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1) Professore, dopo il “secondo biennio rosso” del 1968-69, il diritto del lavoro italiano è cresciuto fino ad acquisire la propria compiuta maturità, dapprima con lo Statuto dei lavoratori (1970) e poi con la riforma del processo (1973). Quale ruolo ebbe il clima che si respirava alla vigilia dello Statuto nella predilezione per gli studi giuslavoristici?

E’ indubbio che la temperie culturale e sociale che fece da sfondo e da alimento allo Statuto dei lavoratori influì molto sul mio interesse originario per il Diritto del lavoro. Nel 1970 ero laureato da soli 3 anni e fui suggestionato da quella legge – partorita dall’elite della accademia italiana del Diritto del lavoro sotto la regia di Gino Giugni – che riusciva a mediare tra gli ardori del ’68 e un garantismo per l’epoca molto avanzato, che tuttavia rispettava l’essenza dell’impresa. Ed infatti legittimava i poteri direttivo, disciplinare e di recesso del datore di lavoro, ma circondandoli con penetranti limiti interni ed esterni a tutela di interessi e valori sacrificati negli anni del “miracolo economico”. Anche l’operazione di rilancio della presenza del sindacato in azienda mediante una riuscita istituzionalizzazione dello spontaneismo operaio fu operazione di rara, quanto opportuna sagacia.

Per un giovane laureato con tesi in Diritto del lavoro quell’originale ordito normativo e il dibattito di politica del diritto che l’accompagnò non poteva non esercitare un grande fascino intellettuale

2) Gli anni a cavallo del 1970 costituirono, per molte ragioni, una stagione di legami e amicizie dense e, in qualche caso, durature, al crocevia tra dimensione personale, professionale, politica, culturale…. Ha stretto e conservato alcuni di questi legami che considera preziosi per lo sviluppo della sua biografia intellettuale?

Mi piace ricordare, tra le altre, due storie di amicizia nate in ambiente universitario in quegli anni. Dapprima l’incontro con Mario Rusciano, allora già assistente ordinario, che guidò i miei primi passi nel contesto accademico e fu particolarmente significativo per la mia crescita culturale. I nostri dialoghi nel Dipartimento di Diritto del lavoro e nelle lunghe serate napoletane erano costellati da intensi confronti sul clima politico e sociale di quegli anni e sulla evoluzione della nostra materia. Solo qualche anno dopo conobbi, sempre in Università, Arturo Maresca con il quale si creò una straordinaria sintonìa amicale e presto un sodalizio anche professionale. Lo Studio che velleitariamente aprimmo in Roma insieme ad altri amici, tra i quali l’indimenticabile Massimo D’Antona, in sostanziale assenza di clientela, serviva soprattutto a creare piacevoli occasioni di incontro e di confronto.

Ne nacque con entrambi una amicizia profonda che resiste intatta al volger di tanti decenni. Mario e Arturo sono sempre rimasti miei grandi amici….benché colleghi.

3) Nelle interviste che alcuni grandi maestri hanno rilasciato sulle pagine virtuali di questa Rivista viene sempre sottolineata la grande importanza delle scuole di appartenenza nella formazione e nella crescita scientifica e accademica di ciascuno.

Lei è un giuslavorista di scuola napoletana, ha avuto il privilegio di formarsi accanto a Renato Scognamiglio e a Luciano Spagnuolo Vigorita ed ha insegnato nella più prestigiosa università del sud Italia, la Federico II, per 33 anni (1982-2015). Eppure ho sempre avuto l’impressione che ci fosse, in Lei, una sorta di anomalia, quasi che il senso di appartenenza a una scuola non contasse più di quanto abbiano contato le affinità elettive guadagnate nel tempo, sia in Italia che all’estero. Mi sbaglio?

Confermo che è stato per me un privilegio avere avuto Maestri come Renato Scognamiglio e Luciano Spagnuolo Vigorita, dai quali ho appreso, quasi per osmosi inavvertita, modi di pensare, forme espressive, metodo scientifico e, forse, financo gestualità. Inoltre invidiabile chance è stata quella di riuscire a infrangere la barriera di due personalità in apparenza fredde e austere fino a godere di una loro frequentazione anche in ambiti extra accademici.

