TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Il diritto di sciopero quale (unica) facoltà di inadempimento. 
Come noto, la Costituzione e lo Statuto dei Lavoratori trattano distintamente la libertà ed attività sindacale ed il diritto di sciopero così implicitamente riconoscendo solo per esso – che costituisce la negazione dell’obbligo principale di rendere la prestazione lavorativa – la non sanzionabilità dell’inadempimento. 
Inadempimento che, seppur lecito, si riflette comunque sul nesso sinallagmatico esonerando il datore di lavoro dal riconoscimento della retribuzione.
Al di là del diritto di sciopero, l’attività sindacale o comunque collettiva non consente, di per sé, l’inadempimento.
In tal senso la giurisprudenza si espresse già in epoca risalente rilevando che «l'esercizio della libertà e dell'azione sindacale …. non può di per sé legittimare – a differenza del diritto di sciopero sancito dall'art. 40 della stessa e tutelato dalla medesima norma dello statuto – l'inadempimento da parte dei lavoratori delle obbligazioni contrattuali» .
Allo stesso modo, si espresse (seppur implicitamente) una sentenza della Corte di cassazione che, quasi un trentennio fa, proprio per legittimare azioni collettive integranti un inadempimento contrattuale, deviando dal diritto vivente ampliò i limiti (interni) del diritto di sciopero sino ad ammettere «l'astensione parziale dal lavoro» .
La sentenza si attirò così il pungente rilievo di uno dei Maestri del diritto del lavoro: «probabilmente non ci si è resi conto dell’entità della questione» .
Tale pronuncia, comunque isolata, è stata superata dalla successiva giurisprudenza che, esclusa la configurabilità del diritto di sciopero in caso di rifiuto di eseguire una parte delle mansioni, lo ha ritenuto sanzionabile in via disciplinare così ribadendo che solo lo sciopero rende legittimo l’inadempimento .
2. Il caso e le pronunce di merito.
Alla luce di tale orientamento, assolutamente consolidato, nel caso in esame nessun dubbio avrebbe dovuto sorgere circa la non configurabilità del diritto di sciopero e la rilevanza disciplinare dell’inadempimento dei lavoratori.
Nessun dubbio hanno infatti avuto i giudici di merito. 
Il Tribunale di Napoli Nord, in sede sommaria e di opposizione, ha ritenuto lo sciopero configurabile solo in caso di astensione (collettiva) dalla prestazione lavorativa, richiamando proprio la citata giurisprudenza sullo sciopero delle mansioni, ed ha qualificato l’inadempimento dei lavoratori come grave insubordinazione legittimante il licenziamento . 
La Corte di appello di Napoli ha parimenti escluso la configurabilità del diritto di sciopero e la liceità del comportamento tenuto dai lavoratori ritenendo però che l’inadempimento non possa qualificarsi come grave insubordinazione con conseguente illegittimità dei licenziamenti . 
In particolare, i giudici di appello hanno valorizzato il contrasto collettivo sotteso all’inadempimento solo per escludere l’elemento soggettivo caratterizzante la grave insubordinazione. Hanno infatti affermato che «la condotta dei lavoratori si pone comunque al di fuori dei canali di lotta e anche di autotutela che l’ordinamento garantisce ed offre e non può, pertanto, considerarsi lecita, ma va pur sempre inquadrata nella vicenda conflittuale collettiva maturata, per cui è il diverso atteggiarsi dell’elemento soggettivo che fa uscire i fatti dall’alveo della insubordinazione e certamente della grave insubordinazione» .
3. Il sorprendente revirement della Suprema Corte. 
La Corte di cassazione ha invece ritenuto lecito il comportamento dei lavoratori in quanto espressione di una forma di autotutela collettiva e, così equiparando la condotta ad uno sciopero, ha affermato la nullità dei licenziamenti ai sensi dell’art. 4, L. n. 604/1966.
Ciò, ignorando i citati precedenti con cui ha ritenuto di non doversi nemmeno confrontare. 
La volontà di superare detti precedenti si evince, in primis, dalla stessa nozione di sciopero delineata dalla Corte. La quale ha significativamente precisato come non possa esservi sciopero senza l'astensione “almeno parziale” dal lavoro evocando così lo sciopero delle mansioni; la cui legittimità è però da decenni esclusa dalla giurisprudenza di legittimità. L’affermazione, seppur incidentale, non è peraltro suffragata da adeguata motivazione dato che la Corte non si è minimamente confrontata con la citata giurisprudenza e, ad eccezione della sentenza n. 2840/1984 , ha richiamato pronunce inconferenti. 
