Testo integrale con note e bibliografia

Al III Congresso di Napoli della CGIL (26 novembre -3 dicembre 1952) il Segretario Generale Giuseppe Di Vittorio formulò la proposta di uno “Statuto dei diritti dei lavoratori” con questa parola d’ordine :«La Costituzione nelle fabbriche!» (1), preannunciata qualche mese prima al Congresso del Sindacato dei Chimici (2) e in alcuni interventi sulla stampa (3).
Si trattava di una piattaforma politica, non solo sindacale, per mobilitare l’intero movimento dei lavoratori, come reso evidente dal testo della risoluzione generale presentata al Congresso dal titolo significativo “Per uno Statuto dei diritti del cittadino – lavoratore nell’azienda”(4).
La Costituzione, fatta di norme di principio prive di un adeguato apparato sanzionatorio, e il Codice Civile, espressione di una epoca diversa e di una diversa cultura giuridica, non democratica, che non affermava diritti, ma costruiva un tessuto di regole sull’attuazione del rapporto di lavoro, alla stregua di un qualsiasi rapporto obbligatorio, contrattuale, in chiave assolutamente paritaria tra datore di lavoro e prestatore di lavoro, non erano sufficienti a realizzare i diritti dei lavoratori nelle fabbriche (5).
La proposta di “Statuto”, in quattro semplici articoli, in maniera più organica, ma dai contorni giuridici non ancora ben definiti, fu presentata da Giuseppe Di Vittorio al Congresso di Milano del 1954 promosso dalla Società Umanitaria, che vedeva la presenza di un solo giurista di spessore, Vezio Crisafulli (6).
Queste proposte, sebbene discusse ampiamente a livello sindacale e politico, nell’immediato non ebbero seguito, nonostante l’impegno della CGIL e del suo leader.
La svolta si avrà con i governi di centro - sinistra che si affacciarono sulla scena politica, prima timidamente, poi con un più marcato timbro riformista, a partire dall’anno 1962.
Dopo le proteste popolari e antifasciste contro il Governo di Fernando Tambroni culminate nei noti fatti di Genova del 30 giugno 1960 (città resistenziale da cui era partita l’insurrezione del 25 aprile, che il MSI scelse, provocatoriamente, come sede del suo VI Congresso nazionale) l’Italia registrava un miglioramento, tangibile, del quadro generale socio-economico che comportò, inevitabilmente, anche un cambiamento degli equilibri politici.
Il passaggio dalle politiche fallimentari del centrismo (anche per le diverse proposte di legge sindacale abortite sul nascere) a quella di centrosinistra, con il coinvolgimento del PSI (il PCI era vittima dell’ostracismo parlamentare per la sua posizione filosovietica a livello internazionale) rappresenta il punto di svolta che porterà alle importanti riforme in materia di lavoro degli anni ’60.
La politica, però, non era sufficiente; anche e soprattutto il sindacato era chiamato ad una grande prova di responsabilità: gestire il conflitto nelle imprese in una mutata situazione di rapporti e in una dialettica costruttiva con i datori di lavoro. In questa prospettiva si rafforza l’idea che sia la legge, e non la contrattazione collettiva, a porre le basi per realizzare e tutelare i diritti dei lavoratori nel tessuto produttivo, così emergendo la proposta di uno “Statuto dei Lavoratori”, che diventava necessario anche per superare le tensioni create nella seconda metà degli anni ‘60 dai grandi movimenti della contestazione politica e operaia dell’autunno caldo.
Ma andiamo in ordine.
In occasione della formazione del suo primo governo, il 4 dicembre del 1963, il Presidente del Consiglio Aldo Moro (che aveva come Vicepresidente Pietro Nenni), nel discorso di presentazione alle Camere, dichiarò il proposito di definire, sentite le organizzazioni sindacali, uno “Statuto dei diritti dei lavoratori” al fine di garantire libertà, dignità e sicurezza nei luoghi di lavoro.
È l’inizio, a livello politico-legislativo, del complessivo progetto riformista che si svilupperà negli anni a venire.
È da ricordare, però, che ancor prima, il 9 gennaio 1963, era stata approvata la legge n. 7 sul divieto di licenziamento per causa di matrimonio, durante il IV Governo di Amintore Fanfani, che aveva come Vicepresidente il democristiano Attilio Piccioni, mentre era socialdemocratico il Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, Virginio Bertinelli.
Non meno importante è la legge 9 febbraio 1963, n. 66, che consentiva l’ingresso delle donne non solo nella magistratura (ragione per la quale viene sempre, con giusta enfasi, ricordata), ma in tutti i pubblici uffici e nelle libere professioni: << Art. 1. La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge. L’arruolamento della donna nelle forze armate e nei corpi speciali è regolato da leggi particolari>>.
Meritano anche di essere ricordate due importanti leggi dei primi anni di quel decennio: la legge 23 ottobre 1960, n. 1369 (sul divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di manodopera e sulla nuova disciplina dell’impiego di manodopera negli appalti di opere e servizi) e la legge 18 aprile 1962, n. 230 (sul contratto di lavoro a tempo determinato).
Nel febbraio del 1964 la Segreteria della CGIL, con una lettera indirizzata a Pietro Nenni, manifestò il proprio giudizio positivo sullo “Statuto” e chiese formalmente che la legge garantisse i diritti costituzionali dei lavoratori, la giusta causa nei licenziamenti e il ruolo delle commissioni interne. Gino Giugni, che da tempo aveva iniziato a frequentare il PSI ( in particolare la direzione e l’ufficio del lavoro), partecipando a qualche riunione e tenendo qualche corso per i quadri sindacali socialisti) e aveva conosciuto Giacomo Brodolini (uomo di notevole intelligenza politica, ma anche buon conoscitore del mondo sindacale e persona perbene: questo è il giudizio che ne dà lo stesso Giugni), iniziava la sua collaborazione governativa e parlamentare, insieme a Giuseppe Tamburano fu incaricato direttamente da Pietro Nenni per predisporre tre disegni di legge su commissioni interne, giusta causa e diritti sindacali.
Nel secondo Governo Moro (Vicepresidente era sempre Pietro Nenni) il nuovo Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, Umberto Delle Fave, democristiano, consegnerà alle organizzazioni sindacali e imprenditoriali un questionario di lavoro sugli stessi temi, che non troverà consenso da parte della CISL, ancorata su una posizione che vedeva nel contratto il loro Statuto (7). Si trattava di un metodo, sicuramente innovativo, che, con l’interpello diretto delle parti sociali, consentiva una partecipazione attiva delle stesse al procedimento parlamentare di formazione della legge. Gino Giugni entrò a far parte della Commissione ministeriale per predisporre un progetto di legge sui licenziamenti individuali, insieme a Giuliano Mazzoni, Ubaldo Prosperetti, Federico Mancini e Mario Grandi.
Il 15 luglio 1966, la legge n. 604 sui licenziamenti individuali, che prevedeva per i lavoratori tutele minime, ma significative, in caso di licenziamento ingiustificato. Gino Giugni rivendicherà come sua invenzione la frase dell’art. 3 con cui si definisce il giustificato motivo oggettivo di licenziamento << ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa>>, per impedire che si utilizzasse l’espressione <<interesse dell’impresa>>, che avrebbe potuto essere intesa come un avallo legislativo alle teorie istituzionalistiche. È il secondo, importante, passo legislativo verso lo “Statuto” del 20 maggio 1970.
L’impegno, politico e legislativo, per uno Statuto dei Lavoratori venne inserito nel Programma economico nazionale per il quinquennio 1966/1970, approvato con la legge n. 685 del 27 luglio 1967, che al punto n. 41 prevedeva: << Nel campo del lavoro, la definizione di uno statuto dei diritti dei lavoratori - di cui la legge sulla giusta causa già approvata dal Parlamento è la prima realizzazione - introdurrà nell'ordinamento giuridico norme atte a garantire dignità, sicurezza e libertà nei luoghi di lavoro, in conformità alle norme della Costituzione. In particolare, tale statuto dovrà disciplinare giuridicamente i licenziamenti individuali e collettivi e le Commissioni interne, e garantire il libero esercizio dell' attività sindacale nei luoghi di lavoro. Per quanto riguarda i lavoratori italiani all'estero, sarà perseguita ogni opportuna tutela dei loro diritti relativi al rapporto di lavoro e al trattamento previdenziale e sociale, attraverso l'azione comunitaria nello ambito della C.E.E. e con accordi e convenzioni bilaterali con i Paesi interessati>>. Era un programma ambizioso, che andava oltre la regolamentazione dei diritti dei lavoratori e dei sindacati nelle imprese che diventerà lo “Statuto” del 20 maggio 1970.
Il clima di mobilitazione collettiva, politica e sindacale, ma anche culturale, che attraversò anche il nostro paese nella fine degli anni ’60, sicuramente alimentò, rendendolo ancor più fecondo, il dibattito sullo “Statuto”, anche se la vocazione rivoluzionaria della sinistra, soprattutto extra-parlamentare, era lontana assai dall’accogliere il messaggio riformista del centro sinistra.
La decisione fu presa nella seduta del Consigli dei Ministri del 20 giugno 1969 (8) dal Governo di centro - sinistra presieduto da Mariano Rumor, con Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale Giacomo Brodolini, il cui contributo fu determinante.
La storia cammina sulle gambe degli uomini.
