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Non nascondo, Professore Carinci, di sentirmi onorato, oltre che compiaciuto, di poterLa intervistare per Lavoro, Diritti Europa. Forse anche per questo Le proporrei, a beneficio mio prima ancora che degli stessi lettori, di seguire inizialmente un’ideale linea diacronica. Ricordo benissimo una metafora cui Lei ricorse nelle riflessioni conclusive di una delle passate edizioni dei Seminari di Bertinoro. Nel descrivere plasticamente il Suo percorso (se ho correttamente inteso, di vita, oltre che accademico), Lei fece riferimento ad un viaggio in ascensore così rapido che, a dispetto della notevole distanza percorsa, si finisce per giungere in cima senza avere tempo e modo di accorgersene. Per quanto, mi permetto di osservare, il Suo pensionamento non sia stato affatto un “capolinea”, vista la Sua perdurante influenza all’interno della comunità scientifica, l’immagine evocata mi consente di aprire il nostro dialogo partendo dal … piano terra. Ci parli, Professore, del Franco Carinci giovanissimo studente.

 

Se potessi andare indietro in un tempo, che a voi sembrerà addirittura inesistente, a quando frequentavo le elementari al Collegio San Luigi, tenuto dai Padri Barnabiti, mi ritroverei costretto col mio grembiulino nero dentro il tipico banco di legno bi-posto, con il ripiano discendente bucherellato dai tarli e fregiato dai nomi di alunni passati, orlato in cima dalla scanalatura per la penna e il pozzetto per il calamaio. E di fronte, troneggiante dietro la cattedra, fiancheggiata dalla terribile lavagna, quello che io ho considerato l’unico vero maestro, che per essere tale non aveva bisogno della maiuscola; anche se, poi, di lui mi è rimasto solo il cognome, Menetti, e l’aspetto fisico, un giovane sottile fra i venti e i trenta anni. Mentre su tre file di banchi sedevano, a due per due, i miei compagni di allora, tutti rigorosamente maschi, come sarebbe stato fino al termine del liceo, lasciando almeno a me quasi intatta quella curiosità verso l’altra metà del cielo, destinata ad accompagnarmi per tutta la vita.

Menetti era il Maestro, i miei compagni erano la scuola: alcuni scomparvero col passaggio alle medie, altri continuarono con me il corso di studi successivo; ma molti mi sono rimasti impressi con i loro volti bambini destinati a non invecchiare mai, come fissati in quelle foto di fine anno in bianco e nero, che una volta tappezzavano gli album di famiglia. Solo che quelli sopravvissuti avranno tratti che farei fatica a riconoscere, perché, come cantava De André, non è il tempo che passa, ma noi che passiamo.

Possiamo dunque affermare che il Menetti sia rimasto, in un certo senso, il Suo primo Maestro?

In effetti sì, in quella fase della vita c’è di più di un futuro racchiuso nella mano. C’è qualcosa su cui io sono stato in grado di costruire il mio futuro: ho appreso a distinguere una lettera dall’altra, a comporre una parola, a compitare una frase, a dar forma a quello che vedevo, sentivo, provavo; ho imparato a trattare coi numeri e a giocare con le tabelline con la stessa naturalezza con cui saltavo i quadrati tracciati col gesso sul lastricato stradale.

Soprattutto, ho fatto mio l’insegnamento fondamentale per cui tu sei responsabile del tuo comportamento: libero di tenerlo, ma consapevole di vedertelo addebitato. So che oggi un piccolo rimprovero verbale può essere vissuto come attentato alla dignità dello scolaro, con un codazzo di proteste, minacce, querele debitamente amplificate dai mass-media. Ma allora nessuna obiezione veniva avanzata né da noi né dai nostri genitori rispetto al graduato sistema sanzionatorio in uso: la bacchettata sul palmo della mano, la condanna a stare dietro la lavagna, l’esclusione dalla classe a far guardia alla porta esposto alla vista di quanti passassero nei corridoi, la ramanzina del Preside, la chiamata a rapporto dei genitori.

E la classe aveva una identità che proveniva dal maestro, tanto da venir conosciuta e battezzata col suo nome, non senza un senso di orgogliosa appartenenza da parte di quasi tutti gli studenti. Nulla di tutto questo sarebbe sopravvissuto nel passare dalle elementari alle medie o da queste al liceo perché al posto dell’unico maestro, sarebbero venuti i professori, diversi e distinti. Non ci sarebbe stato più un unico referente, testimone rassicurante del sapere e dell’esperienza umana in una scuola vissuta come una collettività; ci sarebbero stati tanti professori che spiegavano libri già disponibili, facevano interrogazioni e davano compiti scritti con un fare impersonale.

