testo integrale con note e bibliografia
1. I termini della questione.
Come è noto, la questione della conoscenza o conoscibilità dello status di disabilità del lavoratore è un tema che ha assunto un notevole rilievo negli ultimi anni sia in merito al dibattito sul calcolo del periodo di comporto delle assenze per patologie riconducibili alla condizione di disabilità del lavoratore (assenze da scomputare o calcolare diversamente) nonché in riferimento all’obbligo da parte del datore di lavoro di adottare accomodamenti ragionevoli per garantire, al lavoratore con disabilità, un’effettiva partecipazione alla vita professionale in parità con gli altri lavoratori. La domanda è se il datore di lavoro sia tenuto ad adempiere a tali obblighi a prescindere dal fatto che sia a conoscenza o in grado di conoscere lo status di disabilità del proprio dipendente.
L’economia del presente contributo non consente di sviluppare le tematiche suddette , qui è sufficiente evidenziare che a partire dalla sentenza capostipite, la n. 9095 del 31 marzo 2023, si è imposto un orientamento secondo il quale costituisce discriminazione indiretta, ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. b) della Direttiva 2000/78/CE, applicare il medesimo periodo di comporto dei lavoratori non disabili ai lavoratori con disabilità, in quanto quest’ultimi sarebbero statisticamente più esposti al rischio di maggiore morbilità, in quanto buona parte delle loro assenze potrebbero proprio essere conseguenti a malattie connesse allo stato di disabilità. Il che trasmuta il criterio, apparentemente neutro, dell’identico comporto in una prassi discriminatoria nei confronti di soggetti in posizione di particolare svantaggio. E ancora, il datore di lavoro è tenuto ad attuare tutte le misure organizzative ragionevolmente possibili per consentire alla persona con disabilità di mantenere l’occupazione, senza comportare oneri eccessivi per la parte datoriale (ex art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216/2003 e, da ultimo, art. 17 del d.lgs. n. 62/2024) .
Il problema si è posto in riferimento alla nozione euro-unitaria di disabilità offerta dall’art. 1 della Convenzione ONU sui diritti con le persone con disabilità (ratificata e resa esecutiva con la legge n. 18 del 2009), secondo cui la disabilità è «una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori». Una definizione mutevole e in evoluzione che, grazie all’interpretazione della Corte di Giustizia alla luce del modello bio-psicosociale dal contenuto relativo o “relazionale”, tende a ricomprendere qualsiasi condizione patologica di lunga durata che comporti una limitazione alla vita socio-professionale del lavoratore che ne è affetto. Nozione che assume rilevanza propria, al di là dell’accertamento preventivo nelle sedi competenti.
La questione centrale risiede proprio nel fatto che, secondo i giudici, in linea con tale ampia nozione europea, non sia necessario che la disabilità sia accertata e certificata ex ante nelle sedi competenti, ai sensi della l. 104/1992 o della l. 68/1999 (come modificate dal d.lgs. n. 62 del 2024), potendo essere acclarata anche in sede giudiziale.
Tuttavia, il d.lgs. n. 62 del 2024, nel recepire la definizione di disabilità euro-unitaria, ha riformato anche la valutazione della disabilità. Infatti, all’art. 2, comma 1, lett. a), non prescinde dall’accertamento “preventivo” di tale condizione, prevedendo una procedura di certificazione. Certificazione che si svolge attraverso un duplice procedimento di valutazione: il primo attraverso una “valutazione di base” attivabile tramite un certificato medico introduttivo cui seguirà un “procedimento di valutazione multidimensionale”, basato sul modello bio-psico-sociale, in collaborazione con la stessa persona con disabilità, finalizzato alla predisposizione del progetto di vita per l’inclusione.
