testo integrale con note e bibliografia
Retrospettiva, breve.
Nel 2021, a valere sui dati del 2020, il World Economic Forum pubblicò il report annuale sull’andamento previsionale delle trasformazioni del mercato del lavoro estrapolando tendenze ed analisi a partire da un campione di quindici settori di produzione e 26 sistemi economici nazionali comprensivi di sistemi avanzati e sistemi emergenti. È prioritaria conclusione la prospettiva di un cambiamento dirompente ad attendersi nel quinquennio successivo – quindi fino a quanto i dati del 2025 rileveranno e troveranno analisi nel report annuale del gennaio 2026. Tale cambiamento si misura in percentuali che rilevano la valutazione soggettiva di esperti e stakeholders. Al declino del 6,4% delle funzioni di carattere ripetitivo, si accompagna l’emergere di nuovi profili di professionalità per un valore del 5,7%. Questa è la percezione dei lavoratori dipendenti – le percentuali misurano su scala 0-100 quanto gli intervistati si aspettano il cambiamento. Sulla base di tali valori il report afferma che ci si può aspettare nel 2025 un ribilanciamento profondo nella divisione del lavoro fra persone e artefatti algoritmici o di automazione, mentre 97 milioni di nuovi ruoli nel mercato del lavoro si troveranno ad affermarsi come rispondenti in modo più efficace al nuovo modello produttivo basato sulla interazione intensa fra intelligenza umana, macchine, ed intelligenza artificiale. La conclusione è chiara. In mancanza di massicci e duraturi investimenti sulle competenze delle persone in materia di trasformazione digitale e di tutte le nuove forme di regole che questa comporta le diseguaglianze sociali non potranno che esacerbarsi divenendo in verità endemiche alla società digitale che andrà rapidamente – in modo non lineare - configurandosi.
Nel gennaio del 2025 il World Economic Forum pubblica il consueto report annuale. L’esercizio di comparazione storica del confronto fra la previsione del report del 2020 e la constatazione del 2025, da cui scaturisce l’analisi prospettica del quinquennio che andrà a seguire – fino al 2030 – è quantomai rivelatore: “Si prevede che l'ampliamento dell'accesso digitale sarà la tendenza più trasformativa, sia per quanto riguarda le tendenze legate alla tecnologia che in generale, con il 60% dei datori di lavoro che si aspetta che trasformi la propria attività entro il 2030. Anche i progressi nelle tecnologie, in particolare intelligenza artificiale ed elaborazione delle informazioni (86%); robotica e automazione (58%); e generazione, stoccaggio e distribuzione di energia (41%), dovrebbero essere trasformativi. Si prevede che queste tendenze avranno un effetto divergente sui posti di lavoro, guidando sia i ruoli in più rapida crescita che quelli in più rapido declino e alimentando la domanda di competenze legate alla tecnologia, tra cui intelligenza artificiale e big data, reti e sicurezza informatica e alfabetizzazione tecnologica, che si prevede saranno le tre competenze in più rapida crescita”. La trasformazione delle attuali posizioni di lavoro attesa entro il 2030 arriva al 22%. È evidente che la rilevanza della leva formativa in materia di contrasto alle diseguaglianze sociali ne viene proporzionalmente aumentata.