E’ però vero che, oltrepassando il perimetro della Scuola napoletana, ho avuto la piacevole possibilità di “imparare” anche da altri Maestri  e di avere frequentazioni con numerosi colleghi di Scuole diverse, con i quali ho  intessuto ben presto rapporti scientifici ed anche amicali. In particolare è stato importante il mio rapporto con Gino Giugni che, a partire da un incarico di insegnamento conferitomi dall’Università di Bari nel 1973, mi ha poi coinvolto nei lavori di Commissioni ministeriali di grande respiro e per me altamente formative nonché in importanti  iniziative scientifiche (ad esempio il primo Commentario allo Statuto dei lavoratori e un libro sulle nuove tecnologie e il potere di controllo).

Di Gino Giugni ricordo, oltre alle capacità che tutti conoscono, la  genialità che gli consentiva di pervenire a mediazioni politiche e sociali oltremodo difficili e una incredibile ironia che si esprimeva financo nelle occasioni più delicate e paludate e che rendeva la sua compagnia estremamente divertente. Ricordo che, in occasione della presentazione di un suo libro fatta da me con abbondanza di toni enfatici ed elogiativi, Gino mi prese in giro dicendo di aver avuto il privilegio di ascoltare la sua “commemorazione in vita”…; altra volta nel corso di una intensa riunione a Palazzo Chigi con i vertici sindacali e confindustriali mi inviò sotto banco bigliettini contenenti commenti e parodie su tutti coloro che prendevano la parola.

Tra i colleghi stranieri ho mantenuto un rapporto di affetto e di collaborazione con Antoine Lyon Caen, originato in occasione della mia attività di “Professore invitato” di Diritto comparato del lavoro nella Università di Parigi Nanterre.

4) Credo sia doveroso formulare ora una domanda scontata ma ineludibile, attinente alla scelta del tema della sua prima opera monografica del 1976, posto che si tratta, ancora oggi, di un testo la cui lettura è considerata obbligatoria per qualunque giuslavorista.

So che dirà di aver sempre privilegiato argomenti tecnici, ma sappiamo entrambi che uno studio sulla norma inderogabile si prestava – si è prestato e, forse, ancora si presta – a ragionamenti e riflessioni sulla funzione stessa del diritto del lavoro.

Vorrei sentirla parlare di quella scelta e sarei curioso di sapere se ritiene ancora valida, e in che misura, la riflessione sviluppata allora attorno a una tecnica di tutela che è stata posta, ripetutamente, sul banco degli imputati.

 

La inderogabilità della normativa giuslavoristica  (legge e contrattazione collettiva) costituisce, a mio avviso, un profilo indefettibile della materia: può essere delimitata poco o molto, ma ne resta un carattere identitario, almeno fino a quando il rapporto di lavoro resterà caratterizzato dall’esercizio di un duplice potere da parte del datore di lavoro, un potere di fatto  in ragione dello strutturale squilibrio socio-economico tra le parti, ma anche giuridico in quanto legittimato dall’ordinamento con il riconoscimento di specifiche facoltà di supremazia. La propensione crescente per i temi delle capabilities individuali presente in alcuni studiosi, non attenua questa mia convinzione.

Quanto  all’approccio multidisciplinare confermo la mia predilezione per argomenti tecnici rispetto ai quali l’apporto di saperi ulteriori deve essere solo servente, ma non può essere predominante, pena lo scadimento tecnico dei nostri studi, che, a mio avviso, caratterizza una parte della odierna produzione scientifica della materia. E’ forse più allettante intellettualmente disquisire di sociologia, di economia, di filosofia del diritto o di valori, ma se ciò non avviene in chiave strumentale ad una migliore interpretazione o sistemazione delle norme o, peggio, se lo si fa con l’intento di trascendere l’ordinamento giuridico, si pone in essere una sostanziale abiura al nostro mestiere, che è pur sempre specialistico.