Ciò nonostante, nelle more di una normativa che è entrata in vigore in via sperimentale da gennaio di quest’anno e la cui piena attuazione su tutto il territorio nazionale è stata posticipata a gennaio 2027, la giurisprudenza, tende ad aderire al modello della c.d. constructive knowledge. Ossia, assumendo che il datore di lavoro avrebbe potuto essere edotto dello status di disabilità del proprio dipendente con l’ordinaria diligenza, ritiene che tale condizione possa essere riconosciuta anche ex post, attraverso la documentazione o le certificazioni mediche prodotte dal lavoratore in sede giudiziale, comprensive di quelle con la diagnosi della patologia che, in rispetto della normativa sulla privacy, non sono state portate a conoscenza del datore di lavoro durante il rapporto di lavoro.
Una tale impostazione investe, come si dirà innanzi, profili rilevanti per le sue ricadute sulla corretta gestione del rapporto di lavoro e il conseguente rischio per il datore di lavoro di venir sanzionato con una tutela reale “piena” per licenziamento discriminatorio.
2. Conoscenza e conoscibilità dello status di disabilità ai fini della corretta gestione del rapporto di lavoro.
In considerazione di quanto sinteticamente premesso, la questione della conoscenza o conoscibilità da parte del datore della condizione di disabilità, nel senso ampio su accennato, di un suo dipendente è al centro di un animato dibattito in quanto rappresenta la conditio di un facere del datore di lavoro: ossia, un corretto computo delle assenze per malattia, ai fini del periodo di comporto, e l’adempimento dell’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli.
Per quanto attiene al calcolo del periodo di comporto, non è questa la sede per soffermarsi sul fatto che non ogni disabilità sottende una patologia cronica che comporti una maggiore morbilità (tale da accedere ad un periodo di comporto prolungato), prendendo comunque atto del recente arresto giurisprudenziale che invita la contrattazione collettiva a prevedere esplicitamente un comporto “speciale” collegato all’aspetto soggettivo della disabilità tout court - in quanto i giudici non ritengono sufficiente ad elidere il rischio di trattamenti discriminatori una disciplina negoziale che tenga conto solo del profilo oggettivo dell'astratta gravità o particolarità delle patologie - il problema dell’individuazione di tale condizione impone di operare dei distinguo.
Come è noto, la discriminazione opera in modo oggettivo in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore per il lavoratore con disabilità, non rilevando l’intento soggettivo di colui che pone in essere la discriminazione. Tuttavia, se correttamente si esclude l’animus nocendi, non si può prescindere dal fatto che il datore di lavoro sia o meno a conoscenza della condizione di disabilità di un suo dipendente , in quanto la conoscenza rappresenta un elemento di natura oggettiva, presupposto necessario della condotta stessa . Pertanto, prima di imputare al datore di lavoro una sorta responsabilità oggettiva, esclusa dalla giurisprudenza , per una condotta “inconsapevole” in quanto legata ad una condizione che non sempre è nota ex ante, appare necessario distinguere due ipotesi di disabilità: un conto è la disabilità originaria certificata, altro la disabilità “di fatto” sopravvenuta .
Nel primo caso, in cui la disabilità è accertata e di conseguenza certificata nelle sedi competenti, il modello della c.d. constructive knowledge è di ragionevole applicazione in quanto si può “presupporre” la conoscenza da parte del datore di lavoro di tale status in quanto il lavoratore o è stato assunto ai sensi della l. n. 68/1999 oppure ha acquisito, nel corso del rapporto, la certificazione ex l. n. 104/1992 (come modificati dal d.lgs. n. 62/2024). E’ quindi legittimo presumere in tali casi che il datore di lavoro abbia colpevolmente ignorato la disabilità del proprio dipendente. Sebbene, in caso di disabilità acquisita nel corso del rapporto di lavoro, sia interesse del lavoratore comunicare la relativa documentazione al proprio datore di lavoro per godere di tutti i diritti ad essa connessi.
Inoltre, in caso di assenza per malattia collegata allo status di disabilità, il D.M. 18 aprile 2012 prevede la possibilità, nell’attestato di malattia diretto al datore di lavoro, di barrare la casella relativa allo “stato patologico sotteso o connesso alla situazione di invalidità riconosciuta,” è quindi onere del medico curante che redige il certificato di malattia a seguito della visita medica, collegare l’assenza a tale evento in presenza di un nesso causale che solo lui può accertare, barrando appunto la suddetta casella. In tale quadro, il datore di lavoro avrebbe le informazioni necessarie per una corretta gestione del rapporto, senza esimenti.