Impossibile, dunque, un confronto tra il Maestro Menetti e i Suoi Professori del Liceo?

Non nego di aver avuto professori che nel corso del liceo si facevano apprezzare per la chiarezza e la profondità delle loro lezioni, ma distanti e inavvicinabili, sì da avermi lasciato solo ricordi sfumati. Tutto quel lungo periodo, vissuto allora come se fosse destinato a non finire mai, mi appare ora come qualcosa di compatto, di pressato, di ridotto a un blocco unico, che, quando cerco di richiamarlo, mi ritorna solo qualche singolo episodio. Ero quel che allora si diceva un “secchione”, nel senso poi tradottosi in un criterio di lavoro divenutomi abituale, di studiare giorno per giorno, cercando di non essere colto alla sprovvista, ma così assimilando e digerendo meglio le materie, almeno quelle di gran lunga preferite, le lingue c.d. morte, la storia, la filosofia. Ma, costretto per eterni pomeriggi a starmene a casa, senza essere disturbato per niente da tv e cellulari allora inesistenti, e poco dalla vecchia radio confinata in un angolo, lessi tutti i grandi classici pubblicati nella collana economica della Bur, che compensava i bassi prezzi con caratteri tanto minuti da riuscire faticosi anche ai miei occhi giovanili. La vissi come una maniera piacevole di digerire la mancanza di alternative; ma, poi, la considerai la fonte autentica di quel tanto di fantasia e di ricchezza lessicale di cui avrei usufruito nel parlare e nello scrivere.

Dal Liceo all’Università. Perché giurisprudenza? Come visse questo primo, decisivo passaggio e come descriverebbe l’Università di allora agli studenti e alle studentesse di oggi?

Non avrei dovuto fare Giurisprudenza, ma un giorno mio fratello, che mi aveva sempre preceduto negli studi, dandomi al tempo stesso ombra e sicurezza, tornando da una sua visita in chiesa, ci comunicò, nel silenzio generale, che “qualcuno” gli aveva “ordinato” di iscriversi alla Facoltà di Medicina. Così, stanco di calcarne le orme, optai per quella Facoltà anonima ed anodina quale mi appariva Giurisprudenza, portandomi dietro il duplice disagio per un Dio ignoto, che mi aveva costretto a cambiare percorso e per un diritto che all’inizio mi sembrò freddo ed ostico. Ma, se anche tentato nel mio primo anno pur ricco di “trenta e lode” di tornare indietro, continuai il cammino iniziato in quel remoto 1958, indossando un robusto paraocchi, per non essere disturbato da nient’altro.

Imparai che anche quando non esiste predisposizione univoca per questa o per quella professione, rimane pur sempre la possibilità di sfruttare una normale intelligenza che, quando c’è, è polivalente, tale da potersi applicare a un’ampia gamma di materie. Soprattutto appresi che la pretesa di camminare e procedere con la spinta costante di una passione coinvolgente è erronea; non lo appresi però sulla mia pelle, perché tale passione per il diritto non la nutrivo, ma sulla pelle di qualche compagno di strada, che partito a mille con la furia di un innamorato, ritrovai dopo un breve tratto del tutto svuotato ed inerte.

La tenuta sulla lunga distanza non è alimentata dalla passione, ma dalla volontà, la quale porta a superare la stanchezza, la disillusione, la frustrazione prodotte da una meta che più sembra avvicinarsi, più risulta allontanarsi ad ogni svolta. Un occhio sempre attento al cammino, per cogliere a tempo ogni segno che lo confermi come quello scelto, poi un passo, un altro, un altro ancora, senza chiedersi ossessivamente se sia l’ultimo prima del caldo tepore del rifugio. È quello che ben sa chi pratica la montagna, lo faccia a piedi o a pedali, come mi successe risalendo con la mia bici da corsa la via che da Bormio porta al passo dello Stelvio: sbucato dal primo tratto occultato nella pineta, mi ritrovai di fronte un’enorme mole massiccia, segnata da una serpentina che vi si inerpicava fino ad un puntino biancheggiante ad una distanza siderale; e mi imposi di guardare di volta in volta solo fino al prossimo tornante, masticando pezzo a pezzo ciò che non sarei stato in grado di inghiottire in un solo boccone.

