Testo integrale con note e bibliografia

1. Introduzione
I confini tra la sharing economy – sulla quale puntava l'attenzione l'Agenda Europea del 2016 – e la ben più rischiosa gig economy sono porosi . D’altro canto, la pandemia – ed in particolare il distanziamento fisico, quale strategia sanitaria per diminuire la diffusione del contagio – ha inciso su lavoro digitale e ruolo delle cd. piattaforme di lavoro. L’emergenza sanitaria, infatti, da una parte, ha spinto alla diffusione del lavoro da remoto (teleworking), o nello specifico nel lavoro da casa (homeworking), con l'effetto, in un brevissimo lasso temporale, di ampliare in maniera consistente la platea di lavoratori che lavorano in queste modalità . Dall'altra, l’emergenza epidemica ha modificato sostanzialmente, portandolo in primo piano, il ruolo delle piattaforme digitali. In particolare, si è assistito al rafforzamento della posizione di alcune piattaforme (oltre al food delivery, si pensi all’e-commerce); altre, invece, hanno subito conseguenze negative, perché abilitano la “condivisione” di beni e servizi che, solo di recente, tornano lentamente ad essere offerti/utilizzati, dopo un lungo periodo di sostanziale e pressoché totale interruzione, a causa dell’emergenza (ad es. car sharing e home sharing). È ancora presto per verificare se si tratti di modifiche strutturali dei relativi mercati del lavoro, ma il consolidarsi di tali fenomeni potrebbe finire per attribuire ad alcune tipologie di piattaforme di lavoro un ruolo di traino all’occupazione; una sorta di “settore rifugio” per lavoratori espulsi da altri, soprattutto ove perdurino le politiche di distanziamento (sul punto vedi anche infra). In altre parole, i rischi già precedentemente individuati potrebbero accentuarsi.
L’occasione delle presenti riflessioni è indotta, oltre che dal possibile impatto della pandemia appena accennato, anche da altri elementi. Innanzi tutto, l’Inapp ha rilasciato una seconda wave dei dati ricavati da una indagine campionaria (Inapp-Plus) che concerne anche i lavoratori delle piattaforme : l’indagine è stata condotta tra marzo e luglio 2021 su un campione di oltre 45.000 individui dai 18 ai 74 anni e consente di approfondire consistenza, caratteristiche e modalità del lavoro tramite piattaforma.
Tali evidenze potrebbero tornare utili ove si ravviasse il processo di disciplina del lavoro tramite piattaforma, processo che, almeno per il settore del food delivery, era giunto ad una prima, seppure incerta, fase di regolazione con la l. n. 128/2019, anche nota come Decreto Rider . Una nuova fase potrebbe avviarsi, d'altro canto, ove fosse approvata la recente proposta di Direttiva diretta al “miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme” (COM(2021) 762 final).

2. Consistenza, caratteristiche e bisogni dei lavoratori delle piattaforme nell'indagine Inapp
L’indagine Inapp analizza diverse caratteristiche dei lavoratori su piattaforma: le informazioni anagrafiche e familiari; la condizione lavorativa; il livello di istruzione; i settori produttivi nei quali i lavoratori digitali sono impegnati; la forma contrattuale d’ingaggio; il giudizio sull’importanza del compenso ricavato; le modalità di pagamento e gestione dell’account; le modalità di valutazione e controllo delle loro attività lavorative e, infine, le motivazioni che hanno indotto a lavorare tramite piattaforma.
Tra il 2020 e il 2021, 2,2 milioni di italiani hanno dichiarato di aver guadagnato mediante attività svolte on line (il 5,2% del totale della popolazione italiana); 570.521 – che corrisponde al 25% di chi guadagna tramite Internet e al 1,3% della popolazione italiana tra i 18-74 anni – hanno ricavato un reddito tramite piattaforme di lavoro, mettendo a disposizione parte del proprio tempo per realizzare attività lavorative attraverso una o più Work Platform . Da un punto di vista anagrafico, per oltre i tre/quarti, i lavoratori delle piattaforme sono uomini, sette su dieci hanno una età compresa tra i 30 e i 49 anni, mentre il 45% appartiene a nuclei famigliari con figli. Per la maggior parte sono individui diplomati (45%), mentre quasi il 20% è in possesso di una laurea. Quindi, per un 65%, si tratta di persone con un livello di istruzione medio-alto.