5) Nello studio del 1988 su “Nuove tecnologie e riservatezza dei lavoratori” (F. Angeli, 1988) la Sua tecnica interpretativa ricercava, nel quadro normativo vigente, il delicato equilibro tra esigenze organizzative dell’imprenditore e tutela della sfera personale dei lavoratori. In questi 35 anni, tuttavia, l’innovazione tecnologica ha proceduto con instancabile frenesia. Su questo fronte, cosa ha fatto il diritto del lavoro? È andato a letto presto?

 

Magari no, diciamo piuttosto che il Diritto del lavoro arranca perennemente all’inseguimento di una realtà tecnologica che propone sempre nuovi problemi e nuove esigenze di tutela e che è molto difficile anticipare. Il tema della privacy, poi, è uno di quelli in cui la soddisfazione delle esigenze organizzative dell’imprenditore è sovente contrastante con la tutela dei valori personali del lavoratore, sicché la mediazione tra interessi ritenuti imprescindibili dall’una parte e dall’altra è davvero delicata.

6) C’è un altro campo, vasto e importante, che ha spesso attirato la Sua attenzione: mi riferisco agli istituti giuridici coinvolti nei processi di decentramento produttivo, cui ha dedicato non solo un importante studio monografico (I processi di esternalizzazione, ESI, 2002) ma anche numerosi saggi. Nell’approccio a questo tema, che pure coinvolge le esigenze organizzative proprie di imprese sempre più esposte alla competizione internazionale e, su opposto versante, il bisogno di tutela avvertito dai lavoratori coinvolti nelle pratiche di outsourcing, non ha, talvolta, ricavato l’impressione che il legislatore, nel nuovo secolo, abbia privilegiato le prime a discapito del secondo? Detto altrimenti, non ha l’impressione che il favore mostrato nei confronti dei processi di segmentazione del ciclo produttivo abbia finito per impoverire per un verso il tessuto sociale e per l’altro il tessuto produttivo del Paese?

I processi di esternalizzazione di opere o servizi in precedenza realizzati in via diretta dalle aziende possono rispondere a esigenze di specializzazione ed efficientamento o, viceversa, alla mera riduzione dei costi,  magari in direzione di Paesi ove il costo (e le garanzie) del lavoro sono più modesti o, peggio ancora, possono essere finalizzati all’intento di risolvere i rapporti con un certo numero di dipendenti traslati fittiziamente ad un cessionario di comodo. Il primo modello non va aprioristicamente ostacolato, ma solo guidato per evitare costi sociali e iniquità; il secondo e il terzo vanno invece combattuti e con maggiore energia di quanto avvenuto in questo inizio di secolo, magari con una proceduralizzazione adeguata e con politiche di incentivazione e sanzionatorie. Lo studio da te appena ricordato prese le mosse da una realtà allora in divenire: le esternalizzazioni intra moenia, caratterizzate dal fatto che talune attività produttive continuavano ad essere svolte nello stesso luogo entro l’azienda madre, ma gestite da una impresa “specialista”. Il risultato almeno nella maggioranza dei casi non era di aggravamento della posizione dei dipendenti, ma di efficientamento dei processi produttivi fondato sul principio di specializzazione. Il legislatore dei primi anni 2000, a mio avviso, non ha incentivato tali pratiche di esternalizzazione, ma ne ha preso realisticamente atto (smobilitando antistoriche rigidità) e ha tentato di governarle, circondandole di almeno minimali garanzie per i lavoratori coinvolti.

7) Ho appesantito la conversazione con domande impegnative. Ora peggioro la situazione aggiungendovi quelle anche impertinenti.