Perché iniziare da questi dati una riflessione in materia di rapporti fra lavoro giustizia ed intelligenza artificiale? Per tre ragioni. La prima riguarda il fatto che di certo la effettività della risposta della giustizia è una delle variabili che maggiormente influenzano la capacità di un sistema economico e socio-giuridico di contrastare l’esacerbarsi delle diseguaglianze, soprattutto quando queste diseguaglianze sono determinate o connesse con delle asimmetrie di posizione conoscitiva, di disponibilità di risorse economiche e relazionali, di condizioni di vita. Non si intende aderire ad una visione di attivismo giudiziario fondato sulla categoria della intenzionalità, quanto invece suffragare – lo si potrebbe fare sulla base della ricerca scientifica – la tesi secondo la quale funzionalmente, de facto, una giustizia che risponde in modo effettivo, tempestivo, chiaro e comprensibile alle domande dei cittadini, avrà incidenza sistemica positiva sulle capacità delle persone di riorganizzare, organizzare o orientare la loro vita sulla base dell’esercizio delle libertà fondamentali. Ma questa ragione di per sé non sarebbe assolutamente sufficiente per ritenere che la descrizione della rivoluzione cui andremo ad assistere nei prossimi anni in connessione con la iper-accelerazione della penetrazione nel mondo produttivo e distributivo dell’intelligenza artificiale sia un punto di partenza utile per discutere di intelligenza artificiale e di giurisdizione giuslavoristica. La seconda ragione riguarda il fatto che a fronte di una mancanza eventuale di investimenti di carattere formativo da parte di tutti gli stakeholders del mondo economico – e sarà qui interessante cercare di rispondere alla domanda su come quest’ultimo sia configurato nel nostro paese – il potenziale di domanda di giustizia proprio derivante dalla tensione che si potrebbe creare fra uso delle tecniche di intelligenza artificiale nel contesto del lavoro e esercizio dei diritti non solo nelle relazioni contrattuali, ma anche nelle capacità di riconfigurare categorie come quelle della responsabilità, del controllo, della sicurezza.
Ma la diffusa, capillare, intensiva, e massiccia formazione da sola non sarà ancora sufficiente a scongiurare il rischio di trovarsi dinnanzi ad una difficoltà oggettiva nella tutela dei diritti se non viene adottata una ulteriore strategia. Quella della formazione delle capacità, delle competenze, e di una grammatica comune fra le professioni del diritto in materia di normativa europea non solo sull’intelligenza artificiale, ma anche sul combinato disposto di questa con le normative che insistono sulla interoperabilità dei dati nel settore pubblico, sulla sicurezza e la regolazione delle macchine – nel mondo del lavoro – e sulle cripto-attività.
Un complesso articolato che molto chiede soprattutto a quel plesso istituzionale che potrebbe chiamarsi, fuori dal linguaggio del solo diritto positivo, Stato di diritto agito (rule of law in action). Nelle pagine che seguono sono tratteggiati profili di analisi critica e di riflessione a partire dai dati che ciascuno dei tre aspetti sopra considerati si ritengono essenziali per fare dell’intelligenza artificiale una opportunità di rilancio della società e della relazione fiduciaria fra questa e la giustizia, investendo in modo permanente, prevedibile, duraturo, su formazione, capacità comunicative e di partecipazione alla governance delle intelligenze algoritmiche, ciascuno restando nel perimetro delle proprie funzioni. Appare dunque che il lavoro ne verrà conseguentemente trasformato nella sua metrica e anche nel modo di avvalorare diritti in contesto laddove il contesto sarà sempre più pervaso da forme di intelligenze integrate e le filiere causali delle fenomenologie produttive e distributive saranno da osservarsi con occhiali arricchiti, senza per questo perdere il senso ed il valore delle categorie e dei principi che sanciscono il quid prius della dignità della libertà e della incolumità della persona.
Dimensioni della trasformazione: quale salienza per il mondo giuslavoristico?
A fronte delle trasformazioni cui assistiamo il lavoro inteso come macrofunzione di una società è indotto a rivoluzionarsi sotto (almeno) quattro aspetti maggiori: a) la sicurezza sul lavoro; b) la discrezionalità decisionale; la competitività di persone e imprese; il nesso responsabilità-funzione svolta. L’elenco non ha alcuna pretesa di esaustività. Nondimeno esso permette di focalizzare in una ottica di priorità quali siano i target sui quali la domanda di diritti e di giustizia è – già – e sarà in modo crescente nuova. Prima di entrare nel merito di come a questa domanda di diritto la normativa europea sta cercando di rispondere per la parte che attiene alla adozione di regolamenti e direttive, è utile dare un quadro sinottico di come l’intelligenza artificiale operi quello che tecnicamente si chiama un “reshuffling” del sistema “lavoro”, intendendo per “sistema lavoro” tutto il percorso che si dipana dalla creazione di una domanda di lavoro, alla ricerca di una fonte di risposta, alla fissazione dei criteri per scegliere tale fonte – sia essa umana o artificiale – alla organizzazione della fonte di offerta del lavoro scelta, alla definizione dei diritti contrattuali, dei profili previdenziali ed assicurativi, fino alla valutazione delle performance e alla messa in trasparenza degli asset di competitività dell’impresa. Italo Calvino ricorda che la bilancia sulla quale era pesata l’anima nella cultura egizia portava sul piatto attiguo a quello dell’anima una leggerissima piuma, Maat. Ecco, il valore della tensione che si crea nel mondo del lavoro con l’introduzione dell’intelligenza artificiale e della digitalizzazione a quella è prodromica è impercettibile eppur vitale. Come appunto l’effetto del bilanciamento dell’anima con la piuma. Ne va della (qualità della) vita.
