenza della Corte di giustizia – che ha escluso la denunciata discriminazione – ha dato luogo, tuttavia, ad un seguito – parimenti scontato – con sentenza della Corte di cassazione che rivela , tuttavia, elevata maturità culturale.

4.4.Una qualche timidezza (per dirla, ancora una volta, con un eufemismo) sembra riguardare, altresì, l’applicazione del principio giurisprudenziale – costituzionale ed insieme eurounitario – di indisponibilità del tipo contrattuale di lavoro subordinato.
Pur riposando su tale principio, la sostanziale estensione ai dirigenti della disciplina in materia di licenziamenti collettivi – stabilita dalla Corte di giustizia – risulta dalla Corte cassazione rinviata, alla data di entrata in vigore della legge attuativa della sentenza , sebbene quel principio abbia efficacia diretta.
Alla stessa conclusione si perviene, tuttavia, in dipendenza della efficacia diretta – per quanto si è detto – della ricordata sentenza della Corte di giustizia, sebbene non sia dotata (di efficacia diretta, appunto, nei rapporti tra privati) la norma di direttiva (articolo 2 della direttiva 98/59, cit.), che ne risulta interpretata.
L’esemplificazione sul punto potrebbe continuare.
Non può essere trascurata, tuttavia, la segnalazione che – sul principio di indisponibilità del tipo contrattuale di lavoro subordinato – riposa essenzialmente, tra l’altro, la questione pregiudiziale concernente il trattamento economico, normativo e previdenziale dei giudici non professionali (che pende, attualmente, dinanzi alla Corte di giustizia).

4.5.Una maggiore attenzione meriterebbe, forse, anche la condizionalità eurounitaria per il divieto nazionale di conversione dei contratti a termine abusivi nel pubblico impiego.
Il divieto è subordinato, infatti, alla condizione che, negli ordinamenti interni, siano contestualmente previste misure alternative – alla conversione, appunto – dotate dei requisiti indefettibili stabiliti dal diritto dell’Unione: equivalenza – rispetto al trattamento garantito, per casi analoghi, dallo stesso ordinamento interno – si coniuga, in tale prospettiva, con effettività, proporzionalità ed efficacia dissuasiva.
La discrezionalità degli stati membri – nello stabilire divieti di conversione – non può, quindi, prescindere dalla condizionalità imposta dal diritto dell’Unione. .
La condizionalità potrebbe, quindi, comportare – nel difetto di idonee misure alternative alla conversione vietata – la disapplicazione dello stesso divieto – nel nostro ordinamento – sebbene riposi sul principio costituzionale del pubblico concorso.
Né può farsi affidamento, sine die, sul self restraint – che è stato praticato, finora, dalla Corte di giustizia – nel non dare attuazione effettiva alla disapplicazione, appunto, dopo averla ripetutamente predicata..

4.6.Sembra pesare, tuttavia, sulle timidezze giurisprudenziali – che sono state prospettate, solo in parte, a titolo meramente esemplificativo – (anche) un problema culturale, che non risparmia neanche la nostra dottrina giuslavoristica.
La generazione di giuslavoristi immediatamente precedente, infatti, ha totalmente ignorato il diritto comunitario – come la nostra giurisprudenza, al tempo del convegno di Parma del 1985 – talvolta invocando, a giustificazione, la sufficienza delle garanzie offerte dalla nostra costituzione.
L’attuale generazione di giuslavoristi, invece, non ignora il diritto comunitario (ed, ora, eurounitario) del lavoro , al pari della giurisprudenza attuale dei nostri giudici ordinari.
Sembra condividerne, tuttavia, la inadeguata considerazione – lo si prospetta in termini problematici – della specialità dell’ordinamento comunitario ed, ora, eurounitario.
Forte risulta, infatti, la tentazione di configurarne le norme come mero parametro di legittimità (comunitaria ed, ora, eurounitaria) – ed, ancor prima, di interpretazione conforme – per le nostre norme interne.
Eppure ad opposte conclusioni sembra condurre, appunto, la specialità di quell’ordinamento.

4.7.Come è stato ricordato, infatti, la Comunità (ed ora Unione) europea risulta configurata dalla Corte di giustizia – fin dalla remota sentenza del 5 febbraio 1963 (van Gend & Loos , in causa C-26/62, EU:C:1963:1) – come “ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini”.
Coerentemente – è la stessa Corte di giustizia a stabilirlo – “il diritto comunitario, indipendentemente dalle norme emananti dagli Stati membri, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi. Si deve ritenere che questi sussistano, non soltanto nei casi in cui il Trattato espressamente li menziona, ma anche come contropartita di precisi obblighi imposti dal Trattato ai singoli, agli Stati membri o alle Istituzioni comunitarie”
Sembra risultarne che sono le fattispecie lavoristiche – per così dire – il polo di attrazione per norme dell’ordinamento comunitario (ed. ora, eurounitario) – nei limiti, beninteso, delle materie attribuite alla competenza dello stesso ordinamento – e per (eventuali) norme del nostro ordinamento interno.
Le norme dell’ordinamento comunitario (ed, ora, eurounitario), poi, trovano applicazione – per quanto si è detto – indipendentemente dalle norme emananti dagli Stati membri.
E prevalgono – sulle norme interne confliggenti – in forme diverse, a seconda che siano dotate o meno di efficacia diretta.
Nel primo caso, infatti, si applicano in luogo delle norme interne confliggenti.
Nel secondo caso, invece, impongono l’interpretazione conforme delle stesse norme interne.
Ove l’interpretazione conforme, poi, non risulti plausibile – in dipendenza del tenore letterale della norma interna – soccorre, nel nostro ordinamento, la questione di legittimità costituzionale della stessa norma (in relazione all’articolo 117, primo comma, costituzione, integrato dalla noma eurounitaria congliggente, quale fonte interposta).
Tutto risulta funzionale, in ogni caso, alla individuazione – in base ai criteri che governano, per quanto si è detto, i rapporti tra gli ordinamenti – la disciplina giuridica del caso concreto, che i giudici comuni nazionali sono chiamati ad applicare.