Vorrei sapere se e, eventualmente, in qual modo l’attività professionale abbia condizionato l’attività scientifica. Glielo chiedo perché quando le due attività sono esercitate ai massimi livelli – come nel Suo caso – non è sempre facile tenerle distinte. Provi a pensare alla delicata controversia che oppose la Fiat di Sergio Marchionne alla Fiom-Cgil di Maurizio Landini, al cui esito si pronunciò il Giudice delle leggi riscrivendo, con sentenza additiva, l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori; vicenda nella quale Lei ebbe un ruolo rilevante.

 

Quando la professione di avvocato non travolge diventa un esercizio salutare per gli studi sul diritto del lavoro vivente. Avendo avuto la fortuna di poter centellinare il mio impegno professionale e di portarlo su una “parte alta” del contenzioso, mi è stata molto utile la pratica forense e la conoscenza ravvicinata della giurisprudenza.  Devo poi riconoscere che la mia esperienza di avvocato artigianale e tradizionale ha conosciuto una svolta nell’incontro professionale con Franco Toffoletto e con la sua squadra (2012), che mi ha aperto a metodiche organizzative molto innovative, assistite da tecnologie avanzate, condizioni ormai essenziali per lo sviluppo (o forse per la sopravvivenza) della attività forense nella attuale fase di riduzione del contenzioso e di accentuata competizione.

Quanto al contrasto che tu ricordavi tra la Fiat di Marchionne e la Fiom di Landini,  che mi ha visto in prima linea, a suggello di una collaborazione con l’azienda durata molti decenni, ha rappresentato per me una occasione straordinaria di gestione di temi delicati del  Diritto sindacale e di contatto con managers di grande personalità  e spiccata cultura delle relazioni industriali,  quali, oltre a Sergio Marchionne,  Cesare Annibaldi e Paolo Rebaudengo.

Comunque davvero molte sono state le vicende giudiziali importanti che, in ben 45 anni di professione, mi hanno appassionato e offerto stimoli molto significativi.

 8) Da tecnico del diritto mi pare abbia sempre rifuggito ogni sovraesposizione politica. Eppure le Sue qualità hanno spinto, a più riprese, la politica a ricorrere alle Sue competenze a tutti i livelli. Non si contano le partecipazioni ai lavori delle più diverse Commissioni ministeriali con compiti di consulenza e progettazione legislativa.

Frattanto, nella seconda metà degli anni ’90, Lei ha anche assunto il ruolo di Presidente della Bagnoli s.p.a., deputata alla bonifica dell’ex area siderurgica (1996 – 2000) e agli inizi del 2000 Lei è stato Presidente della Associazione italiana di Diritto del lavoro e della sicurezza sociale.

Sarebbe impossibile chiedere notizia di ciascuna di queste attività. Vorrei però sapere se alcune di esse l’hanno segnata in modo particolare, in positivo o in negativo, e se in alcune di esse ha avuto l’impressione di lasciare un segno.

Tutte le attività da te indicate sono state foriere di esperienze forti, quella all’interno della Commissione chiamata a delineare la legge sul TFR conseguì anche un significativo risultato, perché in circa tre mesi  riuscimmo, con il consenso delle controparti sindacali,  a far varare una legge che a distanza di 40 anni ancora regge. Analogamente ho un ricordo particolare della mia Presidenza della Società Bagnoli che, oltre alla smobilitazione di una enorme area siderurgica e dei suoi manufatti, imposta dall’Europa, comportò un’opera di paziente ricollocazione dei circa 500 dipendenti che operavano nella fabbrica.

Una esperienza interessante e feconda di confronto tra le parti sociali ho poi fatto come Presidente di Forma.Temp, l’ente bilaterale per la formazione dei lavoratori somministrandi, in cui ho avuto modo di apprezzare inediti aspetti positivi della bilateralità ed efficaci processi di  formazione mirata.

Andando indietro nel tempo mi piace poi ricordare che nel 1977, poco dopo essere divenuto professore ordinario, feci parte della Commissione di un concorso in Magistratura nel quale divennero Giudici, tra gli altri, Pietro Curzio, oggi primo Presidente della Corte di Cassazione, Federico Cafiero de Raho, già Procuratore nazionale antimafia, Rosario Livatino, poi ucciso dalla mafia. Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini. Una parte dei candidati era più adulta di me.