Da qui in poi l’analisi dei dati è condotta anche considerando le due macro-tipologie di piattaforme di lavoro individuate dall’Oil . Da una parte, abbiamo esaminato le Location Based Platform (LBP), che mettono a disposizione prestazioni lavorative in luoghi geograficamente localizzabili e agiscono in settori economici tradizionali, come quello della logistica, del trasporto di beni o persone, nonché della cura e dell’assistenza a domicilio, ove pertanto la prestazione è realizzata nel mondo reale, anche se costantemente coordinata dallo strumento digitale. Dall’altra, le Web Based Platform (WBP), ove non è possibile individuare il luogo di realizzazione dell’Human Intelligence Task (HIT) assegnato e le attività consistono in prestazioni digitali anche in settori non tradizionali: oltre alla traduzione di testi, il riconoscimento di immagini, la progettazione di parti di software o algoritmi, l’individuazione di errori nei contenuti digitali; in tale contesto, l’intera prestazione lavorativa si svolge nel mondo virtuale, all’interno, cioè, del dispositivo hardware utilizzato (notebook, tablet, smartphone, ecc.).
Le attività lavorative si svolgono per il 50% nel settore della logistica (per un 36% consegna di cibo, per un 14% consegna di pacchi e prodotti), per un 9% in quello della assistenza e cura domiciliare, mentre per un 5% si riferiscono ad attività di trasporto di persone. Complessivamente, quindi, in Italia le attività lavorative realizzate nelle LBP rappresentano il 64% dell’intero lavoro digitale. Un 35% delle attività lavorative è realizzato, invece, da italiani che utilizzano WBP, quindi prestazioni svolte completamente on line, di difficile individuazione per il loro carattere estremamente atomizzato, non individuabile materialmente. Si tratta di un dato estremamente significativo, evidenziando come anche in Italia, il fenomeno del lavoro su piattaforme completamente on line sia in forte espansione, raggiungendo una quota pressoché analoga a quella, ben più nota e discussa, dei ciclo-fattorini (36%).
Di estrema importanza è anche il dato relativo alla forma contrattuale di inquadramento del rapporto di lavoro. Ben il 31% dei lavoratori su piattaforma italiani dichiara che il contratto non ha forma scritta; nelle WBP, addirittura, la quota sale al 45%, rispetto al dato delle LBP che si attesta su un 25%. Ciò, come si vedrà, avviene in contrasto con precisa disposizione legale che impone la forma scritta ad probationem a garanzia della trasparenza e della informativa relativa a diritti ed obblighi del lavoratore, ma anche per contrastare l’informalità e l’irregolarità. È evidente che, ove la prestazione si svolga per intero on line, anche per la difficoltà di individuare i soggetti obbligati e il diritto applicabile, il raggiungimento di questi obiettivi diviene particolarmente arduo.
Con riguardo alle tipologie contrattuali, il 25% dei lavoratori dichiara che il rapporto di lavoro è inquadrato come collaborazione autonoma occasionale e il dato non si differenzia tra le macrotipologie di piattaforme, 26% nelle WBP, 24,5% nelle LBP. Il 20% poi dichiara la collaborazione coordinata e continuativa; questa tipologia contrattuale risulta ben più diffusa tra i lavoratori delle piattaforme localizzate territorialmente (26% contro un 9%). Nel complesso l’11,5% dei lavoratori dichiara di essere inquadrato come lavoratore dipendente, con una prevalenza, anche qui, dei lavoratori delle LBP (12,5% contro il 9,8% delle WBP); infine circa il 12% dei lavoratori su piattaforma ha una partita IVA o altra forma di lavoro autonomo. In sostanza, come era lecito attendersi, i lavoratori delle LBP presentano relazioni lavorative più stabili e continuative (lavoro dipendente, co.co.co.). Tale dato è giustificato non solo dalla evidente maggiore visibilità di tale categoria di lavoratori, che, oltre a richiamare l’attenzione delle istituzioni e dei media, ha anche permesso dinamiche di socializzazione dei platform workers (pensiamo ai rider), consentendo di organizzare rappresentanze e rivendicazioni sindacali per migliorare le condizioni contrattuali e le modalità di organizzazione del lavoro . L’invisibilità e l’estrema atomizzazione del lavoro sulle WBP, infatti, difficilmente consente ai lavoratori coinvolti di realizzare minime forme di socializzazione e condivisione delle informazioni .