Brodolini ( già Vicesegretario nazionale della CGIL sino al 1960 e poi del PSI, dal 1963 al 1966, ricoprì la stessa carica sino al 1968 nel PSDI-PSI unificati), era un socialista riformista a vocazione interna, formatosi nel Partito d’Azione, in grande sintonia con Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti. La notte di San Silvestro del 1968 Brodolini la trascorse nell’azienda tipografica romana Apollon, che gli operai avevano occupato per scongiurarne la chiusura: in quella occasione si era dichiarato “da una sola parte, dalla parte dei lavoratori”. Qualche giorno dopo, il 4 gennaio 1969, Brodolini si recò ad Avola per commemorare Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona, i due braccianti uccisi il 2 dicembre 1968 negli scontri con le forze dell’ordine nel corso di una manifestazione per ottenere l’eliminazione delle gabbie salariali e del caporalato e l’istituzione di una Commissione sindacale per il controllo del collocamento della manodopera (non a caso lo “Statuto” si occuperà anche di questi temi). In quella occasione il Ministro Brodolini lanciò la proposta di uno “Statuto dei diritti dei lavoratori”, in un discorso al Municipio di Avola che rimarrà scolpito nella storia del nostro paese (9).
Fu indubbiamente propizia la sinergia con Gino Giugni, un giovane Professore di diritto del lavoro, socialista a vocazione internazionale, chiamato dal Ministro Brodolini a Capo del suo Ufficio Legislativo (10) e in tale qualità chiamato a presiedere una Commissione composta da alcuni tra i più noti giuslavoristi dell’epoca (11), con il compito specifico di predisporre il testo non di una comune legge ordinaria, ma di una “Carta” dei diritti dei lavoratori, quale è diventato lo “Statuto”, approvato sotto il dicastero di Carlo Donat-Cattin, democristiano e leader della sinistra sociale di Forze Nuove, che amava definirsi anche lui Ministro non del lavoro, ma dei lavoratori, nel frattempo succeduto al Ministro Brodolini, prematuramente scomparso. Brodolini, infatti, morì nell’ospedale cantonale di Zurigo, l’11 luglio 1969, poco dopo quello storico Consiglio dei Ministri, alla fine di una lunga malattia che aveva tenuto nascosta, per non compromettere il suo progetto riformatore.
Il 24 giugno 1969 il disegno di legge governativo fu presentato in Senato con il n. 738.
In una intervista rilasciata all’Avanti! dello stesso giorno, Gino Giugni così ne riassume il contenuto: << Tra le due parti del progetto che riguardano rispettivamente i diritti dei lavoratori e la presenza del sindacato in fabbrica, esiste innanzitutto una stretta connessione. La nostra tesi infatti è che la creazione di un clima di rispetto della dignità e libertà del lavoratore non può derivare soltanto da una dichiarazione di questi principi, anche quando ad essa, come nel caso nostro, si accompagnino adeguate sanzioni. In realtà, come l’esperienza insegna, la sanzione più efficace riposa nella capacità di contestazione e di innovazione del sindacato e perciò occorre che il sindacato sia presente nell’azienda. La prima parte del progetto riguarda la garanzia della libertà di manifestazione del pensiero, naturalmente in forme che non impediscano lo svolgimento del lavoro; vengono inoltre eliminate le pratiche di controllo fiscale, le quali sono, purtroppo, ignote dove soprattutto il sindacato è più debole. Tali sono le cosiddette polizie private, le ispezioni personali che potranno essere ammesse solo quando ne ricorre la necessità, e con tutte le garanzie del caso, i controlli per assenza malattia che vano oltre la necessità di reprimere gli abusi, i controlli a distanza con apparati televisivi o di altro tipo che sottopongono il lavoratore ad una vigilanza continuativa, l’irrogazione arbitraria di sanzioni disciplinari, per le quali sono introdotte soprattutto speciali garanzie procedurali. Per la parte concernente più direttamente il sindacato, basti dire che, in pratica, ogni sindacato rappresentativo potrà creare la propria rappresentanza a livello aziendale con la semplice indicazione dei lavoratori o degli organismi a tal fine destinati; per questi saranno operative varie garanzie: diritto di indire assemblee e referendum, di disporre dei locali (nelle imprese con più di 300 dipendenti) e di permessi retribuiti; mentre sarà operativa una speciale tutela contro i licenziamenti e i trasferimenti per rappresaglia. La creazione di un ampio spazio per il sindacato nell’azienda è un’esigenza che si è manifestata in tutti i paesi europei e il diritto sindacale italiano con questa legge apparirà tra i più avanzati se non il più avanzato in senso assoluto. A maggiori poteri si accompagnano naturalmente maggiori responsabilità; ma credo che i sindacati italiani siano in grado di assolvere queste ultime; mentre un imprenditore moderno non può non accettare di buon grado il quadro di relazioni industriali che estende l’area del dialogo e quindi della contrattazione>>.
E sulla effettività delle norme nella fase di loro attuazione aggiunge:<< Uno dei criteri ispiratori del progetto, forse il più importante, è di non prevedere nulla che non sia adeguatamente sanzionato, anche con l’uso di tecniche giuridiche nuove. Rammento innanzitutto il miglioramento che si accorda alla legge sulla “giusta causa”. Ai licenziamenti nulli per discriminazione deve seguire l’effettiva riassunzione sotto pena di pagamento di una sanzione economica rilevante e continuativa che cessa solo con la reintegrazione del posto di lavoro. Rammento poi la norma in base alla quale di fronte al comportamento antisindacale, il sindacato stesso potrà ricorrere al Pretore per chiederne la cessazione entro due giorni, a seguito di un giudizio sommario (a cui potrà seguire naturalmente una normale causa, ma senza che questa sospenda il provvedimento del Pretore. Ambedue sono novità di rilievo; la prima supera il principio della cosiddetta incoercibilità delle prestazioni non patrimoniali, che a dire il vero, in altri ordinamenti è stato da tempo superato; la seconda riconosce che, nei rapporti sindacali, le situazioni sono irreversibili e le sanzioni applicate a distanza di tempo non servono a nulla, per cui, onde garantire una parità effettiva tra le parti occorre predisporre procedimenti accelerati>>.
Il testo base di Brodolini e Giugni fu integrato con alcuni articoli ripresi dalle proposte di legge presentate dai partiti di sinistra all’opposizione, tra i quali l’art. 18 che prevedeva l’obbligo della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, ma anche il divieto di indagini sulle opinioni dei lavoratori. Anche il PCI e il PSIUP, infatti, presentarono alla Camera due proposte di legge parallele, sulle stesse materie che poi saranno oggetto dello Statuto del 1970 che ponevano l’obiettivo di limitare i poteri imprenditoriali per consentire ai lavoratori di riacquistare la piena condizione di cittadinanza anche all’interno dei luoghi di lavoro, mentre il disegno di legge governativo era tutto proiettato sulla linea promozionale del sindacato.
Il disegno di legge fu approvato in prima lettura dal Senato l’11 dicembre 1969, con il voto favorevole dei partiti di centrosinistra e del PLI (che non faceva parte della maggioranza parlamentare), mentre, con opposte motivazioni, si astennero il PCI, il PSIUP e la Sinistra Indipendente, da una parte, e il MSI dall’altra.
Non possiamo dimenticare che il giorno dopo, 12 dicembre 1969, la strage di Piazza Fontana a Milano, con l’esplosione della bomba alla Banca della Agricoltura, rappresentò l’inizio di una drammatica e ancora oscura stagione di stragi e terrorismo che, sotto varie forme, caratterizzerà la storia del nostro paese per molti anni a venire.
Il 21 dicembre 1969 fu raggiunto, con la mediazione del Ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin, l’accordo per il rinnovo del Contratto Collettivo dei Metalmeccanici, firmato formalmente l’8 gennaio 1970, così giungendo a compimento la vertenza pilota dell’autunno caldo dei tre mesi precedenti.
Il 14 maggio 1970 la Camera dei Deputati, con 217 voti favorevoli e 125 astenuti, immutate le posizioni politiche espresse nel voto precedente (con l’eccezione di 10 voti contrari) approvò definitivamente la legge nel testo del Senato dopo che, su richiesta del Ministro del Lavoro Donat-Cattin, tutti gli emendamenti (tranne quelli del PLI) furono ritirati.
Quando la legge n. 300 del 20 maggio 1970 fu approvata definitivamente era in carica il I Governo di Mariano Rumor, con Vicepresidenti Francesco De Martino e Paolo Emilio Taviani e Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale Carlo Donat-Cattin. Presidente della Repubblica era Giuseppe Saragat.
Come dimostrano i lavori parlamentari, il dibattito fu serrato, ma costruttivo (12).
I partiti di sinistra dell’opposizione non potevano non riconoscere l’importanza di alcune norme di tutela della libertà e della dignità dei lavoratori, che rimangono scolpiti nel decalogo dei diritti fondamentali. L’opposizione di sinistra certamente contribuì a migliorare e correggere il testo, anche se poi, al termine del suo iter, decise di astenersi, mentre è significativo il voto contrario di una decina di parlamentari non identificati ( forse democristiani di provenienza cislina).
Il pregiudizio manifestato dalla sinistra è incomprensibile, per molti aspetti (qualcuno ha motivato l’astensione con la mancata adozione di un qualche status a favore dei partiti nel dibattito interno ai luoghi di lavoro), ma si può convenire con le valutazioni espresse da Bruno Trentin: lo Statuto dei diritti dei lavoratori nel 1970 dava corpo alla grande idea di Giuseppe Di Vittorio di vent’anni prima, ma una parte della sinistra, che faceva riferimento al PCI e al PSIUP, si astenne al momento della sua approvazione, sol perché in quel momento non faceva parte del Governo.