Nel caso di disabilità “di fatto” o occulta, sopravvenuta nel corso del rapporto di lavoro, spesso riconducibile a patologie croniche che comportino una minorazione psicofisica idonea a ostacolare la sua partecipazione in condizioni di parità alla vita professionale, la questione si complica e pone invece un problema di conoscibilità di tale condizione secondo l’ordinaria diligenza che deve essere bilanciata con la tutela della privacy del lavoratore .
A ben vedere, nell’attestato di malattia diretto al datore di lavoro viene generalmente indicata solo la prognosi, mentre la diagnosi è specificata nel certificato medico diretto all’Inps. Se il datore di lavoro disponesse di un certificato medico con la diagnosi della patologia del proprio dipendente, sarebbe in grado di effettuare un calcolo corretto delle assenze per malattia. Orientamento, tra l’altro, già applicato a determinati fini , nella Pubblica Amministrazione dove per conseguire dei benefici ad hoc, la Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 2 del 28/09/2010 rileva che “esistono però alcune situazioni particolari in cui il datore ha necessità di conoscere la diagnosi". In queste situazioni l’amministrazione è tenuta ad applicare il regime generale a meno che non abbia la documentazione che consenta di derogarvi ed è innanzitutto interesse del dipendente che si assenta che l’amministrazione abbia tutti gli atti necessari per applicare in maniera corretta la normativa di riferimento.
Tuttavia, come è noto, le informazioni sullo stato di malattia rientrano nelle “particolari categorie” di dati personali relativi alla salute (ex dati “sensibili”), ex art. 9 del Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) , il cui trattamento è oggetto di divieto posto dal paragrafo 1 del citato art. 9 del GDPR, salvo, tra le altre ipotesi, che l’interessato non abbia prestato il proprio consenso esplicito al trattamento per una o più finalità specifiche.
Inoltre, in tema di malattia, le indicazioni del Garante per la Privacy sono chiare: “gli organismi sanitari devono mettere in atto specifiche procedure dirette a prevenire nei confronti di estranei un’esplicita correlazione tra l’interessato e reparti o strutture, indicativa dell’esistenza di un particolare stato di salute”, cautele che “devono essere orientate anche alle eventuali certificazioni richieste per fini amministrativi non correlati a quelli di cura (ad es. per giustificare un’assenza dal lavoro...)”. Ribadisce, inoltre, l’obbligatoria assenza di qualsiasi informazione (diagnosi, indicazioni di visite specialistiche, struttura presso la quale è stata erogata la prestazione, timbro con la specializzazione del sanitario) che possa far risalire allo stato di salute dell’interessato.
Ciò trova riscontro anche nell’orientamento della Cassazione (31 ottobre 2018, n. 2367) in riferimento alla visita medica di controllo disposta dall’Inps. Infatti, “l’interpretazione delle norme preposte alla tutela della riservatezza, con particolare riferimento ai dati sensibili quali certamente sono quelli concernenti le condizioni di salute del dipendente malato, induce a ritenere che il datore di lavoro debba essere a conoscenza soltanto della conferma della prognosi da parte del medico fiscale e che, dunque, qualsiasi indicazione – anche concernente le visite specialistiche prescritte – dalla quale possa essere desunta la diagnosi, debba ritenersi contrastante con la normativa sulla tutela della privacy”.
Risulta evidente che il datore di lavoro non sia nelle condizioni di essere a conoscenza della malattia causa dell’assenza del lavoratore, trovandosi quindi esposto al rischio di vedersi “convertire” un licenziamento per superamento del comporto in un licenziamento discriminatorio con conseguente nullità e applicazione del primo comma dell’art. 18 St. Lav. (nella versione aggiornata dalla l. 92/2012) nonché dell’art. 2 del d.lgs n. 23/2015.