Altre indicazioni importanti ricavate dai dati PLUS si riferiscono alle dinamiche motivazionali che hanno spinto tali lavoratori ad utilizzare il lavoro tramite piattaforma.
Una rilevante spinta motivazionale può essere individuata nella centralità e importanza del compenso ricavato. In termini reddituali, infatti, i pagamenti ottenuti dalle piattaforme rappresentano una componente importante del budget familiare per il 48% degli intervistai; mentre per il 32% tali pagamenti risultano essenziali per soddisfare le esigenze di vita e i bisogni familiari; solo per un 20% questo reddito viene considerato come una entrata non essenziale. Per l’80% dei lavoratori, quindi, il reddito ricavato dal lavoro su piattaforma risulta fondamentale o indispensabile per soddisfare diverse forme di riproduzione sociale. Nel confronto, il reddito ricavato dal lavoro su piattaforma è più frequentemente essenziale per i lavoratori delle LBP (36% contro il 25% dei lavoratori delle WBP).
In riferimento alle ulteriori motivazioni che hanno spinto gli italiani al lavoro tramite piattaforma, appare interessante evidenziare che, come si accennava all’inizio, questo si caratterizza spesso come un “settore rifugio”: il 50% degli intervistati sottolinea che esso rappresenta l’unica via per accedere al mercato del lavoro e l’assenza di alternative di ingresso allo stesso; mentre solo il 12% dichiara di aver lavorato per ottenere semplicemente un reddito aggiuntivo. Le piattaforme sembrano così, anche in considerazione degli effetti della crisi pandemica, configurarsi come un importante strumento di ingresso o reingresso nel mercato del lavoro per numerosi inoccupati o disoccupati.
I dati dell’indagine Inapp offrono anche una rappresentazione delle forme di organizzazione digitale relative all’assegnazione, controllo, pagamento e valutazione di ogni singola prestazione lavorativa. In riferimento alle modalità di pagamento, i compensi sono erogati nel 34% dei casi direttamente dalla piattaforma, dal cliente finale nel 53% dei casi e per il 13% da altri soggetti. In relazione ai parametri di quantificazione dei compensi, il pagamento a cottimo per ogni incarico effettuato e quello orario presentano quote quasi equivalenti, entrambi intorno al 50%. Per una corretta analisi di tale informazione va sottolineato come i due dati, cottimo e retribuzione oraria, vadano letti in maniera integrata. Il cottimo, nel lavoro su piattaforma, non è infatti libero da orari prestabiliti, ma si realizza invece, dal momento in cui il lavoratore attiva l’account, secondo tempi e luoghi (per le sole LBP) rigidamente stabiliti dall’algoritmo . Si delinea, quindi, un cottimo orario, in cui il numero di incarichi portati a termine deve avvenire entro una precisa tempistica, pena una minore consistenza dei pagamenti, la perdita dell’assegnazione della HIT e l’attivazione di possibili ed ulteriori strumenti di valutazione della prestazione del lavoratore, che analizzeremo più avanti. In riferimento, invece alla gestione dell’account, nel 74% dei casi questo è attivato e gestito direttamente da chi effettua la prestazione lavorativa, mentre per un 26% di intervistati l’account è attivato e gestito da un altro soggetto. Questo ultimo dato, letto insieme a quello sopra riportato relativo ai casi in cui il pagamento avviene da parte di soggetti diversi dalla piattaforma o dal cliente, potrebbe nascondere potenziali rischi di caporalato digitale.