Senza pretesa di completezza, riportiamo un giudizio critico, uno dei tanti, della sinistra extra-parlamentare di quegli anni:<< I partiti governativi l’hanno presentata come un’importante conquista di libertà, eguaglianza e potere dei lavoratori. Il partito comunista e i sindacati sono più cauti; ne parlano sottovoce, il loro giudizio è moderatamente positivo: una legge insufficiente, ma sempre un significativo passo in avanti; alla votazione in parlamento si sono astenuti. Tutti questi giudizi sono interessati e ipocriti, vogliono solo coprire la realtà che è ben diversa; nello Statuto non ci sono passi avanti di qualche importanza; ci sono invece grossi passi indietro. Le libertà, a volte affermate cautamente a parole, per lo più sono negate o ridotti in limiti angusti. La Costituzione è apertamente violata. L’eguaglianza, formale e sostanziale, è negata in tutti i momenti fondamentali della legge: il privilegio delle grandi centrali sindacali; la sottrazione ai lavoratori, come individui o nelle loro libere forme associative, dei “diritti inviolabili” che la Costituzione dovrebbe assicurare a tutti; la discriminazione ai danni dei lavoratori appartenenti a determinati settori o alle minori unità produttive. La legge si muove in senso contrario all’art. 3, comma secondo della Costituzione: impone limitazioni di libertà e potere alle categorie meno favorite e con minore potere di fatto, senza incidere sul potere delle categorie privilegiate; consacra anche formalmente le diseguaglianze che prima erano solo di fatto. Statuto dei diritti dei lavoratori è dunque un’espressione inesatta; meglio sarebbe parlare di Statuto del sindacato, o, piuttosto, di una legge di espropriazione – senza indennizzo – dei diritti di libertà dei lavoratori, in parte restituiti ai padroni, in parte trasferiti ai sindacati>> (13).
Oggi l’autocritica (ne è passato del tempo) riguarda anche gli ambienti della sinistra extra-parlamentare che, colpevolmente, ignorò l’importanza storica dello “Statuto”. Significative sono queste parole di Luciana Castellina: <<Fu un errore su questo non credo ci sia più nessuno che abbia dubbi non considerare quella legge una importante conquista. Che peraltro accoglieva una richiesta avanzata da Giuseppe Di Vittorio già al congresso della Cgil del 1952. E che introduceva la Costituzione nel recinto della fabbrica, fino ad allora spazio extraterritoriale chiuso all’interferenza di un imperio che non fosse quello dettato dal padrone. Per capire come sia potuto accadere bisogna riandare a quel tempo e al dibattito che l’accompagnò. Quel giudizio così drasticamente negativo, e il disinteresse con cui la legge fu accolta, aveva alla base un’ipotesi non del tutto destituita di fondamento, che animò infatti, allora, una vasta riflessione, che affrontava, ben oltre lo Statuto dei lavoratori, il tema generale del ruolo delle riforme. Noi tutti, e con noi una parte dello stesso sindacato, consideravamo i rapporti di forza conquistati dagli operai nelle fabbriche ben più favorevoli di quelli esistenti a livello politico e temevamo che la linea del Pci, che puntava sulle riforme, fosse un modo per ridurre la radicalità dello scontro, spostando il confitto sull’infido e incontrollabile terreno della mediazione parlamentare. Il timore, insomma, era di smarrire la centralità che con le lotte era stata data al controllo sulla organizzazione della produzione, sul cuore del sistema>> (14).
La CGIL, comunque, si intestò il risultato positivo raggiunto dalla legge n. 300 del 1970.
Significative sono le parole pronunciate da Luciano Lama al Convegno di Budrio nei giorni 26 - 27 giugno 1970 promosso dal Comitato Regionale Emilia e Romagna della CGIL sulla nuova legge sui diritti dei lavoratori: << Il diritto sindacale è una dottrina in divenire, che procede con l’evoluzione della società e con la conquista che i lavoratori realizzano ogni giorno nel loro faticoso cammino verso il progresso. [...] Anche in questo campo, dunque, noi possiamo facilmente valutare i frutti benefici della esperienza unitaria che è iniziata prima delle lotte di autunno, ha trovato in quelle lotte momento di grandissima tensione e di unità e si prolunga ancora oggi, pur fra difficoltà ed ostacoli, essenzialmente per un impegno dei lavoratori che nasce sul luogo di lavoro. Lo Statuto dei diritti è anch’esso frutto della politica unitaria e delle lotte sindacali: lo strumento non poteva che essere una legge, ma la matrice che l’ha prodotta e la forza che l’ha voluta è rappresentata dal movimento dei lavoratori e dalla sua azione organizzata. Anche soltanto qualche anno fa, nelle condizioni di divisione che allora esistevano fra i sindacati e fra i lavoratori, lo Statuto non avrebbe potuto essere, perché la concorrenza fra le organizzazioni avrebbe persino impedito il convergere degli orientamenti sulla conquista di diritti nella fabbrica, diritti che per essere tali e pienamente goduti, devono valere allo stesso modo per tutti. Certo, anche lo Statuto dei diritti presenta dei limiti; ma esso è pur sempre un passo, un lungo passo avanti rispetto alle condizioni del passato e rende finalmente operanti principi che finora, forse già perfetti in linea teorica, non avevano però offerto al movimento sindacale una possibilità di reale godimento. Oggi possiamo partire, per andare ancora più avanti nella fabbrica e nella società, da questi nuovi punti più avanzati. C’è da ritenere, d’altra parte, che le positive esperienze compiute nel campo degli studi di diritto sindacale, in connessione con lo sviluppo del movimento di lotta, possano essere estese ad altri campi della ricerca, sempre con l’obiettivo di allargare l’ambito delle libertà individuale del lavoratore e delle prerogative del Sindacato nel luogo di lavoro e fuori. Io credo che a questa impresa possano largamente contribuire tutte le scuole di diritto, se ciascuna di esse si sforzerà di tenere i piedi ben piantati nel solido terreno del movimento reale delle masse. Le aspre polemiche e l’incomunicabilità sostanziale, che hanno contraddistinto questo campo della ricerca nei decenni passati, devono lasciare il posto ad una collaborazione sostanziale 0che implica, naturalmente (come ogni ricerca seria del resto), polemiche e contrasti, ma che accetta da parte di tutti la lezione severa ed indiscutibile delle esperienze di lotta unitaria dei lavoratori. Io credo, in sostanza, che anche in questo campo la politica di unità sindacale offra a tutti materia di riflessione e di approfondimento. Ciò vale per impegnare tutte le forze individuali e scientifiche nella non facile opera di applicazione, la più lata delle norme stabilite dalla legge, ma ciò vale molto di più nell’impegno di allargare l’orizzonte della ricerca teorica e pratica, nel convogliare a sostegno di una nuova collocazione del Sindacato nella società italiana le valide forze dei giuristi e degli specialisti in diritto del lavoro. Noi sappiamo che, in una società come la nostra, i diritti dei lavoratori sono e saranno sempre contestati da un sistema che tende in ogni caso ad esprimere le esigenze del capitale; ma sappiamo anche che in una società diversa il Sindacato e il singolo lavoratore possono vedere trascurate o limitate le loro libertà, anche se in nome di esigenze generali che esprimono gli interessi di una collettività senza classi. Ebbene! Dare solidità scientifica alla nostra ricerca di oggi, radicare solidamente i diritti del cittadino e del Sindacato in principi fondati sulle nostre esperienze di lotta e di democrazia significa precostituire, anche per l’avvenire, un complesso di norme e di comportamenti che ci aiuteranno a garantire anche in una società trasformata la libertà dell’uomo e l’autonomia del Sindacato>> (15).
Resta sullo sfondo, ma con tutta la sua rilevanza, l’ostilità manifestata all’epoca dalla CISL (che iniziò ad indebolirsi sotto la spinta dei metalmeccanici, categoria a forte vocazione unitaria) che nel tempo è stata superata. Una avversione, quella della CISL, che si era manifestata sin dal primo programma organico del centro-sinistra e anche con riferimento alla legge del 1966 sui licenziamenti individuali, che fu approvata con l’astensione di 16 deputati democristiani di provenienza cislina. La CISL era convita che il compito di apprestare tutele a favore dei lavoratori fosse compito del contratto collettivo e non della legge, che finiva per togliere potere al sindacato, sminuendone il ruolo. La parola d’ordine era: << Il nostro Statuto è il contratto!>> (16).
Del resto, l’accordo interconfederale del 1965 sui licenziamenti era nato proprio con l’intendimento, comune a Confindustria, di evitare l’intervento legislativo che poi ci fu con la legge n. 604 del 1966. Negli interventi alla Camera il Segretario della Cisl Bruno Storti e il deputato Amos Zanibelli denunciarono il rischio di una “istituzionalizzazione del sindacato” e di una “espropriazione [ai danni del sistema delle relazioni industriali] della regolazione dei rapporti di lavoro”. La posizione e le preoccupazioni di questo Sindacato sono state di recente molto bene riassunte da Pietro Ichino << La Cisl paventava innanzitutto che la disciplina del lavoro, sottratta all’accordo tra le parti sociali, potesse essere assoggettata alle oscillazioni degli equilibri politici, non corrispondendo più ai veri interessi comuni di imprese e lavoratori. Ma paventava anche i rischi contrapposti di norme generali non adattabili alle esigenze specifiche aziendali o di settore, e viceversa di norme dettate per i casi singoli, basate su concessioni di natura clientelare, ma destinate ad assumere applicazione generale; quindi, un accumularsi di norme disordinato. La Cisl paventava infine il rischio di forzature politiche (come quella che in effetti si verificò in Parlamento sulla materia delicatissima dei licenziamenti, il famoso articolo 18, rispetto al testo del disegno di legge governativo elaborato dalla Commissione coordinata da Gino Giugni, che era stata insediata dal ministro Brodolini) (17).
La dialettica tra i fautori dell’interventismo legislativo (il PSI, soprattutto, che ne aveva fatto un cavallo di battaglia per la sua partecipazione ai governi di centro sinistra con la DC) e i fautori del contrattualismo ha attraversato l’intero decennio delle riforme degli anni ’60.
Tuttavia lo “Statuto” fu anche l’esito legislativo dei rinnovi contrattuali del 1969 e 1970.