Infine fui molto lusingato e responsabilizzato dalla elezione a Presidente dell’Aidlass, la associazione dei docenti di Diritto del lavoro. E mi ha fatto molto piacere – a conferma di una gestione del Direttivo serena, fattiva e non conflittuale – che Paolo Tosi, in una recente  intervista su questa Rivista, abbia affermato che quella esperienza, in cui lui rappresentava la minoranza, sia stata più soddisfacente rispetto alle altre due sue presenze nel Comitato direttivo, nelle quali, invece, militava nella maggioranza.

Insomma, sono stato felice di potermi misurare su più terreni e ambiti, ma pur sempre riconducibili alla nostra materia e, con riferimento all’incipit della tua domanda, mi sembra di aver testimoniato che si può incidere sulla realtà, sia pure nei limiti di un impegno individuale, anche senza prender parte alla vita politica.

9) Lei è considerato, senza ombra di dubbio, uno dei più autorevoli giuslavoristi italiani per ciò che ha scritto su moltissimi temi che spaziano dal diritto del rapporto individuale, al diritto sindacale. Eppure ho l’impressione che suscitino ammirazione ancora più grande e unanime i Suoi interventi e le Sue relazioni, apprezzate da chi concorda, temute da chi dissente, amate da chi vuole apprendere. Mi pare che la ragione alberghi in una particolare chiarezza nell’ordine del discorso, in una rara linearità argomentativa che a me ricorda quella sperimentata, con una certa meraviglia, durante le lezioni di diritto civile tenute da Francesco Galgano.

Questa dimestichezza con l’esposizione orale non l’ha, tuttavia, quasi mai portata a intervenire “a braccio”, privandosi di almeno un foglietto, rigorosamente di carta. Vuole confessarci il segreto di un “ragazzo del secolo scorso”? Nei suoi fogli c’è una scaletta, qualche parola chiave, una formula magica o soltanto cellulosa bianca a tenerle compagnia?

Sono lieto se davvero vi è apprezzamento per i miei interventi e relazioni a Convegni poiché mi costano sempre un notevole impegno preparatorio, non avendo tra le mie doti la facilità oratoria e la capacità di parlare a braccio o di improvvisare. Cerco di supplire con una linearità di pensiero e con una attitudine alla schematizzazione e alla sintesi (che mi riconosco) e con quei fogli di appunti scarabocchiati a penna, che evidentemente hai sbirciato, e che costituiscono la mia coperta di Linus, anche quando finisco per non tenerne conto.

 10) Proviamo ora a collocarci dall’altra parte del tavolo. Una volta ho letto una Sua intervista nella quale professava una dote che giudica più preziosa delle altre: l’umiltà. Pensando a un giurista del Suo calibro, l’avrei probabilmente considerata una boutade se non avessi notato, in tante circostanza – per vero quasi tutte – che in ogni consesso scientifico Lei ascolta sempre le opinioni degli altri, quale che sia la statura accademica del relatore, prendendo appunti e annotando sempre qualcosa.

Posso chiederle di parlare di quest’attitudine?

Professare (e praticare) umiltà sul piano del pensiero scientifico non è un vezzo, ma una attitudine fondamentale per crescere e arricchirsi nel confronto con gli altri. Nel mio caso, poi, è anche frutto di un riflesso condizionato che viene da lontano: quando sono diventato professore ordinario avevo trenta anni e guardavo dal basso e con un certo tremore i giganti dell’arena giuslavoristica, che all’epoca, in una fase davvero straordinaria della nostra accademia, erano numerosi. Li guardavo con estrema ammirazione, mi sentivo inadeguato e cercavo di non perdere una parola delle loro esternazioni e dei loro scritti. Questa attitudine all’ascolto interessato e curioso mi è rimasta ed oggi la esercito nei confronti dei molti studiosi che stimo, anche delle giovani generazioni, convinto di poter conoscere punti di vista a me estranei, sollecitazioni importanti e competenze a me meno note.