Partiamo dai profili di sicurezza. Il 29 giugno 2023 è stato pubblicato il nuovo regolamento (2023/1230) in materia di sicurezza nella progettazione, diffusione, utilizzo delle macchine. Tale regolamento, che sostituisce la direttiva macchine 2006/42 è stato ispirato dal riconoscimento di dovere integrare nella domanda di diritti e di garanzie anche quella parte che è correlata alle nuove tecnologie emergenti, fra cui l’automazione e l’intelligenza artificiale anche integrata nelle forme di funzionalità robotica. È stata poi recepita l’esigenza di rivedere l’approccio alla conformità delle macchine ad alto rischio che nella direttiva macchine attuale sono elencate nell’allegato IV, corrispondente all’allegato I del regolamento. I nodi funzionali-organizzativi che nell’organizzazione dei cicli di produzione e di distribuzione di beni e servizi sono interessati dal Regolamento 1230 sono molteplici. Se ne richiama qui uno a titolo esemplificativo della organicità dell’impatto in materia di ridefinizione – reshuffling – dei diritti e degli obblighi, ancorché da vedersi nella loro dimensione “agita” ossia attuativa: “Tutti gli operatori economici che intervengono nella catena di approvvigionamento e distribuzione dovrebbero adottare misure atte a garantire che sul mercato siano messi a disposizione soltanto prodotti rientranti nell'ambito di applicazione del presente regolamento che siano conformi al presente regolamento. Il presente regolamento dovrebbe stabilire una ripartizione chiara e proporzionata degli obblighi corrispondenti al ruolo di ciascun operatore economico nella catena di approvvigionamento e distribuzione” (art. 29). Consapevole della dominanza della configurazione PMI nel mercato europeo il Regolamento stesso prevede che siano create condizioni facilitanti perché queste ultime non siano sovra-onerate dall’obbligo della attuazione dei controlli e delle certificazioni, senza nondimeno derogare alla prioritaria fissazione nella normatività giuridica, ancor prima che nei profili di prassi e di deontologia, la necessità di trasparenza, di tracciabilità, di responsabilità. All’articolo 38 infatti si sancisce che “al fine di assicurare la salute e la sicurezza degli utilizzatori dei prodotti rientranti nell'ambito di applicazione del presente regolamento, gli operatori economici dovrebbero provvedere affinché tutta la documentazione pertinente, quali le istruzioni per l'uso, contenga informazioni precise e comprensibili e sia al contempo disponibile in una lingua facilmente comprensibile dagli utilizzatori, come stabilito dallo Stato membro interessato, tenga conto degli sviluppi tecnologici e delle variazioni del comportamento dell'utilizzatore, e sia il più possibile aggiornata”. Fra i termini che interessa qui riprendere vi è “precise e comprensibili”. Vi si tornerà in seguito. Insieme allo sforzo regolativo in materia di sicurezza nella interazione con le macchine il legislatore europeo si è mosso nella direzione di definire obblighi ed opportunità di progettazione, commercializzazione, uso di dispositivi tecnologici che integrano o che si avvalgono in via esclusiva di razionalità algoritmiche, nel computo, nella produzione di contenuti – l’intelligenza artificiale generativa ne è esempio massimamente discusso – e nell’aiuto alla decisione, oltre che nella analisi di dati massivi o nello svolgimento di segmenti funzionali in sequenze complesse. Il Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, numero 2024/1689, costituisce ad oggi uno dei temi di maggiore attenzione da parte di tutti gli stakeholders economici, istituzionali, sociali e mediatici, non solo all’interno del mercato europeo. Per gli aspetti che interessano in queste pagine rileva innanzitutto che all’articolo 5 si affermi “l’immissione sul mercato, la messa in servizio per tale finalità specifica o l’uso di sistemi di IA per inferire le emozioni di una persona fisica nell’ambito del luogo di lavoro e degli istituti di istruzione, tranne laddove l’uso del sistema di IA sia destinato a essere messo in funzione o immesso sul mercato per motivi medici o di