Gino Giugni, che pure era molto vicino alla cultura contrattualistica della CISL ( basti pensare alla sua attività di formazione dei quadri sindacali svolta negli anni precedenti presso la Scuola CISL di Firenze diretta da Mario Romani) era fermamente convinto del contrario. Già nella sua intervista pubblicata sull’Avanti! del 24 giugno 1969 scriveva:<< Mi sembra anche di poter dire che i settori sindacali dai quali è emersa in passato una prevenzione nei confronti dell’intervento legislativo non hanno manifestato una opposizione preconcetta. Né ritengo d’altronde che tale intransigenza sarebbe stata giustificata, neanche nel quadro della logica cui essa si pone. Infatti, il progetto non mira affatto a comprimere la contrattazione, quanto piuttosto ad esaltarla, creando condizioni che facilitino il dialogo tra le parti. Si tratta, cioè, di una legislazione di sostegno all’azione sindacale che pertanto non è in nulla sostitutiva a questa ultima e dall’applicazione di essa potrà risultarne potenziato questo strumento indispensabile di autonomia e di progresso che è la contrattazione collettiva >>(18).
Nel contesto dei lavori parlamentari hanno assunto una importanza fondamentale gli studi sull’autonomia sindacale sviluppati da Gino Giugni (19), che comunque ha trovato valido supporto e interlocuzione in altri studiosi ( tra questi sicuramente Giuseppe Federico Mancini), privilegiando, sotto molti aspetti la legislazione di sostegno all’azione del sindacato, a tutti i livelli, conservando, comunque, l’impianto originario della libertà anche di organizzazione sindacale disciplinata dall’art. 39 Cost. e privilegiando la presenza del sindacato nei luoghi di lavoro. Significativo, in questo quadro, è l’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori nel testo che sarà approvato: la titolarità dei diritti sindacali spetta alle rappresentanze sindacali aziendali su iniziativa dei lavoratori che facciano riferimento alle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale e alle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nelle unità produttive.
È comprensibile il sostegno dato dallo Statuto alle tre Confederazioni sindacali maggiori in un momento in cui era realistica la previsione della unificazione delle stesse, fallita solo in un secondo momento, con l’affermazione del sindacalismo autonomo nel tessuto produttivo, rendendo così attuale il problema della misurazione comparativa della rappresentatività sindacale (20).
Sempre nella più volte citata intervista del 24 giugno 1969 all’Avanti! Gino Giugni, che non poteva non riconoscere le implicazioni della riforma sul sistema sindacale delineato dalla Costituzione, affermava: << L’art.39 per la parte che riguarda il riconoscimento giuridico del sindacato non deve diventare una camicia di Nesso. Esso infatti concerne la personalità giuridica del sindacato e la efficacia dei contratti. Lo Statuto non riguarda né l’uno né l’altro di questi due temi. Invocare contro di esso l’art. 39 significa in realtà mascherare una volontà politica negativa >>.
Il dibattito dottrinale, talvolta anche aspro, che si è svolto nel periodo immediatamente precedente e successivo dell’approvazione di questa legge non rende pienamente conto anche del suo effettivo valore giuridico, spesso privilegiandosi aspetti di puro formalismo e di tecnica (facilmente superati e superabili), rispetto a quelli contenutistici, comunque prevalenti.
Mi limito, per questo aspetto, alla polemica degli anni ’70, innescata da Giuseppe Pera nei confronti della legge “malfatta” e, nemmeno troppo velatamente, del suo principale autore, Gino Giugni (21).
La premessa dell’analisi, prettamente tecnico-giuridica, dalla quale partiva Giuseppe Pera era la stessa, prima ( 22 ) e dopo l’approvazione della legge ( 23 ): il ruolo neutrale del giurista, essenzialmente conservatore, che deve astenersi, in ogni caso, dalle valutazioni di merito delle scelte politiche commesse al Legislatore.
Prima, de lege ferenda, Pera auspicava una riforma giusta fatta al momento giusto, anche di grande respiro, con l’ambizione di superare la minuta regolamentazione contenuta nel codice civile, affermando, comunque, la necessità di costruire prima la casa (i riferimenti all’attuazione degli artt. 39 e 40 Cost. sono del tutto evidenti ed espliciti) e poi lo “Statuto”. Dopo, a legge fatta, pur apprezzando la portata innovatrice dello “ Statuto” sotto diversi profili, l’analisi venne portata da Pera sino alle estreme conseguenze sul piano tecnico-formalistico.
Anche la Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, allora diretta da Ugo Natoli (24) si intestava la polemica, su aspetti contenutistici, privilegiando la dottrina<<costituzionalista>> contrapposta alla dottrina<< sindacale>>, rappresentata soprattutto da Gino Giugni e Federico Mancini, che ritenevano necessaria una legislazione promozionale e di sostegno del contropotere sindacale nelle fabbriche (25).
Altrettanto dicasi delle posizioni della magistratura democratica e progressista, espresse in molti interventi apparsi nella rivista Quale Giustizia degli anni ’70 (26).
Le contrapposte posizioni, anche dottrinali (con il fuoco incrociato della sinistra ortodossa, della estrema sinistra e dell’ala conservatrice) si resero evidenti anche in occasione delle Giornate di Studio dell’A. I. D. La. S.S. di Perugia del 22 e 23 maggio 1970 ( 27), anche perché il relatore principale, Federico Mancini, era un sostenitore della legge voluta da Gino Giugni, con il quale pure aveva collaborato, come abbiamo già detto, e inevitabile fu lo scontro non solo con Giuliano Mazzoni, ma anche con il gruppo dei giuristi legati ad Ugo Natoli e alla Rivista Giuridica del Lavoro: Luciano Ventura, Carlo Smuraglia e Marco Vais.
Come ho avuto modo di scrivere altrove ( 28 ) la ragione era dalla parte di Gino Giugni, anche se nelle discussioni giuridiche, di valutazione squisitamente tecnico-formale delle norme, non vi è ragione o torto, ma solo differenti opinioni. Ribadisco anche qui che aveva ragione Gino Giugni perché, a prescindere dal dato formale della legge che lo regolamenta, lo “Statuto” ha profondamente innovato il diritto del lavoro, anzi ha costituito l’inizio del moderno diritto del lavoro. La cultura giuridica dello “Statuto” si è dimostrata più forte del pregiudizio politico che lo ha avversato, anche in anni più recenti (mi riferisco alle critiche strumentali, non a quelle dirette ad un superamento di alcune regole in ragione del mutato assetto produttivo e socio-economico e delle continue << trasformazioni>> del lavoro) e del mero formalismo e tecnicismo con cui è stata affrontata la lettura e l’analisi del testo normativo negli anni’70.
Il giudizio, storico e politico, su questa legge è senz’altro positivo (29); lo dimostrano, anche, gli studi, non solo meramente rievocativi, dei diversi anniversari che sono stati celebrati, compreso quello di questo anno (30).
Innanzitutto per la politica di diritto del lavoro realizzata dal Legislatore dell’epoca, che aveva una visione e perseguiva un progetto, anche di attuazione, concreta, dei principi e valori costituzionale (31). Una missione colpevolmente abbandonata negli ultimi venti anni: basti pensare alla normativa frammentata, molto spesso involuta e contraddittoria di tante leggi, davvero “malfatte” che si sono succedute nel tempo, che rispondono (quasi sempre) ad esigenze contingenti e sono comunque prive di una prospettiva sistematica.
Come è stato riconosciuto anche di recente, lo “Statuto” è sicuramente una legge longeva, in un contesto di fragilità ed obsolescenza delle leggi sul lavoro, sempre più numerose e sempre meno durevoli nonostante le mutilazioni che ha subito e il superamento di alcune norme, anche per il mutato contesto socio-politico, economico e produttivo (32).
Intatto è il suo valore altamente simbolico (33), ma importante è anche il suo esempio di semplificazione della tecnica normativa e di sinteticità delle disposizioni (34), che negli anni successivi è stato colpevolmente superato da una legislazione alluvionale.
Certamente le relazioni industriali dalle quali è nato lo “Statuto” non sono più le stesse; anche il lavoratore è molto diverso da quello che abbiamo conosciuto nel secolo scorso. Da molto tempo, ormai, il lavoro è frammentato e il sistema produttivo si basa sulle fabbriche diffuse, non più sulle aziende fordiste; e tuttavia le norme statutarie, in gran parte, rappresentano ancora oggi un utile strumento per la regolamentazione dei rapporti di lavoro nelle imprese (35); anche se, bisogna riconoscerlo, la prospettiva è quella di costruire, per il futuro nuove relazioni di lavoro e sindacali (36).
Le norme a tutela della libertà e della dignità dei lavoratori e della libertà sindacale che leggiamo nei titoli I e II dello Statuto mantengono viva la loro attualità, pur con le modifiche che ci sono state.
Le critiche alle norme sull’esercizio dei diritti sindacali di cui al titolo III, pure alla luce delle modifiche avvenute nel tempo, anche per l’intervento dei referendum popolari e della Corte Costituzionale scontano la mancanza di una legge, organica, sulla rappresentanza sindacale, che oggi sembra inevitabile, non essendo sufficiente il T.U. sulla rappresentanza sindacale adottato il 10 gennaio 2014 con l’Accordo Interconfederale siglato tra CGIL, CISL, UIL e Confindustria.
L’art. 28 rappresenta, ancora oggi, un utile strumento per rendere effettiva (con la repressione delle illecite condotte datoriali tese a limitare la libertà e l’attività sindacale e l’esercizio del diritto di sciopero) e non condizionabile l’azione sindacale nei luoghi di lavoro, anche se il procedimento non trova più estesa applicazione. Il giudice interviene dopo il fallimento della mediazione sindacale, non la comprime, anzi valorizza la tutela dei diritti sindacali.