11)  Oltre a far parte di numerosi comitati di direzione di importanti riviste scientifiche, Lei dirige, da tempo, la prestigiosa Rivista Italiana di diritto del lavoro ed è co-autore, insieme a Franco Carinci, Paolo Tosi e Tiziano Treu, di uno dei manuali di diritto del lavoro più utilizzati nelle università italiane, appena giunto alla sua undicesima edizione quanto al volume di Diritto del rapporto (l’ottava per quello di Sindacale, che muta con minor rapidità). Mi pare di poter dire che pesa (anche) sulle Sue spalle la formazione di molti giovani studenti e molti giovani studiosi. Come vive questa responsabilità?

Sono particolarmente fiero della, pur onerosa, Direzione della Rivista italiana di diritto del lavoro e del fatto che, sia pure a fatica, la veste cartacea resiste in un’epoca di corsa alla informatizzazione delle Riviste giuridiche. Quanto alla responsabilità per la formazione dei giovani, essa è più che compensata dalla soddisfazione di aver appassionato alla materia giuslavoristica varie generazioni di studenti, oggi impegnati nei più diversi ruoli che la materia consente.

12) Vorrei rivolgerle, in rapida successione, tre domande che hanno a che vedere con l’impianto generale della materia, le cui risposte richiederebbero – ne sono consapevole – molto più spazio di quanto ne abbiamo, sicché avverto il lettore che dovrà accontentarsi di risposte inevitabilmente ellittiche. Vorrei, tuttavia, ugualmente procedere, chiarendo che ogni colpa è imputabile all’intervistatore e non all’intervistato.

12.1. Il diritto del lavoro del Novecento si è costruito, sia sul fronte del diritto del rapporto individuale di lavoro sia sul fronte collettivo, in un ambito definito, lo Stato nazionale, attorno ad un soggetto definito, il lavoratore subordinato della grande impresa. Le pare che il diritto del lavoro odierno, orfano di un territorio e orfano di un “soggetto del tempo” cui affidare le proprie ambizioni, stia supplendo a queste mancanze in modo efficace?

 

Sinceramente non ho una grande fiducia nella attuale capacità delle Istituzioni europee e internazionali né dei sindacati europei di intervenire efficacemente a tutela delle condizioni dei lavoratori, almeno nel medio periodo. La globalizzazione e i suoi imperativi restano, purtroppo, impregiudicati e per ora il Diritto del lavoro mantiene un forte legame con il territorio nazionale, se si eccettuano poche e circoscritte materie.

12.2. Il diritto del lavoro del Novecento si è edificato attorno alla grande dicotomia che oppone lavoro subordinato e lavoro autonomo. Lei è stato, sul finire del secolo, nella fase di “esplosione della progettualità italica”, favorevole all’introduzione di un tertium genus che permettesse di sdrammatizzare l’alternativa secca tra tutela piena dei (soli) subordinati e (quasi) completa assenza di tutela degli autonomi. Nel nuovo secolo, il legislatore ha imperversato, più volte, sui territori di frontiera tra subordinazione e autonomia, con l’intento di estendere in tutto o in parte la protezione giuslavoristica oltre i bastioni del lavoro subordinato. All’esito di questo percorso, le pare si sia ricomposta la sfasatura tra fattispecie ed effetti che eravate concordi nel denunciare, negli anni ’90, pur essendo divisi sulle soluzioni da percorrere?  

Vedo con qualche preoccupazione l’emersione – sia sul piano legislativo che su quello dottrinario di uno sfrangiamento estremo delle fattispecie e di una pluralità indefinita di statuti normativi differenziati  (collaborazioni continuative e coordinate, lavoratori eteroorganizzati, lavoro autonomo tramite piattaforme, lavoro autonomo ex art. 2222 cod. civ. etc.), che certo non giova ad una sistematica razionale della nostra materia, anche se questa tendenza è mossa dal lodevole intento di estendere alcune o molte tutele lavoristiche al di fuori del perimetro della subordinazione. Resto, invece, dell’opinione che meglio sarebbe forgiare una fattispecie onnicomprensiva nella zona intermedia tra autonomia e subordinazione, destinataria di alcune tutele di base comuni e di discipline differenziate dalla contrattazione collettiva per gli svariati sottotipi.