Tra le informazioni raccolte appare di interesse anche il dato relativo alla sottoposizione a test o prove valutative per accedere alle credenziali di attivazione dell’account e alla successiva assegnazione dei compiti da realizzare. Questo avviene per il 72% dei lavoratori su piattaforma ed è maggiormente ricorrente nelle LBP. Se nelle WBP i test valutativi sono richiesti per la realizzazione di prestazioni che richiedono una competenza specialistica (come traduzioni o realizzazione di software o algoritmi), nelle LBP test valutativi vengono svolti da alcune piattaforme, dopo la visione da parte dei lavoratori di video informativi.
L’indagine rileva anche, per così dire, la multi-committenza, ovverosia la presenza dei lavoratori su più piattaforme contemporaneamente. In Italia dalle informazioni ottenute si ricava, infatti, che il 47% dei lavoratori utilizza due piattaforme, l’8% più di due. In particolare, tra i lavoratori delle LBP color che effettuano consegne di prodotti o pacchi sono i soggetti che utilizzano più piattaforme, mentre quelli che si occupano di food delivery si dividono in modo equivalente tra chi utilizza una o due piattaforme. L’effetto paradossale è che, posti i diversi modelli organizzativi del lavoro adottati dalle piattaforme in questo ultimo settore (vedi infra), si può verificare nella pratica il caso di rider che prestano la propria attività lavorativa contemporaneamente per due piattaforme con inquadramento contrattuale diverso, pur svolgendo le stesse mansioni.
L’indagine getta luce anche sulle forme di controllo e valutazione del lavoro esercitate e codificate nell’algoritmo. In particolare, tre sono i parametri di valutazione della prestazione che più frequentemente sono dichiarati dai lavoratori intervistati: il numero degli incarichi portati a termine nel 59% dei casi; il giudizio dei clienti nel 42% dei casi, il tempo di esecuzione degli incarichi, dichiarato dal 15% degli intervistati. Le risposte potevano essere multiple, quindi, come già evidenziato, per la specificità del sistema di cottimo delle piattaforme, i dati relativi al tempo di esecuzione degli incarichi e al numero di questi portati a termine possono essere in parte sovrapponibili. La valutazione algoritmica rispetto ai tre indicatori su indicati determina la classifica (Ranking) e un giudizio (rating) per ciascuna lavoratore e per ogni sua singola prestazione lavorativa. Ranking e rating sono importanti perché incidenti sulla allocazione futura del tempo della prestazione (Slot) e quindi sui criteri di pagamento. L’indagine rileva, infatti, come per il 40% dei lavoratori un rating negativo può comportare una riduzione degli incarichi lavorativi più redditizi, per più del 20% un peggioramento degli orari in cui svolgere la prestazione, con l’impossibilità di loggarsi in orari di grande presenza di HIT o compiti da realizzare (per i rider, ad esempio, l’ora di pranzo o di cena), per un altro 20% può comportare una riduzione degli incarichi in generale, mentre per circa un 3% si può tradurre in un lock-in (blocco) forzato dell'accesso alla piattaforma. Spesso si tratta di una disconnessione non motivata, attivata autonomamente dall’algoritmo e le cui ragioni non sono conosciute e comunicate ai lavoratori. Si delinea così un sistema di monitoraggio, controllo e valutazione algoritmico rigido, non trasparente a cui i lavoratori possono rimediare solo sotto il controllo della stessa piattaforma. Un sistema che limita, di fatto, la libertà di scegliere tempi e modi del lavoro, poco compatibile anche con il ricorrente inquadramento nel lavoro autonomo. D’altro canto, proprio alla trasparenza, monitoraggio e verifica del cd. management algoritmico dedica particolare attenzione, come si dirà, la proposta di direttiva europea, cui si dedicherà ora attenzione, dopo aver brevemente ricostruito la disciplina italiana vigente.