Il dibattito sulla permanente rilevanza giuridica ed effettività dell’art. 18 per l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, sconta le aporie di un dibattito politico, spesso con posizioni strumentali assunte da entrambe le parti in contesa, che, per molti versi, cerca di risolvere il problema dell’occupazione e della flessibilità (rectius precarietà) dei rapporti di lavoro con una normativa di diversa generazione. Che sarà pure possibile (per qualcuno auspicabile), ma che deve tenere conto delle concrete trasformazioni economiche e sociali che le riforme impongono. Prova ne sia il fatto che le modifiche introdotte nel 2012 ( L. 28 giugno 2012, n. 92) e le riforme del 2015 ( D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23) non hanno apportato positivi cambiamenti, perché da un lato hanno complicato il quadro, non solo sanzionatorio, ma anche precettivo delle ipotesi di licenziamento illegittimo, in senso lato(senza dire delle complicazioni del rito dedicato alle cause in materia di licenziamento);mentre dall’altro lato hanno creato evidenti disuguaglianze tra i lavoratori in base al tempo della loro assunzione ( per non dire dei profili di illegittimità già censurati dalla Corte Costituzionale e a livello europeo, proprio in relazione alla tutela crescente che, però, non poteva essere calibrata dal giudice secondo le caratteristiche del caso concreto e la gravità dei fatti, in un’ottica davvero dissuasiva.
Non è possibile, qui, dare conto di tutte prospettive di riforma, anche de lege ferenda, se non per cenni essenziali; senza poter dire, comunque, nulla delle tante posizioni dottrinali che non sono state concretizzate come organiche proposte di regolamentazione normativa.
Merita, innanzitutto, ricordare lo sforzo di costruire un moderno <<Statuto dei lavori>>, sotto l’impulso, teorico e progettuale, soprattutto di Marco Biagi, che ha ripreso vigore con la Commissione presieduta da Michele Tiraboschi, per incarico del Ministro del Lavoro Tiziano Treu ( 37).
Il progetto di creare uno <<Statuto dei lavori >> inclusivo di ogni forma di lavoro – subordinato e autonomo- è naufragato, ma non è tramontata del tutto l’idea di estendere, almeno in parte, ai lavoratori autonomi, alcune norme protettive destinate ai lavoratori subordinati. Solo in parte e per alcuni aspetti ha trovato applicazione nell’art. 2 del D. Lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, che ha esteso alle collaborazioni autonome, continuative e personali, le tutele del lavoratore subordinato in caso di etero-organizzazione da parte del committente (38) e, ancor più, nella legge n. 81 del 22 maggio 2017 che ha posto le basi della tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale, disciplinando, anche, il lavoro agile (39). Mentre da ultimo merita segnalare la L. n. 128 del 2 novembre 2019, di conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 3 settembre 2019, n.101, che tutela il lavoro mediante le piattaforme digitali (40).
Nella prospettiva di “universalizzazione” dei diritti di tutti i lavoratori e le lavoratrici, subordinati e autonomi, si inserisce la proposta di legge di iniziativa popolare della CGIL del 2016 (41). Mentre sui temi più specifici delle relazioni sindacali, della rappresentanza sindacale e della contrattazione collettiva, anche aziendale, si collocano le proposte, diversamente articolate, del 2014 della Rivista << Diritti Lavori Mercati>> (42) e del 2015 del Gruppo <<Freccia rossa>> ( 43).
Non è mancata anche la proposta di un <<testo unico>> per la disciplina del mercato del lavoro ( 44).
Strettamente connesse a questi temi sono le problematiche relative alla partecipazione dei lavoratori e all’attuazione dell’art. 46 della Costituzione nella prospettiva di un nuovo assetto delle relazioni industriali (45).
È di questi giorni il << Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile>>,lanciato da tre studiosi, di diversa formazione ed esperienza, Bruno Caruso, Riccardo Del Punta, Tiziano Treu, con l’apertura di uno spazio su Labour web destinato alla discussione, che non a caso porta la data del 20 maggio 2020 dello Statuto dei Lavoratori, con il quale i tre giuslavoristi, seppure indirettamente, hanno inteso confrontarsi, anche in un dialogo ideale, mai interrotto, con Massimo D’Antona ( 46).
Resta sullo sfondo l’istanza di semplificazione dei rapporti di lavoro e sindacali, che nel tempo hanno impegnato gli studiosi e i parlamentari, che non ha trovato concreta realizzazione, nella prospettiva, anche, della riscrittura delle norme codicistiche del lavoro (47).
Quelle sopra descritte sono solo alcune tendenze, culturali e politiche, del diritto del lavoro che verrà, ma che non ha ancora preso forma di disciplina normativa concreta e attuale, e che con maggiore difficoltà potrà farlo, oggi, nello stato di emergenza che stiamo vivendo.
Nella cultura giuridica del lavoro nel nostro paese la legge n. 300 del 20 maggio 1970, che rappresenta la prima <<fabbrica>> dei diritti dei lavoratori e del sindacato (48), resta, comunque, un esempio di buona legislazione del quale non possono non tenere conto i politici del diritto del tempo presente.

(1) Il testo integrale della relazione congressuale di Giuseppe Di Vittorio si può leggere in Lavoro, 13 dicembre 1952). Di seguito alcuni passaggi importanti: <<Abbiamo il dovere di difendere le libertà democratiche e i diritti sindacali che sono legati alla questione del pane e del lavoro; abbiamo il dovere di difendere i diritti democratici dei cittadini e dei lavoratori italiani, anche all’interno delle fabbriche. In realtà oggi i lavoratori cessano di essere cittadini della Repubblica italiana quando entrano nella fabbrica […] Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa e vuole che questi suoi diritti vengano rispettati da tutti e in primo luogo dal padrone. È per questo che noi pensiamo che i lavoratori debbono condurre una grande lotta per rivendicare il diritto di essere considerati uomini nella fabbrica e perciò sottoponiamo al congresso un progetto di “Statuto” che intendiamo proporre, non come testo definitivo, alle altre organizzazioni sindacali (perché questa esigenza l’ho sentita esprimere recentemente anche da dirigenti di altre organizzazioni sindacali), per poter discutere con esse ed elaborare un testo definitivo da presentare ai padroni e lottare per ottenerne l’accoglimento e il riconoscimento solenne>>.
(2) Così Giuseppe Di Vittorio, in L’Unità, 11 ottobre 1952:<< I lavoratori sono uomini e liberi cittadini della Repubblica italiana anche nelle fabbriche, anche quando lavorano […]. Nell’ interesse nostro, nell’interesse vostro dei padroni, nell’interesse della patria, rinunciate all’idea di rendere schiavi i lavoratori italiani, di ripristinare il fascismo nelle fabbriche […]. o voglio proporre a questo Congresso una idea che avevo deciso di presentare al prossimo Congresso della Cgil […]. facciamo lo statuto dei diritti dei lavoratori all’interno dell’azienda. Formulato in pochi articoli chiari e precisi, lo statuto può costituire norma generale per i lavoratori e per i padroni all’interno dell’azienda […] >>.
(3) Tra i tanti articoli di Giuseppe Di Vittorio, v. quello pubblicato in Lavoro, 25 ottobre 1952. E ancora, è sempre Di Vittorio che parla: << La proposta da me annunciata al recente Congresso dei sindacati chimici di precisare in uno Statuto i diritti democratici dei lavoratori all’interno delle aziende ha suscitato un enorme interesse fra le masse lavoratrici d’ogni categoria. Il Congresso della Camera del lavoro di Mantova, per esempio, ha chiesto che lo Statuto stesso venga esteso anche alle aziende agricole. E qui è bene precisare che la nostra proposta, quantunque miri soprattutto a risolvere la situazione intollerabile che si è determinata nella maggior parte delle fabbriche, si riferisce, naturalmente, a tutti i settori di lavoro, senza nessuna eccezione […] La Costituzione della Repubblica garantisce a tutti i cittadini, lavoratori compresi, una serie di diritti che nessun padrone ha il potere di sopprimere o di sospendere, nei confronti di lavoratori. Non c’è e non ci può essere nessuna legge la quale stabilisca che i diritti democratici garantiti dalla Costituzione siano validi per i lavoratori soltanto fuori dall’azienda. È vero che le fabbriche sono di proprietà privata (non è qui il caso di discutere questo concetto), ma non per questo i lavoratori divengono anch’essi proprietà privata del padrone all’interno dell’azienda. Il lavoratore, anche sul luogo del lavoro, non diventa una cosa, una macchina acquistata o affittata dal padrone, e di cui questo possa disporre a proprio compiacimento. Anche sul luogo del lavoro, l’operaio conserva intatta la sua dignità umana, con tutti i diritti acquisiti dai cittadini della Repubblica italiana. Se i datori di lavoro avessero tenuto nel dovuto conto questa realtà, chiara e irrevocabile - e agissero in conseguenza - la necessità della mia proposta non sarebbe sorta; non avrebbe dovuto sorgere [...] >>.
(4) Il testo integrale della risoluzione congressuale si può leggere in Notiziario Cgil, 31 dicembre 1952. Questo è un passaggio essenziale: <<Il III Congresso della Cgil chiama i lavoratori italiani di tutte le professioni a lottare per la più energica difesa dei propri diritti costituzionali che debbono essere riconosciuti ai lavoratori anche nell’ambito delle aziende e degli uffici. Il Congresso decide pertanto di proporre alle altre organizzazioni sindacali un progetto di Statuto dei diritti dei lavoratori nelle aziende, al fine di svolgere l’azione comune e necessaria per ottenerne l’applicazione>>.
(5) Lo ha scritto, molto bene, in occasione del quarantesimo anniversario, Mario Giovanni Garofalo, Lo Statuto ieri e oggi, in Rassegna Sindacale, 29 aprile 2010: << Il testo costituzionale, infatti, pur proclamando importanti princìpi di libertà, non aveva innovato l’assetto giuridico effettivo dei rapporti individuali e collettivi di lavoro in modo tale da costituire una trincea sufficientemente solida per difendere i lavoratori nella difficilissima situazione che si era venuta a creare negli anni 50 del XX secolo. E infatti la regolamentazione giuridica utilizzata da giudici e giuristi era essenzialmente quella del codice civile del 1942 depurata dalla giurisprudenza da ogni riferimento ai sindacati fascisti, e che attribuiva all’imprenditore, tra l’altro e in primo luogo, piena libertà di licenziamento. In questo quadro, la pur generosa lotta portata avanti da alcuni giuristi dell’epoca (Calamandrei, Crisafulli, Natoli) per porre un argine ai poteri imprenditoriali invocando il rispetto del patto costituzionale s’infrangeva contro il muro di gomma di un intero ceto di giuristi che rifiutava di applicare i princìpi costituzionali o affermando la loro non immediata applicabilità in attesa di improbabili leggi attuative ovvero, più spesso, semplicemente ignorandoli nei ragionamenti che portavano alle decisioni concrete>>.