4.8.L’auspicata maturazione culturale – di giurisprudenza e dottrina – sarebbe agevolata, forse, dalla intensificazione del dialogo con la Corte di giustizia.
Utile, in tale prospettiva, sarebbe una minore timidezza nel rinvio pregiudiziale.
Di utilità anche maggiore, se possibile, sarebbe l’anticipazione del dialogo in fase non contenziosa.
In tale prospettiva, si colloca la previsione – nel protocollo numero 16 alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – della domanda di pareri non vincolanti, che – in pendenza di giudizio – le più alte giurisdizioni nazionali possono rivolgere, appunto, alla Corte europea dei diritti dell’uomo per l’interpretazione dello stesso diritto internazionale convenzionale.
Per la Corte di giustizia, invece, svolge la stessa funzione preliminare – con riferimento, tuttavia, alle procedure di infrazione – il sistema Eu-pilot.
Peraltro non può essere trascurato il rilievo che – nella stessa prospettiva del dialogo tra le Corti – possono assumere i protocolli sulla cooperazione tra le Corti medesime..
5.Notazioni conclusive: cessione di sovranità dello stato al tempo dei sovranismi.

Resta, infine, il problema – già segnalato – della cessione di sovranità dello stato al tempo dei sovranismi .
Eppure la cessione di sovranità – sulla quale si fonda, appunto, il primato del diritto comunitario (ed, ora, eurounitario) rispetto agli ordinamenti nazionali degli stati membri – risulta radicata nella nostra costituzione (art. 11), ancor prima della stessa istituzione delle Comunità europee.
Non può essere trascurato, tuttavia, il rilievo che – in dipendenza della efficacia giuridica – assume la fonte comunitaria (ed ora eurounitaria) del primato.
Il principio del favor – immanente nel diritto comunitario (ed, ora, eurounitario) del lavoro – concorre, poi, a governarne il rapporto con gli ordinamenti nazionali.
Ne risulta, di conseguenza, garantito il livello più elevato di tutela per i diritti dei lavoratori.
Restano, comunque, problemi di democratizzazione e di dimensione sociale dell’unione europea.
Non risultano trascurati, tuttavia, dai critici dei sovranismi.

5.1.Fin dalla sua prima formulazione in assemblea costituente , il principio di autolimitazione della sovranità dello stato è posto in relazione con l’idea degli stati uniti di Europa .
Palesi risultano le suggestioni resistenziali della prefigurazione, nella nostra costituzione, del sopravvenuto ordinamento comunitario come “ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani (……). ”
Coerente con la cessione di sovranità, la primazia dell’ordinamento comunitario (ed, ora, eurounitario) ne comporta la prevalenza sugli ordinamenti interni degli stati membri.

5.2.La fonte eurounitaria del primato , tuttavia, risulta assistita dallo stesso primato.
Mentre il principio del favor immanente nel diritto comunitario (ed, ora, eurounitario) del lavoro – talora in forma esplicita – pare, comunque, incompatibile con il rischio che ne possa derivare, per i diritti dei lavoratori appunto, una tutela minore rispetto a quella garantita dall’ordinamento nazionale.
Anzi tale rischio non è neanche configurabile in materie lavoristiche di sicuro rilievo – riservate alla competenza esclusiva degli stati membri, in quanto non attribuite alla competenza dell’Unione europea ( art. 4 ss, TUE) – quali retribuzioni, diritto di associazione, diritto di sciopero e diritto di serrata. (art.153, comma 5, del trattato).

5.3.Non mancano, tuttavia, problemi di democratizzazione e di dimensione sociale dell’Unione europea.
All’evidenza, non possono essere trascurati.
Né risultano trascurati, tuttavia, dai critici dei sovranismi

5.4.Tanto basta per ribadire che l’ordinamento eurounitario resta indispensabile per garantire la salvaguardia contro il rischio – indagato dal più classico dei classici sulla democrazia – di qualsiasi dittatura della maggioranza a livello nazionale.
Né può essere trascurato, in tale prospettiva, che base assiologica – del rifiuto, appunto, della dittatura della maggioranza di ciascun popolo – è la giustizia, quale “legge generale che è stata fatta, o perlomeno adottata, non solo dalla maggioranza di questo o quel popolo, ma dalla maggioranza di tutti gli uomini” .
Tanto basta per confutate le argomentazioni di segno contrario, che – in tema, appunto, di dittatura della maggioranza – vengono, talora, proposte da sostenitori dei sovranismi.

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