Per ovviare a tale rischio, come è stato condivisibilmente affermato , basterebbe che il medico curante indicasse nell’attestato di malattia, col consenso del lavoratore, che si tratti genericamente di “malattia connessa a disabilità”, senza necessità di diagnosi, così da rispettare la privacy del lavoratore in ordine alla patologia specifica di cui è affetto e consentire, allo stesso tempo, al datore di lavoro una corretta gestione delle assenze ai fini del calcolo del periodo di comporto. Indicazione che potrà essere poi confermata in sede di visita di controllo del medico fiscale.
Anche per quanto attiene all’adempimento dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli si pone la stessa questione, soprattutto, ancora una volta, quando si tratti di disabilità occulta o “di fatto”, non preventivamente accertata e certificata.
I giudici, in un primo momento, hanno riconosciuto un onere di comunicazione in capo al lavoratore , in seguito hanno affermato che il datore di lavoro può avere contezza della disabilità con l’ordinaria diligenza attraverso la sorveglianza sanitaria ex art. 41 del d.lgs. n. 81/2008 ovvero desumendola attraverso le certificazioni mediche e/o documentazione inviate dal dipendente in quanto sintomatiche di un particolare stato di salute costituente una situazione di handicap.
Per quanto attiene alla sorveglianza sanitaria (ex art. 41 d.lgs. n. 81/2008 come modificato dalla legge n. 203/2024) , a ben vedere si rivela uno strumento senz’altro utile, in particolare la visita medica precedente alla ripresa del lavoro a seguito di un’assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni (ora “obbligatoria” nella misura in cui il medico competente la riterrà necessaria). Tuttavia, tale assenza può essere considerata un “sintomo” rivelatore della sussistenza di una malattia di lunga durata ma non anche di disabilità, posto che non ogni patologia duratura implica lo status di disabilità , e sarà quindi onere del medico competente il suo accertamento e la successiva comunicazione al datore di lavoro.
Infine, in riferimento alla documentazione inviata dal dipendente, se si tiene conto della suddetta normativa in tema di privacy e di quanto espresso dal Garante per la Privacy , per il datore di lavoro desumere lo stato di salute del proprio dipendente attraverso le certificazioni mediche o dalla documentazione inviata dal lavoratore si rivela “impossibile”. Considerazione già sollevata dal Tribunale di Ravenna, con l’ordinanza di rinvio alla Corte di giustizia dell’UE 2023/732 del 4.1.23 ( ), in cui ha evidenziato che, per la normativa sulla privacy, il datore di lavoro è nell’impossibilità di distinguere le assenze causate da malattia comune da quelle dovute a patologie croniche invalidanti.
Infatti, come già evidenziato, nell’attestato di malattia è ammessa solo la prognosi e non deve essere indicata alcuna informazione (diagnosi, indicazioni di visite specialistiche, struttura presso la quale è stata erogata la prestazione, timbro con la specializzazione del sanitario) che possa far risalire allo stato di salute dell’interessato, salvo che non sia il medico curante ad indicare nell’attestato di malattia la connessione tra patologia e disabilità.
E pertanto, come sostenuto nell’ultimo arresto della Cassazione , se si attribuisce in capo al datore di lavoro un “onere di attivazione”, prima di procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto, al fine di acquisire “ulteriori informazioni” (direttamente) dal lavoratore circa l’eventualità che le sue assenze per malattia siano correlate ad uno status di disabilità , sembra opportuno che il lavoratore abbia non solo un mero comportamento “non ostruzionistico” ma un “dovere di collaborazione”. In altri termini, per un equo contemperamento degli interessi coinvolti, alla richiesta del datore di lavoro di informazioni deve corrispondere comportamento proattivo del lavoratore teso a rendere disponibile la documentazione necessaria che attesti o la sua disabilità (qualora già certificata) o la connessione (il nesso causale) tra la sua patologia cronica e la condizione di disabilità.
La partecipazione attiva del lavoratore, in particolare per quanto riguarda gli accomodamenti ragionevoli, è in linea con quanto previsto dall’art. 17 del d.lgs. n. 62/2024. Infatti, tale articolo stabilisce la facoltà per la persona con disabilità di richiedere, con apposita istanza scritta, l’adozione di un accomodamento ragionevole, anche formulando una proposta e partecipando al procedimento dell’individuazione dello stesso. Pare evidente, quindi, che il dialogo, l’“interlocuzione e il confronto tra le parti” siano dei presupposti essenziali ed ineludibili per una corretta gestione del rapporto di lavoro.