sicurezza”. Si tratta di una barriera posta alla violazione della stessa autonomia e dignità della persona ancor prima che della sua incolumità che comunque è prioritariamente protetta nell’articolo per l’ultimo passaggio formalizzato (sicurezza)”. Vale tuttavia il fatto che laddove vi sono utilizzi di intelligenza artificiale in quel lungo percorso che va dalla domanda di competenze alla identificazione della persona sul mercato del lavoro alla integrazione di questa con contrattualizzazione nel contesto organizzativo di lavoro vi sono due ulteriori aspetti che necessitano attenzione. Il primo riguarda la questione della costruzione dell’intelligenza algoritmica e del potenziale di discriminazione che scaturisce dalla necessaria – in senso tecnico-matematico – definizione della matrice dei dati e della codificazione di questi su cui il processo di “allenamento” si dispiega. Quali dati siano scelti per l’allenamento, con quale coding, in quale forma, e con che regolarità questi siano aggiornati, è tema che deve essere discusso soprattutto laddove la fenomenologia del mondo del lavoro – e quindi i dati che saranno nel tempo rapidamente resi disponibili per l’aggiornamento – è sollecitata da una trasformazione dirompente. Il secondo attiene invece al fatto che anche quando vi siano divieti chiari posti in essere da parte del Regolamento vi sono molti contesti di uso dove la rilevazione del rischio e del rischio potenziale – anche quando sito nelle gradazioni che nella tipizzazione regolamentare non cadono nelle categorie alte – sia nella disponibilità e quindi nella discrezionalità dell’attore che con quelle intelligenze algoritmiche si interfaccia, o come user, o come deployer, o come target di impatto per effetti non previsti ex ante ma comunque generati per spill over dalla ibridazione dei processi produttivi con l’intelligenza artificiale. Di qui si apre la finestra di policy che ad oggi si qualifica come la più profondamente significativa agenda che le istituzioni sono chiamate ad adottare, quella della costruzione – perché di costruzione si tratta – di una vera alfabetizzazione. Si tratta di una previsione cogente del Regolamento, il quale sin dall’inizio dell’articolato (art. 4, intitolato “Alfabetizzazione in materia di IA”) sancisce che: “i fornitori e i deployer dei sistemi di IA adottano misure per garantire nella misura del possibile un livello sufficiente di alfabetizzazione in materia di IA del loro personale nonché di qualsiasi altra persona che si occupa del funzionamento e dell'utilizzo dei sistemi di IA per loro conto, prendendo in considerazione le loro conoscenze tecniche, la loro esperienza, istruzione e formazione, nonché il contesto in cui i sistemi di IA devono essere utilizzati, e tenendo conto delle persone o dei gruppi di persone su cui i sistemi di IA devono essere utilizzati”. L’alfabetizzazione non è da intendersi dunque come l’oggetto di una moral suasion. Si tratta di un meccanismo sulle spalle del quale grava la importante funzione di assicurare che sia effettivo il controllo umano, ossia quella non riducibilità e fungibilità esclusive che si considerano non accettabili nel sistema dei diritti europeo, tanto da portare a connotare il valore unico del Regolamento nella sua impostazione umanista. In altri termini affinché sia effettivo quanto previsto, ossia che sia sempre possibile che l’ultima parola, l’ultima micro-azione, la decisione in quanto tale – non il computo che interviene coadiuvandola – siano nell’alveo della autonoma e non comprimibile a zero espressione della libertà decisionale umana, occorre che la alfabetizzazione sia effettiva. Ne consegue che tre profili appaiono rilevanti a fronte di questo, ancorché molto sinteticamente tratteggiato scenario, per la giurisdizione e il mondo della giustizia che interviene nelle controversie giuslavoristiche:
• La fenomenologia delle mancanze dei controlli. Perché l’idea del controllo non è legata al controllare tutto, ma a sapere dove fermare la “macchina” (qui usata in senso improprio come concetto) e subentrare con una intelligenza umana esperta.