3. La disciplina di tutela del lavoro tramite piattaforma in Italia: stato dell’arte e limiti
Come è noto, il più volte richiamato Decreto Rider prevede un duplice binario di regolazione, integrando e modificando il cd. codice Contratti (d.lgs. n. 81/2015, i cui articoli verranno di seguito richiamati ove non altrimenti specificato). Da una parte introduce una disciplina oggettivamente e soggettivamente limitata, dedicata cioè al solo settore economico del delivery via app, nonché ai soli lavoratori autonomi che svolgono questa attività. Dall'altra, su di un piano più generale, estende, a scapito della nozione di collaborazione coordinata (art. 409, n. 3, c.p.c.), quella di collaborazione etero-organizzata, fattispecie che, secondo il Ministero del Lavoro, doveva costituire “l’ipotesi attrattiva prevalente di disciplina dell’attività dei rider” (così la Circolare n. 17 del 19 novembre 2020).
Il primo binario consiste in un apparato di “livelli minimi di tutela” applicabile ai “prestatori occupati con rapporti di lavoro non subordinato, impiegati nelle attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore (…) attraverso piattaforme anche digitali”.
Senza cedere alla retorica del benaltrismo, non può non essere rimarcato, anche sulla base dei dati analizzati nel precedente paragrafo, il rilievo specifico di questo zoccolo duro di tutele. In effetti, informalità dei rapporti giuridici sottesi, essenzialità del compenso nel bilancio familiare e pratiche discriminatorie, rappresentano, come si è visto, ancora questioni aperte. Proprio rispetto a queste cercavano di porre rimedio, rispettivamente, gli artt. 47ter (“Forma contrattuale e informazioni”), 47quater (“Compenso”), 47quinquies (“Divieto di discriminazione”) del novellato d.lgs. n. 81/2015. Di analogo rilievo è la previsione a mente della quale “comunque”, e cioè al di là del nomen iuris prescelto dalle parti, i rider sono obbligatoriamente assicurati contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e che il committente è anche tenuto ad applicare le norme in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (art. 47septies) (sullo specifico punto si veda la Circolare INL n. 7/2020). Come è noto, proprio tale disciplina legislativa ha ricevuto un primo – e positivo – test giudiziario proprio in coincidenza con l'inizio della pandemia . La vicenda è significativa perché, in sostanza, finisce per qualificare la disciplina in materia di salute e sicurezza come una tutela universalistica, che cioè prescinde dalla natura del rapporto di lavoro (subordinato o autonomo), secondo un approccio da molti suggerito e che probabilmente dovrebbe essere esteso anche ad altri istituti di protezione del lavoro . Da questo ultimo punto di vista, il Legislatore italiano – diversamente da altri (ad es. la Francia) – non compendia, tra i “livelli minimi”, i diritti sindacali. La questione dell’estensione di questi diritti oltre il lavoro subordinato, d’altro canto, è al centro di un’altra iniziativa europea (C/2021/8838 final) diretta a dissipare la questione della compatibilità della contrattazione collettiva avente oggetto il lavoro non subordinato e la disciplina a tutela della concorrenza a livello europeo . Probabilmente sul punto sarebbe necessaria una rimeditazione sul fronte del diritto interno, che vada oltre lo specifico settore dei rider, ma estesa, appunto, a tutto il lavoro autonomo .
L’esame del primo binario di disciplina, in sostanza, suggerisce che il Legislatore del 2019 aveva saputo cogliere alcune delle questioni che l’analisi sociologica, unitamente all’evidenza empirica, coglie come preminenti. Peraltro, posta l’accelerazione tecnologica indotta dalla normativa sul distanziamento fisico, si ritiene che dovrebbe essere rimeditato, in particolare, il limite settoriale delle tutele. Le evidenze dell'indagine Inapp relative allo scorso anno (vedi supra) mostrano, infatti, che, non solo il lavoro in favore delle Location-based Platform è oramai composito (trasporto merci, ma anche servizi domestici), ma soprattutto che si sta diffondendo anche quello in favore di piattaforme web-based e cioè prive del vincolo di prossimità fisica nella fase di esecuzione della prestazione lavorativa.