 Pur costituendo un obiter, la nozione di sciopero evocata denota l’approccio – per non dire la “sensibilità” – della Corte rispetto ai limiti dell’azione sindacale. 
 Sensibilità che emerge, dirompente, nella successiva affermazione della Corte per cui l’assenza di uno sciopero (pacifica nel caso in esame) non rileva ai fini della sanzionabilità o meno dell’inadempimento dei lavoratori. 
 Affermazione dirompente se non altro perché viene da chiedersi, forse ingenuamente, la ragione per cui la giurisprudenza (e non solo la dottrina) si sia sinora posta il tema della nozione di sciopero e relativi suoi limiti interni. Si tratterebbe infatti di una querelle meramente accademica se qualsiasi azione collettiva – e non solo lo sciopero – rendesse lecito l’inadempimento (purché fossero rispettate le posizioni soggettive concorrenti, cioè i cd. limiti esterni al diritto di sciopero).
 La motivazione fornita dalla Corte è, se possibile, ancora più semplice (o meglio, semplicistica).
 La liceità dell’inadempimento si evincerebbe di per sé dalla tutela riconosciuta dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali all’attività sindacale di cui lo sciopero «è soltanto una delle manifestazioni e delle forme di autotutela collettiva dei lavoratori in quanto parte della più ampia categoria delle azioni collettive protette dall'ordinamento».
 Ma l’equazione “riconoscimento delle azioni collettive di rivendicazione = liceità degli inadempimenti dei lavoratori” è meramente assertiva e si risolve quindi in un dogma, indimostrato perché, appunto, indimostrabile. 
 Tale equazione è in realtà fallace come si si evince dall’espresso riconoscimento del diritto di sciopero (e relativa legittimazione dell’inadempimento dato dal rifiuto della prestazione lavorativa) che sarebbe superfluo se qualsiasi azione collettiva rendesse lecito l’inadempimento (essendo appunto lo sciopero un’azione collettiva).
 Invero, considerando che l’inadempimento è insito nel diritto di sciopero (ma non necessariamente in altre azioni collettive), dalla sua espressa tutela nelle fonti si evince proprio, al contrario, la sua distinzione rispetto alle altre azioni collettive quanto alla legittimazione, per l’appunto, dell’inadempimento (ad esso sotteso) .
 Come espressamente rilevato dalla Suprema Corte già nella sentenza n. 2214/1986 e ribadito dalle numerose pronunce successive che, esclusa la configurabilità dello sciopero in caso di astensione parziale dalla prestazione lavorativa, hanno ritenuto legittime le sanzioni disciplinari irrogate dal datore di lavoro.
4. I riflessi del revirement sul sinallagma contrattuale. 
Al di là della interpretazione delle fonti, già di per sé censurabile, desta stupore come la Corte non abbia considerato – o, forse, compreso – i riflessi delle proprie statuizioni sul sinallagma contrattuale. Ed è tornato così alla nostra mente il citato rilievo espresso da Giuseppe Pera sul terreno delle operazioni ermeneutiche condotte in questa delicata materia.
I riflessi sono del resto particolarmente evidenti nel caso concreto, ove, esclusa la legittimità di qualsiasi sanzione disciplinare, ai lavoratori risulta consentito disattendere le disposizioni datoriali (in particolare, i turni di servizio) senza conseguenza alcuna sul piano contrattuale.
Ciò che, come rilevato, non si verifica nemmeno in caso di sciopero, ove la mancata prestazione esonera il datore di lavoro dal riconoscimento della retribuzione.
In caso di azioni collettive consistenti in inadempimenti parziali (dalla presentazione in servizio in un turno diverso da quello assegnato, come nel caso de quo, al mancato svolgimento di determinate mansioni), il lavoratore non dovrebbe quindi sostenere alcun “prezzo” per l’azione collettiva intrapresa mentre il datore dovrebbe farsi carico, con il riconoscimento della retribuzione, di una prestazione diversa da quella richiesta.
Il tutto a prescindere (ovviamente) da ogni disquisizione circa la legittimità o meno della prestazione richiesta e, conseguentemente, della fondatezza o meno della contestazione mossa dai lavoratori. 
Sarebbe così garantito ai lavoratori, in virtù della natura collettiva della rivendicazione, invocare una sorta di eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., indipendente però dall’inadempimento datoriale.
A prescindere dalle conseguenze “pratiche” , una simile conclusione, oltre a non trovare conforto nelle fonti, pare davvero incompatibile con la natura, pur sempre sinallagmatica, del rapporto di lavoro.