• La fenomenologia della erosione della dignità della persona. Poiché di fatto esisterà sempre uno spazio dove solo ed esclusivamente interviene l’intelligenza umana, il sapere fare umano, la emotività umana, l’empatia, allora la competenza del linguaggio digitale è fondamentale per avvalersi appieno di quello spazio. È in quello spazio, per esempio, che avrà importanza vitale la deontologia, perché non sarà mai delegabile né delegato alla macchina tutto lo spazio funzionale e decisionale che si trova dinnanzi la persona nella sua vita quotidiana.
• La difficoltà ad avere una grammatica comune fra tutte le parti delle eventuali litigiosità e controversie che si andranno a creare.
Nella giurisdizione. Profili di nuove litigiosità
Richiamare qui un convincimento sia di senso comune sia di cultura giuridico-istituzionale, ossia quello che riconosce l’esistenza di uno spazio, di variabili dimensioni, fra il dettato della norma e la norma in azione appare dunque particolarmente rilevante. Se infatti i rischi alla tutela dei diritti, in concomitanza ed in associazione alla integrazione dell’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro scaturiscono non solo – e forse non in modo preminente – dalla assenza di regole, quando dalla debolezza o della parziale esistenza delle condizioni e delle capacità attuative delle stesse, allora la alfabetizzazione in materia digitale di cui ad oggi testimoniano i dati afferenti al paese costituisce un elemento empirico da cui non si può evitare di partire per poi addentrarsi nel merito del contenzioso potenzialmente emergente dal mondo del lavoro di domani (già quasi oggi).
Partire dai dati ci permette di elaborare qualche considerazione prospettica. Secondo l’indice DESI, Digital European Society Index, le competenze di poco al di sopra della elementare alfabetizzazione al digitale distribuite nel nostro paese per coorti di età registrano una posizione nettamente al di sotto della media europea sia per la fascia di età compresa fra i 35 e i 44 anni, sia per la fascia di età compresa fra i 55 e i 64 anni (si vedano le tabelle 1 e 2).
Perché questi dati ci interessano? Essi vanno interpretati alla luce di una ulteriore evidenza empirica, che attiene alla diffusione dell’intelligenza artificiale nelle PMI, come mostrato dalla tabella 3, relativamente ridotta stando ai dati del 2023, rispetto al campione europeo. Combinando questo dato con la età media dei titolari di impresa, che si attesta sui 52 anni – dati ISTAT – per il 2023 possiamo evincere alcuni profili non tanto di criticità quanto di domanda di costruzione di capacità. Da un lato, considerando la tendenziale progressione della aspettativa di vita e la esistenza di un fenomeno di contrattualizzazione di profili di competenze che sono in uscita dopo il pensionamento o comunque in una fascia di età meta superiore ai 55 anni dal mercato del lavoro diciamo dominante la prima fase della vita – un fenomeno, questo, ben tratteggiato nelle analisi di sociologia dei processi economici e sociali dei fenomeni di trasformazione post-pandemici – siamo dinnanzi ad uno spazio in cui se da un lato al momento la penetrazione dell’intelligenza artificiale nel mondo delle PMI resta ridotto, dall’altro è possibile costruire competenze che siano foriere di effettività di controlli e di garanzie/baluardo dinnanzi a rischi nell’uso dell’IA. È vero poi che anche per il segmento dei deployer di innovazioni integrative di IA da parte di imprese start up nel settore dove la presenza più giovane è significativa la domanda di literacy appare nei fatti importante, sia per la parte latente, sia per la parte che trova già voce e canali di espressione di interesse nella esponenziale crescita delle offerte di formazione e professionalizzazione in materia di IA.