(6) V. Giuseppe Di Vittorio, Intervento al Convegno nazionale di studio sulle condizioni del lavoratore nell’impresa industriale, promosso dalla Società Umanitaria, tenutosi a Milano il 4, 5 e 6 giugno 1954, Giuffrè, Milano, 1954. Per altri riferimenti v. Lorenzo Gaeta, Storia (illustrata) del diritto del lavoro italiano, Giappichelli, Torino, 2020, spec. p. 115 ss.
(7) Il questionario ministeriale, le risposte di CISL e Confederazione del Commercio, insieme ad uno scambio di lettere fra le varie centrali sindacali, sono pubblicati nel fascicolo di gennaio - febbraio di Dir. Lav., 1965; mentre in Riv. Dir. Lav., fasc. n. 3, 1964, p. 237 ss. si possono leggere le risposte di CGIL, UIL e CIDA. In Riv. Giur. Lav. , 1964, I, p. 60 ss. è pubblicata la risposta di questa Rivista.
(8) Questo è il testo del comunicato del CdM del 20 giugno 1969 (tratto dal Fondo Giugni. Archivio della Fondazione Pietro Nenni): << Il Consiglio dei Ministri ha approvato, su proposta del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, Sen. Brodolini, uno schema di disegno di legge recante norme sulla tutela della libertà, sicurezza e dignità dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Il provvedimento, nel titolo primo, sancisce la piena libertà dei lavoratori di manifestare il proprio pensiero e disciplina talune pratiche aziendali che possono risolversi in una limitazione della libertà e della dignità del lavoratore: le ispezioni personali del lavoratore, l’uso di certi tipi di controllo, quali l’affidamento della vigilanza a guardie giurate e i circuiti televisivi, i controlli medici sulle assenze per malattia e le sanzioni disciplinari. Nel titolo secondo, riguardante la garanzia delle libertà sindacali, viene sancita la nullità di qualsiasi atto o patto diretto sia a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non ad un sindacato, sia a licenziare il lavoratore per motivi sindacali o per aver partecipato a scioperi. Viene vietata la concessione di trattamenti economici di favore aventi carattere discriminatorio. Il provvedimento colpisce inoltre le discriminazioni per motivi sindacali, politici o religiosi, garantendo, mediante un adeguato sistema sanzionatorio, la riassunzione, in caso di licenziamento. Con il titolo terzo viene promossa l’attività del sindacato nell’impresa, conferendo alle associazioni sindacali aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché alle associazioni sindacali o provinciali di lavoro applicate nell’impresa, la libertà di costituire rappresentanze sindacali aziendali. A tutela dei dirigenti di questa rappresentanza sono riconosciuti garanzie e diritti particolari. Alle rappresentanze sindacali aziendali sono assicurati il diritto di affissione, il diritto di riscuotere contributi sindacali, la possibilità di usufruire di locali messi a disposizione dal datore di lavoro. Particolare disciplina viene data al diritto di assemblea ed al potere di indire referendum fra i lavoratori. Nel titolo quarto sono previste procedure per la repressione della condotta antisindacale. Il titolo quinto, infine, sanziona penalmente l’inosservanza di talune disposizioni poste a garanzia della personalità del lavoratore>>.
(9) Giacomo Brodolini, Discorso pronunciato al Municipio di Avola il 4 gennaio 1969, in Economia & Lavoro, 1970, n. 5, p. 567 ss. Per una raccolta dei suoi principali interventi, v. Giacomo Brodolini, Dalla parte dei lavoratori (a cura di Aldo Forbice), Lerici, Cosenza, 1979.
(10) Con queste parole Gino Giugni ha ricordato la sua esperienza ministeriale:<<Fu un momento eccezionale, forse l'unico nella storia del diritto in Italia: era la prima volta che i giuristi non si limitavano a svolgere il loro ufficio di "segretari del Principe", da tecnici al servizio dell'istituzione, ma riuscivano ad operare come autentici specialisti della razionalizzazione sociale, elaborando una proposta politica del diritto>>. V., tra i tanti scritti di Gino Giugni: Lo Statuto dei lavoratori vent’anni dopo. Intervento in Lav. Dir., 1990, p. 171 ss.; La memoria di un riformista, Il Mulino, Bologna, 2007; Lavoro legge contratti, Il Mulino, Bologna, 1989; Idee per il lavoro (a cura di Silvana Sciarra), Laterza, Bari, 2020. V. anche l’Intervista a Gino Giugni a cura di Pietro Ichino, in Riv. It. Dir. Lav., 1992, I, p. 411 ss. Per il ruolo del giuslavorista, con particolare riferimento alla Scuola di Bari, v. Roberto Voza, Gino Giugni. Il coraggio dell’innovazione, Radici Future, Bari, 2019; con riferimento all’esperienza legislativa del 1970, v. sempre Roberto Voza, Il diritto come progetto politico: Gino Giugni e lo Statuto dei lavoratori, in WP CSDLE “Massimo D’Antona.IT, n. 418/2020, destinato ad un Quaderno di Diritti Lavori Mercati, dedicato al cinquantenario dello “Statuto dei lavoratori”, a cura di Mario Rusciano, Lorenzo Zoppoli e Lorenzo Gaeta. Il fascicolo n. 3/2019 di Lavoro Diritti Europa ha dedicato una intera sezione “In memoriam. A dieci anni dalla scomparsa di Gino Giugni” che merita di essere richiamata. Oltre all’Editoriale del Direttore Piero Martello, sono pubblicati i contributi di Silvana Sciarra (Un Maestro generoso e che dava fiducia), Pietro Curzio ( Il “metodo” Giugni ), Giuliano Cazzola ( Un giurista prestato alla politica ) il video del Convegno organizzato in Senato il 5 dicembre 2019 ( con interventi di Silvana Sciarra, Paolo Grossi, Giuliano Amato ed Elena Granaglia) e l’ intervista a Gino Giugni a cura di Pietro Ichino, già pubblicata in Riv. It. Dir. Lav.,1992, cit.
(11) Federico Mancini, Ubaldo Prosperetti, Luciano Spagnuolo Vigorita, Giuseppe Pera ( poi sostituito da Antonio D’Harmant Francois), Luciano Ventura, Antonino Freni; ai quali furono aggiunti, come non giuristi, Giuseppe De Rita e Giuseppe Tamburrano.
(12) Per i lavori preparatori si rinvia ai documenti raccolti dal Senato della Repubblica, Lo Statuto dei lavoratori. Progetti di legge e discussioni parlamentari, Segretariato generale-Servizio Studi-Ufficio documentazione e ricerche, Roma, 1974. Sulla genesi della legge n. 300/1970 v. Emanuele Stolfi, Da una parte sola. Storia politica dello Statuto dei Lavoratori, con prefazione di Gino Giugni, Longanesi, Milano, 1976.
(13) Così si legge nell’editoriale <<Uno “Statuto” per padroni e sindacati>>, in Quaderni Piacentini, fasc. n. 42, 1971, p.75 ss. Ha scritto, a proposito delle posizioni politiche extraparlamentari di quegli anni, Umberto Romagnoli, Lavoro, torniamo allo Statuto, in Rassegna Sindacale, 29 aprile 2010: << …la stessa ideologia contestataria dei gruppuscoli non ha giovato perché era facile respingere le loro obiezioni definendole settarie. Erano gli anni di gruppi che si raccoglievano attorno a Quaderni Rossi, Classe, Quaderni Piacentini, movimenti intellettuali che avevano ascolto presso il sindacato di base. Tutti questi movimenti non riescono a stabilire rapporti costruttivi con il gruppo dirigente del sindacato e dei partiti, e viceversa. E questo ha avuto un effetto molto grave, poiché ci si è privati di stimoli, si è evitato di approfondire le loro argomentazioni; noi abbiamo perso qualcosa a chiudere la porta in faccia al movimento contestativo. E gli uomini che sarebbero potuti essere più attenti al dialogo, come Vittorio Foa, non erano allora molto ascoltati; sarebbero stati valorizzati solo successivamente, quando era tardi e il salto di qualità non era più possibile>>.
(14) Così Luciana Castellina, Ignorammo l’evento, eravamo proprio extraparlamentari, in Il Manifesto, 20 maggio 2020.
(15) Gli atti del Convegno di Budrio del 26 e 27 maggio 1970 sono stati pubblicati dalla Editrice Sindacale Italiana, Roma, 1970.
(16) V., sul punto, Giovanni Graziani, Il nostro statuto è il contratto. La Cisl e lo Statuto dei lavoratori (1963 - 1970), Edizioni Lavoro, Roma, 2007.
(17) V. Pietro Ichino, Mezzo secolo di Statuto: un bilancio fuori dagli schemi, in Il Giuslavorista, Focus del 19 maggio 2020.
(18) << L’azione del sindacato non si svolge in un vuoto istituzionale ed un accorto uso dell’azione legislativa è reso opportuno vuoi per consolidare le conquiste sindacali, vuoi per rimuovere ostacoli alla realizzazione di esse: così scriveva Gino Giugni, in Le ragioni dell’intervento legislativo nei rapporti di lavoro, cit., p.20.