3. Conoscenza ed effettività delle tutele.
Alla luce delle considerazioni che precedono, negare la rilevanza della conoscenza o conoscibilità della condizione di disabilità da parte del datore di lavoro, comporta il venir meno dell’effettiva realizzazione del principio della parità di trattamento che impone, innanzitutto, l’adozione di azioni positive ad essa funzionali, in quanto la tutela viene per lo più garantita solo ex post al termine del contenzioso giudiziale, a “discriminazione” avvenuta, spogliando così il datore di lavoro dal suo ruolo di soggetto attivo e positivo della parità di trattamento.
In una situazione ancora in via di definizione, in attesa della piena attuazione del procedimento di valutazione multidimensionale previsto dal d.lgs. n. 64/2024, la sorveglianza sanitaria ex art. 41 del d.lgs. n. 81/2008 può essere un valido strumento a disposizione del datore di lavoro per essere a conoscenza dello stato di salute dei propri dipendenti. In particolare, all’eventuale ma opportuna visita medica al rientro da un’assenza per motivi di salute superiore ai 60 giorni consecutivi, vanno affiancate delle visite mediche periodiche di controllo che consentano al datore di lavoro di monitorare con regolarità lo stato di salute generale dei propri dipendenti e venire così a conoscenza del sopraggiungere di eventuali disabilità tempestivamente.
In tale ambito, anche il ruolo del medico competente andrebbe ridefinito, in quanto la sua valutazione non dovrà essere più una verifica strettamente medica delle condizioni di salute del lavoratore in riferimento ai rischi derivanti dalle mansioni affidate ma, in base al concetto di disabilità bio-psico-sociale, dovrà valutarle in generale, tenendo conto dell’interazione persona-ambiente e di tutte le componenti del funzionamento della persona, da quelle fisiche a quelle psicologiche e sociali. In quest’ottica, sarebbe auspicabile una “collaborazione sinergica” con la figura del Disability manager, di cui è stata promossa l’istituzione all’art. 1 punto e) del d.lgs. n. 151 del 2015, in quanto responsabile del processo di inserimento delle persone con disabilità nei luoghi di lavoro, il cui ruolo si rivela importante anche per l’individuazione delle soluzioni ottimali di inclusione lavorativa attraverso l’individuazione degli accomodamenti ragionevoli, da valutare caso per caso.
Risulta, inoltre, indicato ridefinire le competenze del medico curante, titolato a rilasciare l’attestato di malattia giustificativo dell’assenza del lavoratore, affinché si assuma l’onere di segnalare le assenze di malattia connesse con lo stato di disabilità, così da mettere il datore di lavoro in condizione di conteggiare in modo corretto il periodo di comporto, come disciplinato dai contratti collettivi, nonché di applicare gli accomodamenti ragionevoli necessari.
Per concludere, in questa fase di transizione, si dimostra centrale l’onere di cooperazione e di informazione tra datore di lavoro e lavoratori con disabilità, un necessario dialogo tra le parti riletto nel prisma delle clausole generali di correttezza e buona fede” .
In termini di certezza del diritto, la disabilità è nota quando sia stata accertata e valutata nella sede competente (sarà infatti affidata in via esclusiva all’Inps dal 1 gennaio 2027, ex L. 104 del 1992 e L. n. 68 del 1999, come modificate dal d.lgs. n. 62 del 2024) e comunicata al datore di lavoro. E pertanto, le rilevanti problematiche evidenziate, che stanno creando una serie di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, saranno superate dal momento che troverà applicazione in via definitiva la nuova valutazione multidimensionale della disabilità, prevista nel d.lgs. n. 62/2024, che libererà così il datore di lavoro da ulteriori oneri di conoscibilità, che lo espongono a gravi sanzioni, consentendogli un agire positivo, organizzato ed informato.