Vi è poi un profilo da considerare per la parte dei controlli che riguardano la costruzione delle intelligenze algoritmiche, a partire dai dati. Se infatti la qualità degli algoritmi dipende – anche – dalla qualità dei dati sui quali essi vengono costruiti ed allenati, allora la questione della certificazione di accettabilità degli stessi ovvero della qualità e genuinità delle loro fonti diventa in questo ambito dirimente. Se ne evince la centralità – non soltanto per il mondo del lavoro, si pensi ad esempio a tutto il settore scuola e istruzione – della strategia della governance dei dati, sia a livello nazionale, sia a livello transnazionale. In altri termini, ancora più che in passato, nell’era dell’intelligenza artificiale “fare impresa” e “fare lavoro” sono fatti socio-giuridici, anzi fatti che essendo sociali diventa istituzionale. Lo sono in senso tecnico e scientificamente suffragato. Senza volere esplorare il ventaglio ampio e ricchissimo di sollecitazioni intellettuali che ci proviene dagli studiosi impegnati a comprendere l’interfaccia fra linguaggio, linguaggi e “fare” individuale e collettivo, possiamo senza alcun tema di smentita affermare che fare impresa è una declinazione della espressione umana che assume un valore intrinsecamente sociale e collettivo, anche quando è individuale, e che ha un riflesso ineludibilmente istituzionale sia per i profili regolativi, sia per i profili simbolici che tale “fare” investe. Profili regolativi sono qui da intendersi in doppia accezione. Certamente esiste una interazione forte, stretta, profonda e puntuale fra imprenditorialità e diritto nella misura in cui questo secondo fissa ambiti di legittima azione dove si può dispiegare l’esercizio della libertà economica. Ma esiste anche una diversa accezione, complementare e non meno importante della prima, che riguarda il fare norma in azione nel mondo del lavoro. Creare nel fare modalità di interagire con un territorio, un ecosistema integrato orizzontalmente o verticalmente di sinergie produttive e distributive, costruire nello spazio interno funzionale di una impresa un dover essere che è legato a normatività di carattere deontologico, identitario, ma anche a standard di qualità del processo e del prodotto, senza necessariamente fare ricadere tutto questo in una norma formalizzata – anche se questo può accadere – è un essere regolativi in senso pratico (nel senso della razionalità pratica, di cui Kant ci dice). Il ruolo della persona in questo ampio spazio così angustamente tratteggiato è cruciale, anzi fondativo. Fondativo perché è sul diritto alla libertà di creazione e di uso delle risorse in una ottica di libertà individuale che il fare impresa si posiziona nella realtà sociale e collettiva. Ma vi è molto, molto di più. Fare impresa è un rito che ha al proprio centro il fuoco sacro della autonomia della persona non come un dato acquisito ma come un percorso demiurgico che mette insieme talenti ed opportunità e che deve rivedersi e ripensarsi ad ogni grande momento di giuntura epocale che una società vive. Quel valore generato sarà allora da pensarsi in termini di un valore che ha la propria prima traccia nella autonomia accresciuta della persona, nel senso consapevole del proprio agire in contesto, avendo le radici nella identità professionale ma senza perdere mai il senso di un fiorimento possibile che guarda a future professionalità da sviluppare.
Come viene influenzata la giurisdizione e come la domanda di diritti, così come essa sarà influenzata dalla capacità di dare luogo al diritto in azione (regolamenti europei attuati e resi effettivi nel tempo secondo modalità prevedibili ed affidabili)? Il primo riguarda proprio il rapporto con la normatività giuridica. La postura epistemica, deontologica e professionale di tutti gli attori della giurisdizione dinnanzi ancor prima che alla norma giuridica alla fenomenologia dei rischi e delle catene causali che pur complesse li condizionano costituisce un target sul quale costruire una sinergica agenda di formazione e di condivisione di metodi e strumenti di aggiornamento delle prassi e delle sensibilità culturali che si matureranno nella magistratura e nella avvocatura giuslavoristiche nel prossimo – brevissimo – scorcio temporale. Fare di quella regolazione una realtà vivente e farne uno strumento che permette di valorizzare quel rendere giustizia che sa appieno integrare le intelligenze artificiali mantenendo senza alcun timore l’asse centrale sulle persone sarà la sfida di domani.
Il dibattito e la formazione delle capacità di monitoraggio del contenzioso devono andare insieme con la analisi dello stesso, puntuale, tempestiva, per estrapolarne i profili tipizzati emergenti, le nuove forme di rischio, e mettere questa conoscenza al servizio di chi risponde alle litigiosità emergenti.