(19) V., quale primo contributo organico, Gino Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Giuffrè, Milano, 1960. La costruzione dell’ordinamento intersindacale, generalmente e positivamente riconosciuta dalla dottrina, è stata sempre avversata da Giuseppe Pera, al quale Gino Giugni rimproverava, amichevolmente, il rifiuto, testardo, di accettarla, nonostante la generale condivisione della dottrina. V., in proposito, del giuslavorista lucchese, il saggio Sulla teoria dell’ordinamento intersindacale, in Riv. It. Dir. Lav., 1991, I, p. 526 ss. Sull’opera di rinnovamento del diritto sindacale e del lavoro degli anni ’60, v. Giovanni Tarello, Teorie e ideologie nel diritto sindacale. L’esperienza italiana dopo la Costituzione, Comunità, Roma, 1967 ( I ed.) e 1972 (II ed.).
(20) E’ questa l’opinione di Pietro Ichino, Mezzo secolo di Statuto: un bilancio fuori dagli schemi, cit., che aggiunge:<< Se un vero grave difetto può essere imputato allo Statuto del 1970, non è quello di non aver previsto il fallimento del processo di unificazione sindacale, bensì quello di aver fatto propria una strategia di protezione del lavoro interamente centrata sulla tutela degli interessi della persona nel rapporto, affidando la tutela nel mercato a un meccanismo vetusto, inefficace e anzi dannoso per i lavoratori, quale era il monopolio statale del collocamento: meccanismo cui lo Statuto dedica due articoli, il 33 e il 34, tendenti addirittura al suo irrigidimento e rafforzamento. Si dovrà attendere la fine del secolo perché quel ferrovecchio venga mandato in soffitta; e nel frattempo nessuno si occupa di progettare e ingegnerizzare i nuovi strumenti di protezione della persona che lavora nel mercato>>. Ma è davvero troppo pretendere questa accortezza dal Legislatore degli anni ’70, proiettato, come è giusto che fosse in quegli anni, nella protezione totalitaria del lavoratore subordinato nel e dal mercato del lavoro.
(21) Giuseppe Pera, Interrogativi sullo “statuto” dei lavoratori, in Dir. Lav., 1970, I, p. 188 ss.; Gino Giugni, I tecnici del diritto e la legge “malfatta”, in Politica del diritto, 1970, p. 479 ss.; Giuseppe Pera, Risposta al Prof. Gino Giugni, in Bollettino dell’Istituto di Diritto del lavoro dell’Università di Trieste, 1971, n. 49, p. 15 ss. Per il dibattito di quegli anni merita anche segnalare i contributi di Gino Giugni, Lo statuto dei lavoratori: continuità di una politica, in Economia & Lavoro, 1969, n. 4, p. 377 ss.; Il diritto sindacale e i suoi interlocutori, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1970, p. 369 ss.; Esperienza politico-economica con Giacomo Brodolini, in Economia & Lavoro, n. 5, 1970 p.521 ss.; Federico Mancini, Lo statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie dell’autunno del 1969, in Politica del diritto, I, 1970, p. 57 ss.); Id. Costituzione e movimento operaio, Il Mulino, Bologna, 1976; Giovanni Tarello, Teorie e ideologie nel diritto sindacale. L’esperienza italiana dopo la Costituzione, cit., 1972 (II ed.), in particolare l’Appendice. Il dibattito dottrinale e le polemiche di quegli anni sono molto bene riassunte da Maria Vittoria Ballestrero, Il contributo di Giuseppe Pera nella stagione dei grandi Commentari dello Statuto dei lavoratori, in Lav. Dir., fasc. nn. 3-4 del 2017, p. 643 ss. e da Roberto Voza, Il diritto come progetto politico: Gino Giugni e lo Statuto dei lavoratori, cit.
(22) Giuseppe Pera, Sullo Statuto dei lavoratori nelle imprese, in Dir. Lav., 1965, I, p. 143 ss.
(23) Giuseppe Pera, Interrogativi sullo statuto dei lavoratori, cit.; Id., Risposta al Prof. Gino Giugni, in Bollettino dell’Istituto di Diritto del lavoro dell’Università di Trieste, cit.
(24) Tra i tanti scritti v. Ugo Natoli, Luci e ombre del disegno di legge n. 738 sui diritti dei lavoratori, in Riv. Giur. Lav., 1969, I, p. 317ss.; Id., Epifenomenologia e <<Statuto dei diritti dei lavoratori>> ( con una postilla), ivi, 1979,I, p. 263 ss. Per l’impostazione generale e sistematica su questi temi deve essere richiamata la sua monografia: Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro. I. Introduzione, Giuffrè, Milano,1955.
(25) Gino Giugni, Le ragioni dell’intervento legislativo nei rapporti di lavoro, Relazione introduttiva alla tavola rotonda: Per una moderna legislazione sui rapporti di lavoro, in Economia & Lavoro, 1967, n. 2, p. 18 ss. Su questi temi, con diverse posizioni, v. anche Giuseppe Pera, Sullo statuto dei lavoratori nelle imprese, in Dir. Lav., 1965, I, p. 143 ss.; Id., Prospettive interne in tema di legislazione del lavoro, in Economia & Lavoro, 1967, nn. 5/5, p. 17 ss.
(26) Basta scorrere la Rivista Quale Giustizia degli anni ’70, per rendersene conto. Soprattutto gli articoli di Angelo Converso e tra questi: Lo Statuto dei diritti dei lavoratori, fasc. n. 2 del 1970, p. 102 ss. che usò l’espressione << lo Statuto delle beffe>>. L’esperienza, non solo degli anni ’70, dei “pretori d’assalto” è riassunta da Gaetanino Zecca, Diario di un giudice del lavoro, in Questione Giustizia, 27 ottobre 2014.
(27) V. gli atti del Convegno A. I. D. La. S. S. di Perugia del 22 maggio 1970, La rappresentanza professionale e lo Statuto dei lavoratori, Giuffrè, Milano, 1971 ed in particolare la Relazione introduttiva di Federico Mancini. V. anche, per diretta testimonianza dell’interessato, l’Intervista a Federico Mancini a cura di Pietro Ichino, in Riv. It. Dir. Lav., 1993, I, p. 143 ss. Per i primi commentari degli anni ’70 si segnalano: Antonino Freni, Gino Giugni, Lo statuto dei lavoratori. Commento alla legge 20 maggio 1970, n. 300, Giuffrè, Milano, 1971; Cecilia Assanti, Giuseppe Pera, Commento allo statuto dei diritti dei lavoratori, Cedam, Padova,1972; Giorgio Ghezzi, Giuseppe Federico Mancini, Luigi Montuschi, Umberto Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 1972.
(28) Vincenzo Antonio Poso, Era di maggio. Lo “Statuto dei diritti dei lavoratori” compie cinquant’anni. Quasi un racconto, in Giustizia Insieme, 20 maggio 2020.
(29) V. Gianni Arrigo (a cura di), Lo Statuto dei lavoratori: un bilancio politico. Nuove prospettive del diritto del lavoro e della democrazia industriale, De Donato Editore, Bari, 1977. Dirà Luciano Lama, Segretario Generale della Cgil: << Lo Statuto dei diritti è frutto della politica unitaria e delle lotte sindacali: lo strumento non poteva che essere una legge, ma la matrice che l’ha prodotta e la forza che l’ha voluta è rappresentata dal movimento dei lavoratori e dalla sua azione organizzata>>.
Il fondamento sindacale della legge è riconosciuto da tutti gli studiosi. Per Massimo D’Antona << Lo Statuto è la legge del sindacato in azienda >>. E questo è il giudizio di Umberto Romagnoli, le cui parole richiamano quelle di Giuseppe Di Vittorio:<< Lo statuto regola l’esercizio di diritti che spettano al lavoratore in quanto cittadino e ne sancisce la non espropriabilità anche nel luogo di lavoro. Per questo è la legge delle due cittadinanze. Del sindacato e, al tempo stesso, del lavoratore in quanto cittadino di uno Stato di diritto>>.
(30) Senza pretesa di completezza si segnalano, tra i tanti contributi, quelli di Tiziano Treu, Lo Statuto dei lavoratori: vent’anni dopo, in Quaderni Dir. Lav. Rel. Ind.,1989, n. 6, p. 7ss.; A quarant’anni dallo Statuto dei lavoratori, in Riv.It.Dir. Lav., 2011, I, p.7 ss.
La Rivista “Lavoro e Diritto” nel 2010 ha dedicato il fascicolo n. 1 al 40° anniversario dello Statuto dei Lavori, con “Il tema” dal titolo “Buon giorno, Statuto” e contributi di Luigi Mariucci, Maria Vittoria Ballestrero, Oronzo Mazzotta, Umberto Romagnoli, Lorenzo Gaeta, Lorenzo Zoppoli, Franco Liso, Bruno Caruso, Mario Rusciano e Mario Napoli. V. anche l’intervista di Tarcisio Tarquini a Umberto Romagnoli, Lavoro. Torniamo allo Statuto, in Rassegna Sindacale, cit; Mario Giovanni Garofalo, Lo Statuto ieri e oggi, cit. Per i cinquant’anni si segnala la Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale che ha dedicato, nella parte I, del n. 1 del 2020 “Il Tema” dal titolo “ Lo Statuto dei lavoratori, ieri, oggi, domani”, con contributi di Marco Revelli, Maria Vittoria Ballestrero, Marzia Barbera, Roberto Voza, Marco Barbieri, Stefania Scarponi, Edoardo Ales, Antonello Zoppoli, Rita Sanlorenzo.