In tale ampio ed eterogeneo tertium genus andrebbero inseriti i rapporti che presentano una elevata interdipendenza e una marcata integrazione funzionale tra la prestazione lavorativa, prevalentemente personale e continuativa, e l’attività del committente, un forte coordinamento tecnico-funzionale con l’organizzazione aziendale e le esigenze di questa, ma che trovano svolgimento con modalità diverse da quelle tipiche della subordinazione, in assenza dell’assoggettamento a continue direttive.

Questa impostazione avrebbe il vantaggio che, almeno per le tutele di base e comuni, non ci sarebbe la necessità di una previsione di fattispecie ad hoc per ogni figura e per ogni normativa di tutela. In tal modo non sarebbe necessario fare capo a quegli impalpabili e instabili distinguo tra eterorganizzazione, coordinamento, coordinamento consensuale, lavoro autonomo debole etc., dovendosi solo distinguere tra subordinazione e coordinamento e tra coordinamento e lavoro autonomo in senso stretto. E’ appena il caso di ricordare che le discipline multiple e troppo differenziate arroventano i confini delle fattispecie normative, creando all’interprete un surplus di sforzo di qualificazione, sovente privo di esiti soddisfacenti.

12.3. Oggi il sistema delle fonti è infinitamente più complesso di quanto si profilasse al principio dei suoi studi. Questa complessità investe sia l’ordinamento giuridico positivo, da tempo multilivello, sia il sistema di contrattazione collettiva. Su questo secondo versante, l’ordinamento sindacale di fatto, in Italia, è sempre stato distante dall’assetto immaginato dal costituente. Oggi, a suo avviso, lo è più o meno di ieri? Sarebbe utile sanare lo iato e in quale maniera?

 

Il diritto sindacale italiano, privo di una solida base legale e allontanatosi definitivamente dal modello costituzionale, si tiene ancora in piedi su basi  di effettività e di reciproco riconoscimento tra le parti, né gli Accordi interconfederali che si sono succeduti nel secondo decennio del secolo hanno mostrato capacità di governo e anzi sono risultati ben presto obsoleti.

Troppe sono le permanenti incertezze per non auspicare un salutare riordino della materia a partire dalla nozione di sindacato rappresentativo a finire alla disciplina dei rapporti tra contratti collettivi di diverso livello o al diritto delle OO.SS. a trattare.

 13) Vorrei approfittare di un adagio del grande cinema di Sergio Leone che, nella trilogia del dollaro, mette in bocca a un riuscitissimo personaggio, il Colonnello Mortimer, una battuta che può farmi scudo: “le domande non sono mai indiscrete… le risposte, a volte, lo sono”.

Ebbene, c’è stato un prezzo che sente d’aver pagato, sul piano personale, per via della grande dedizione al “mestiere” di giuslavorista, pur colma di riconoscimenti e soddisfazioni?

Lo studio e il mondo del Diritto del lavoro hanno rappresentato la vera costante passionale della mia vita, una vita per altri versi incostante specie sul piano personale. E certo l’impegno richiesto da quella passione, nelle varianti accademiche, scientifiche, didattiche e professionali, ha inciso sulle dinamiche dei miei rapporti interpersonali e amicali, che avrebbero meritato una maggiore cura.

 14) Tra le varie qualità che Le si riconoscono, ce n’è una che mi pare tornare, trasversalmente, in ogni ambito: l’eleganza. Pacifico che, come scrive Pavese, ciascuno ha la filosofia delle proprie attitudini, questa dote viene pazientemente coltivata o si tratta di un’inclinazione naturale che non le costa alcuno sforzo?

Chi si impegna nel forgiare la propria eleganza è per definizione poco elegante…..

 

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