Accanto ai “livelli minimi di tutela” appena ricordati, l’ulteriore – e apparentemente principale – binario di protezione individuato dal Decreto Rider consisteva nella estensione delle tutele previste per il lavoro subordinato all’intero lavoro autonomo etero-organizzato, anche attraverso la chirurgica modifica dell’art. 2, co. 1 del d.lgs.81/2015. Senza soffermarsi sul cortocircuito sistematico suscitato, rispetto alla fattispecie di cui a quest’ultimo articolo, dalla definizione di “piattaforma digitali” (art. 47bis, 2° co.) , rimane che nel settore del food delivery non si è verificato, nonostante la vis atractiva del lavoro etero-organizzato, l'approdo, inevitabile e sicuro, verso la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
Come è noto, infatti, ab origine tale approdo poteva essere traghettato dalla fonte collettiva, in ragione di particolari esigenze produttive ed organizzative settoriali (art. 2, 2 co. lett. a). Si aggiunga che, a corroborare la delega affidata alla contrattazione collettiva sub species lavoro autonomo etero-organizzato, è successivamente intervenuto il già richiamato art. 47quater. Questo, rinverdendo una tecnica legislativa già sperimentata dalla cd. Riforma Fornero (l. n. 92/2012) per il lavoro a progetto , affidava all’accordo collettivo un ruolo suppletivo da esercitarsi rispetto ai “criteri di determinazione del compenso” proprio nello specifico settore del delivery via app. Allo scopo, la disciplina legale del compenso era difatti ad efficacia differita, proprio per pungolare la negoziazione collettiva.
Ebbene, l’accordo settoriale tra Assodelivery e Ugl del 15 settembre 2020 ha fatto proprie le due deleghe affidate dalla legge alla contrattazione collettiva, così dettando una disciplina che, allo stesso tempo, sottrae il lavoro autonomo etero-organizzato all’apparato di tutela del lavoro subordinato, nonché deroga alla disciplina legale in materia di compenso.
Nonostante l’accordo rappresenti uno degli esiti principali, ma forse inattesi, del Decreto Rider, la sua stabilità è tuttora discussa in ambito sindacale e giudiziario , poiché è contestata la legittimazione degli agenti negoziali che l’hanno sottoscritto e quindi anche la sua efficacia ultra vires.
Come anticipato, questa incertezza potrebbe indurre il Legislatore ad intervenire nuovamente in materia, posto che, nel frattempo, è stato anche approvata la proposta di Direttiva ricordata all’inizio; peraltro, il campo di applicazione di quest'ultima non subisce limitazioni settoriali, ma disciplina il miglioramento delle condizioni lavorative di tutto il “lavoro mediante piattaforme digitali”. La proposta, inoltre, ha contenuti parzialmente inediti rispetto alla legislazione italiana: non si occupa, difatti, solo di assicurare la corretta qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, ma soprattutto e giustamente di “garantire l'equità, la trasparenza e la responsabilità” del cd. Algorithmic management , nonché di “accrescere la trasparenza, la tracciabilità” di questo mercato del lavoro. Questi ultimi due obiettivi, se dovessero permanere nel testo definitivo, implicherebbero, pertanto, un necessario sforzo aggiuntivo in sede recepimento .
Chiaramente al centro anche della proposta vi è il primo obiettivo, e cioè la questione qualificatoria, in quanto, anche a livello continentale, rappresenta il presupposto per l’applicazione del regime forte di protezione del lavoro. Da questo punto di vista, il meccanismo ivi prescelto, una presunzione iuris tantum basata sulla positivizzazione di indici ricavati dalla giurisprudenza, non rappresenta certo una novità nella lotta al falso lavoro autonomo, neanche per l’ordinamento italiano . In realtà, autorevole dottrina da tempo segnala che l’utilizzazione di tale tecnica è caratteristica diffusa in tutti paesi europei ed è stata manifestazione del tentativo, in primo luogo dei giudici, di estendere il campo di applicazione del diritto del lavoro .