Meritano anche di essere segnalati, in occasione del 50° anniversario dello Statuto, il dialogo-intervista di Vincenzo Bavaro e Pietro Ichino, a cura di Antonio Carioti, pubblicato il 16 maggio sull’inserto “La Lettura” del Corriere della Sera, dal titolo “ Lavoro, leggi, mercato, rifondiamo lo Statuto” e l’intervista parallela pubblicata sempre il 16 maggio 2020 su Avvenire, a cura di Francesco Riccardi, a Pietro Ichino ( Formazione e servizi le vere tutele che servono) e a Tiziano Treu ( Diritti di base uguali per tutti); Pietro Curzio, Lo Statuto e noi, in Questione Giustizia, 20 maggio 2020, che fa riferimento anche al rapporto intimistico con il suo Maestro Gino Giugni; Vincenzo Antonio Poso, Era di maggio. Lo “Statuto dei diritti dei lavoratori” compie cinquant’anni. Quasi un racconto, cit.; Carla Ponterio e Rita Sanlorenzo, Lo Statuto dei lavoratori dopo cinquant’anni, in Volerelaluna, 19 maggio 2020. Meritevole, anche per avere un quadro d’insieme, è la rassegna degli articoli pubblicati sui giornali quotidiani in occasione del 50° anniversario, curata dall’Ufficio Stampa della Commissione di Garanzia dello Sciopero, messa a disposizione dei lettori con un Focus.
(31) Sulle vicende, anche storiche, intrecciate con la cultura giuridica del lavoro e i contributi dei giuslavoristi, v. Pietro Ichino (cura di), Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana. Teorie e vicende dei giuslavoristi dalla Liberazione al nuovo secolo, Giuffrè, Milano, 2008, ed in particolare i contributi dello stesso Pietro Ichino, I primi due decenni del diritto del lavoro repubblicano dalla liberazione alla legge sui licenziamenti, p.4 ss., e di Raffaele De Luca Tamajo, Gli anni’70: dai fasti del garantismo al diritto del lavoro dell’emergenza, p. 79 ss.
(32) Maria Vittoria Ballestrero, Uno statuto lungo cinquant’anni, in Riv. Giur. Lav., 2020, I, p.20: << In questo diritto del lavoro farraginoso e caotico resiste, rara avis, la legge n. 300/1970, che a cinquant’anni dalla sua emanazione costituisce ancora uno snodo della vicenda del diritto del lavoro del nostro paese; uno snodo dal quale non è consentito prescindere, pure nel susseguirsi di stagioni nelle quali è diventato sempre più difficile parlare il linguaggio della protezione dei lavoratori, dei diritti non negoziabili, delle norme inderogabili, che era appunto il linguaggio dello Statuto>>(21).
(33) V., tra i tanti, Mario Giovanni Garofalo, Lo Statuto ieri e oggi, cit. : << Lo Statuto dei lavoratori ha un valore simbolico ben più forte e più ampio di quello che sia il suo pur importantissimo contenuto normativo. Così è stato prima della sua approvazione, quando era la bandiera intorno alla quale si sono radunate grandi masse di lavoratori contro l’assetto di potere esistente nei rapporti di produzione; così ha continuato a essere quando le modificazioni avvenute nei rapporti di forza interni al sistema di produzione hanno consentito agli imprenditori di riconquistare province perdute in precedenti fasi di lotta nel nome della necessità di profonde ristrutturazioni dell’apparato produttivo. E questo valore simbolico è ancora quello che era nella proposta di Di Vittorio, che i rapporti di produzione sono subordinati ai valori costituzionali, che il lavoro non è una merce, che il lavoro deve essere strumento di promozione della persona umana e di partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del nostro paese>>.
(34) Quella che segue è la parte finale dell’Intervento di Pietro Ichino in occasione del dibattito sul quarantennale, tratto dal resoconto stenografico della Seduta antimeridiana del 20 maggio 2010 al Senato:<< Lo Statuto – che pure nell’immediatezza della sua emanazione venne tacciato di essere una legge malfatta – è stato invece esemplare per semplicità, chiarezza ed aderenza agli equilibri del sistema di relazioni industriali. Subito distribuito in milioni di esemplari in ogni luogo di lavoro, in ogni angolo del Paese, esso in pochi mesi ha saputo cambiare profondamente la cultura del lavoro nel nostro Paese, perché è stato letto e capito direttamente dai milioni dei suoi destinatari, lavoratori e imprenditori, conseguendo uno straordinario grado di effettività. Questi beni inestimabili – semplicità, chiarezza, effettività, aderenza agli equilibri del sistema di relazioni industriali – sono però andati ben presto perduti nella nostra legislazione del lavoro. Nel momento in cui celebriamo i 40 anni di questa legge straordinaria, credo che tutti dobbiamo assumere l’impegno, un impegno possibilmente bipartisan, a recuperare questi beni ed, in particolare, a ristabilire un corretto rapporto tra sistema delle relazioni industriali e legislazione del lavoro. Consapevoli che quando – come oggi diffusamente accade – la legge viene di fatto disapplicata, è la democrazia stessa ad essere messa fuori gioco>>.
(35) Per un quadro di sintesi v., da ultimo, Vincenzo Di Cerbo, Lo Statuto dei lavoratori cinquant’anni dopo, in Il Giuslavorista, Focus del 15 maggio 2020.
(36) V., in proposito, Riccardo Del Punta, Statuto dei lavoratori e futuro delle relazioni di lavoro, testo scritto della sua relazione presentata al Convegno organizzato dal CNEL il 19 maggio 2020 in occasione del 50° anniversario dello Statuto, destinata ai Quaderni del CNEL.
(37) Per alcune indicazioni essenziali: Ipotesi di lavoro per la predisposizione di uno Statuto dei lavori a cura di Marco Biagi e Michele Tiraboschi, elaborate su incarico del Ministro del Lavoro Tiziano Treu (1997-1998); Marco Biagi, Progettare per modernizzare, Introduzione alla documentazione progettuale raccolta in Tiziano Treu, Politiche del lavoro, Il Mulino, Bologna, 2001; Relazione conclusiva del Presidente della Commissione di Studio per la definizione di uno <<Statuto dei lavori>>, Prof. Michele Tiraboschi, consegnata al Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali il 19 marzo 2005.
(38) V., tra i tanti, Simone D’Ascola, La collaborazione organizzata cinque anni dopo, in Lav. Dir., fasc. n. 1 del 2020, p. 3 ss.; Oronzo Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione, in Labor, fasc. n. 1 del 2020, p. 3 ss.
(39) V., tra i tanti, Gaetano Zilio Grandi, Marco Biasi ( a cura di ), Commentario allo Statuto del lavoro autonomo e del lavoro agile, Cedam, Padova, 2018; Luigi Fiorillo, Adalberto Perulli ( a cura di), Il Jobs Act del lavoro autonomo e del lavoro agile, Giappichelli, Torino, 2018.
(40) Sia consentita solo la citazione del volume della Consulta Giuridica della CGIL a cura di Umberto Carabelli e Lorenzo Fassina, La nuova legge sui riders e sulle collaborazioni etero-organizzate, Atti del Seminario del 17 dicembre 2019, Ediesse, Roma, 2020.
(41) La proposta di legge di iniziativa popolare della CGIL, Carta dei diritti universali del lavoro. Nuovo Statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori, si può leggere in Riv. Giur. Lav., 2016, Documentazione, p. 233 ss. e anche sul sito della CGIL, con un Commentario, a più voci, curato da Umberto Carabelli e Lorenzo Fassina.
(42) La proposta della Rivista << Diritti Lavori Mercati>> Disciplina delle relazioni sindacali, della contrattazione collettiva e della partecipazione dei lavoratori e la relativa Guida alla lettura sono stati pubblicati in Dir. Lav. Merc., fasc. n. 1 del 2014, p. 156 ss.
(43) La proposta elaborata dal Gruppo << Freccia rossa>> è stata pubblicata con il titolo Norme in materia di rappresentatività sindacale, di rappresentanza in azienda e di contrattazione collettiva nell’Osservatorio di Riv. It. Dir. Lav. fasc. n. 4, parte III, 2015, p 205 ss., che presenta talune differenze, anche significative, rispetto ad una prima versione del testo dal titolo Norme in materia di rappresentatività sindacale, di rappresentanza in azienda ed efficacia del contratto collettivo aziendale, fatta circolare in vista della presentazione della proposta in occasione di un seminario appositamente organizzato a Roma il 9 febbraio 2015.V. anche, su queste problematiche, il Quaderno n.1 del 2016 della Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, dal titolo L’attuazione degli articoli 39 e 46 della Costituzione. Tre proposte a confronto, che raccoglie gli atti del Convegno di Roma del 13 aprile 2016.
(44) V. Giorgio Ghezzi ( a cura di), La disciplina del mercato del lavoro. Proposte per un Testo Unico, Ediesse, Roma, 1996, ed ivi le proposte formulate da Piergiovanni Alleva e Massimo D’Antona.
(45) Per un inquadramento di questo tema v. Marco Biasi, Il nodo della partecipazione dei lavoratori in Italia. Evoluzioni e prospettive nel confronto con il modello tedesco ed europeo, Egea, Milano, 2013. Merita di essere segnalata la proposta lanciata il 6 maggio 2020 da Gaetano Zilio Grandi e Marco Biasi, dal titolo Una proposta in tema di partecipazione dei lavoratori in attuazione dell’art. 46 della Costituzione. Per un nuovo assetto delle relazioni industriali italiane oltre l’emergenza Covid-19, pubblicata sul sito AISRI per condivisione con la comunità dei giuslavoristi ed opportuna discussione.
(46) Il Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile di Bruno Caruso, Riccardo Del Punta e Tiziano Treu lanciato il 20 maggio 2020 è stato pubblicato sul sito web del CSDLE “Massimo D’Antona”. Questi Autori hanno anche curato il saggio Il diritto del lavoro e la grande trasformazione. Valori, attori, regolazione, Il Mulino, Bologna,2020.
(47) Tutta la documentazione relativa al Codice semplificato dei rapporti di lavoro e alla flexicurity può essere consultata sul sito www.pietroichino.it . La Rivista Lavoro Diritti Europa, nel fascicolo n. 1 del 2018 ha ospitato il saggio del giuslavorista milanese, Il problema della semplificazione del diritto del lavoro.
(48) Questa è l’espressione che ho usato in Era di maggio. Lo “Statuto dei diritti dei lavoratori” compie cinquant’anni. Quasi un racconto, cit.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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