Osservare il contenzioso emergente per comprendere il cambiamento
L’esistenza di un sistema di norme cogenti e di procedure che attengono alla loro creazione entrata in vigore e applicazione rappresenta sia una condizione ineludibile di un sistema socioeconomico funzionante nel rispetto dei diritti e delle prerogative di portatori di interessi e valori sia un effetto della adesione ad un principio soggiacente ciò che sul piano istituzionale e ordinamentale chiamiamo stato di diritto: il riflesso cioè del primato della norma rispetto alla aleatorietà della discrasia soggettiva nel dirimere controversie e nell’allocare valori e risorse secondo un criterio di equità e di trasparenza.
Nel contesto della analisi e della critica che si sono sviluppate nel corso degli ultimi tre decenni sia nei fora internazionali sia nel dibattito nazionale – da quelle certamente sollecitato a più riprese – sulla qualità della giustizia e sulla necessità di assicurare un raccordo effettivo – non solo efficiente – fra cittadino impresa e diritto in azione molto si è detto dell’aspetto dell’accesso alla giurisdizione e ancor prima – con crescendo afflato – alla sede sia giudiziale sia extra giudiziale di soluzione delle controversie.
A valle di un trentennio che ha visto le organizzazioni internazionali e gli esperti che ne costituiscono la comunità epistemica di riferimento costruire cluster di indicatori per misurare e valutare – soprattutto con una prospettiva comparata – la qualità della giustizia l’insieme delle dimensioni poste sotto i riflettori e dunque oggetto tematizzato nelle agende di riforma della giustizia e del diritto sono facilmente riconducibili a tre:
la compliance, ossia il rispetto della procedura di carattere giudiziario e di carattere amministrativo
l’accesso, sia in senso materiale e fisico sia ancor più in senso cognitivo e comunicativo
la efficienza, sia in un senso organizzativo interno alle corti, sia in un più ampio senso di carattere funzionale e amministrativo attinente alla modalità con cui le risorse erogate dal centro (ministero e/o Consigli della giustizia) sono utilizzate per rispondere alla domanda di giustizia.
Da questo prisma che certamente ha il merito di avere già innovato rispetto al più tradizionale sguardo improntato ad un principio giuspositivista di primazia della norma del diritto positivo, resta fuori però una diade vitale per i processi economici e sociali e, conseguentemente, per il mondo del lavoro:
la effettiva capacità di rispondere alla domanda che viene rivolta dal mondo del lavoro e delle imprese al sistema diritto/giustizia
la qualità che deriva dalla riduzione ovvero dal controllo e dal governo consapevole da parte di tutti gli attori dello spazio intercorso fra atto performativo della autorità decidente – giudice o autorità amministrativa – e il momento in cui la performatività diventa realtà sociale. Gli economisti tendono a inserire in questo interstizio temporale che fa tutta la differenza per mondo del lavoro e imprese il concetto di costo – opportunità (ciò che non si fa perché si sta facendo altro o perché si è impegnati a svolgere altre scelte o a prendere altre decisioni).
È tempo però che sia nella narrativa internazionale sia nel dibattito nazionale quanto accade per fare sì che un atto performativo del sistema giuridico diventi una azione sociale e quindi un quid quantum economico sia posto al centro della attenzione dell’ecosistema degli operatori e delle professioni ordinistiche che con il mondo del lavoro si interfacciano.
Ciò che si intende proporre un percorso di metodo per fare sì che sia integrata nella griglia di accompagnamento alle riforme un modulo di indicatori e di use case che permetta al legislatore ma soprattutto alle professioni di fungere da effettivo elemento di supporto alla attività imprenditoriale senza che sia tutto questo vittima di trappole di carattere funzionale che sovente derivano da forme di mancata inter-operabilità dei sistemi informatici, di mancato controllo dei passaggi attuativi di norme e provvedimenti, di mancata quantificazione della perdita di valore che è intrinseca nella attesa di una effettiva esecuzione di una decisione autoritativa anche non di carattere giudiziario.
Insomma, il diritto in azione agire sulla realtà per rimettere in circolo diritti e asset solo se effettivamente non ci si ferma all’atto performativo della enunciazione del dispositivo o del provvedimento. Norma e azione non possono andare disgiunte.