La debolezza intrinseca di questa tipologia di meccanismi è che, una volta cristallizzato nella legge l’indice presuntivo, nella prassi commerciale questo possa essere obliterato, proprio al fine di sfuggire, in sede giudiziale, all’inversione dell’onere della prova . D’altro canto, secondo uno dei principali documenti preparatori che accompagna la proposta di direttiva, questa opzione di politica del diritto, rispetto ad altre comunque valutate, è preferibile perché accompagnata da un più forte “effetto segnale”: l’incremento atteso nel breve-medio periodo della litigiosità dovrebbe indurre le piattaforme a modificare lo status occupazionale dei propri lavoratori al fine di evitare il contenzioso e acquisire una buona reputazione nell’opinione pubblica; una volta che il mercato si sarà equilibrato, la stessa litigiosità si ridurrà.
Comunque, se, in effetti, in Italia si verificherà questo ritorno al passato – basandosi, anche, su quanto accaduto nelle precedenti fasi evolutive di contrasto al falso lavoro autonomo in Italia – la rete di protezione universale acquisirà un rilievo ancor più pregnante. D'altro canto, nella proposta le norme sulla gestione algoritmica sono, appunto, universali, e si applicano nella quasi totalità al di là della qualificazione giuridica del rapporto ; come, del resto, vanno colti e sviluppati gli spunti all'interno della stessa proposta che qualificano, ancora una volta universalmente, il ruolo dei rappresentanti dei lavoratori .

4. Brevi conclusioni

In conclusione, dall’indagine Plus sembra emergere il divario del lavoro su piattaforma in Italia rispetto all’ideale della sharing economy, una sorta di iperuranio, di economia digitale caratterizzata da un lavoro libero, creativo, tra pari, senza alcun fattore umano o tecnologico determinante controllo, tempi e valutazioni della prestazione effettuata. Nel momento in cui ci si registra nella piattaforma, attivando l’account, il lavoro appare fortemente organizzato e scomposto in precise fasi, controllato e valutato mediante un costante sistema di rating algoritmico, un monitoraggio e una valutazione cui partecipa anche il cliente finale. Lo spazio e il tempo di lavoro, così, seppur frammentati rimangono centrali nella determinazione della prestazione lavorativa , sicché la cesura che il mondo delle piattaforme dichiarava rispetto alla rigidità del modello di lavoro taylorista appare dissolversi. La macchina algoritmica può organizzazione, controllare e valutare migliaia di prestazioni lavorative svolte in tempi e luoghi differenziati riportando ogni singola fase dell’attività lavorativa a quanto richiesto centralmente, applicando autonomamente le informazioni inserite nel suo codice matematico. Il tutto avviene senza nessun elemento di internalizzazione dei luoghi di lavoro e con una radicale atomizzazione dei lavoratori coinvolti. Un processo di controllo e valutazione lavorativa estremamente pervasivo, ma non concordato; un sistema organizzativo algoritmico del lavoro in grado di garantire una velocità delle informazioni e una scalabilità della forza lavoro senza precedenti, realizzando una sorta di streaming della prestazione lavorativa , capace di estrarre il valore da ogni singola attività lavorativa senza preoccuparsi, in termini salariali, delle condizioni e delle forme di sussistenza future della forza lavoro, perché istantaneamente sostituita.
Tale radicale innovazione del concetto organizzativo del lavoro necessita evidentemente di un nuovo quadro di principi e regole anche di carattere sovranazionale. Un nuovo framework regolatorio capace di riorientare questo incessante avanzamento dell’automazione digitale applicata alla produzione e al lavoro verso nuove opportunità per tutti, piattaforme, lavoratori, clienti, società, evitando potenziali rischi di abuso nei soggetti lavorativi economicamente fragili, marginalizzati dal sistema ordinario di protezione sociale.
In questo contesto, particolare rilievo assume la proposta di direttiva più volte richiamata, che andrebbe letta insieme ad altre importanti iniziative europee: ci si riferisce non solo alla proposta relativa a salari minimi adeguati (COM(2020) 682), ma anche alla Raccomandazione dell’8 novembre 2019 sull’accesso alla protezione sociale per i lavoratori subordinati e autonomi.

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