Ero e restavo un estraneo in quella Facoltà frequentata dai figli quasi tutti maschi delle famiglie della medio-alta borghesia bolognese, molti dei quali licenziati dal liceo classico per antonomasia, il Galvani. Provenivo da una famiglia di emigranti di prima generazione dalla terra di Abruzzo, col padre venuto a studiare medicina a Bologna, dove s’era fatto una famiglia e s’era ingegnato per sfondare in ambiente assai più chiuso di quanto una certa leggenda urbana voglia lasciar credere; una famiglia ripiegata su se stessa, conservatrice e arroccata nella sua visione severa della vita, dove studiare non era un dovere ma una condizione di sopravvivenza come respirare e mangiare; e conseguire una buona media scolastica era una cosa tanto scontata da non meritare considerazione o lode alcuna. Studiai con una solerzia sempre più faticosa, senza disdegnare una esperienza di politica studentesca, che mi portò a fondare il primo Consiglio degli studenti della Facoltà, dove appresi essere possibile, pur con riguardo agli ottimi professori allora in forza - fra cui ricordo Bigiavi, Bassanelli, Caffè, Giorgianni, Luzzatto - trattarli rispettosamente quando insegnavano e paritariamente quando organizzavano lezioni ed esami.

Di quegli anni mi sono rimasti due insegnamenti assai profondi e decisivi che, per quanto personali, penso di poter menzionare, perché c’è sempre l’uomo dietro il professore, che ne condiziona consapevolmente o meno non solo il comportamento, ma anche l’insegnamento: il primo è che il problema dell’esistenza di Dio non è logicamente risolubile, ma soprattutto non è eticamente rilevante, perché nonostante quanto pensava il grande Dostoevskij, se anche Dio non esistesse, pur sarebbe possibile contare su una legge morale condivisibile; il secondo è che l’amore è una di quelle sostanze che, a seconda delle dosi con cui vengono assunte, possono essere salvifiche o mortali.

 

Per ogni studente la laurea è un momento chiave, non solo in sé, ma anche e soprattutto perché costringe a prendere atto di essere diventati (o di dover diventare) adulti. Io ricordo di aver vissuto quel passaggio come un vero salto nel vuoto e forse per questo mi rimase particolarmente impressa, qualche anno dopo, una sottile, quanto filosoficamente impegnativa, battuta di un collega statunitense, che, prossimo alla pensione, mi disse di non aver mai temuto i cambiamenti, essendo sempre vissuto in una casa priva di specchi. Come affrontò Lei quella delicata fase della vita, inevitabilmente colma di dubbi e di incertezze? Cosa o chi La spinse ad intraprendere il cammino dello studioso e…perché il diritto del lavoro?

In realtà mi laureai nella più ostica delle materie, la procedura civile, ottenendo una tesi nella più ardua delle problematiche “L’invalidità degli atti processuali”. Il professore era Tito Carnacini, ordinario di Procedura Civile, di cui poco o nulla sapevo se non di essere stato da lui trattato con un apprezzamento all’esame di diritto del lavoro, di cui allora gestiva l’incarico. Avrei scoperto solo in seguito che, a causa del vuoto creatosi alla caduta dell’ordinamento corporativo, il diritto del lavoro era curato da docenti di altre materie.

Era l’erede di Enrico Redenti, grande studioso del processo civile, che aveva compiuto l’opera meritoria di raccogliere la giurisprudenza dei probiviri; e, come conseguenza naturale, era lui a farsi carico della cattedra di diritto del lavoro. Finissimo processualista, non dedicò neanche una pagina al diritto del lavoro, pur tenendo splendide lezioni di cui fui appassionato uditore; ma, da autentico spirito liberale, membro del Comitato di Liberazione Nazionale, anticipò la rinascita di un diritto del lavoro costituzionale. Un caso più unico che raro: fu proprio lui, non cultore della materia, a dar vita a quella che venne universalmente riconosciuta come la Scuola di Bologna.

A fronte della richiesta di cominciare a lavorare con lui, senza peraltro alcuna aspettativa che non fosse il conseguimento della libera docenza, mi misi a cercare un posto, che in quell’inizio del decennio ‘60 era difficile trovare, sistemandomi alla fine come impiegato all’Ente di bonifica del delta padano. E di lì cominciai un itinerario tortuoso che nel corso di qualche anno mi riportò all’Università, auspice Federico Mancini che era allora nel pieno della sua maturità scientifica finalizzata a ricostruire il diritto del lavoro su base civilistica, cioè saldamente radicato all’autonomia privata, individuale e collettiva. Fu lui a darmi una mano per vincere nel 1965 una borsa Fulbright per il Dipartimento di Relazioni industriali della prestigiosa Università di Cornell, facente parte della Ivy League; ma fu io a guadagnarmi là una research assistantship per l’anno successivo, avvalendomi della mia cultura classica, ben superiore a quella media dei colleghi americani. Costretto a tornare per ragioni di salute, mi rintanai nella mia camera a casa dei genitori, vivendo alla giornata, allorché, chiamato a sostituire all’ultimo momento un tizio che aveva dato forfait con riguardo ad una tavola rotonda dedicata ad una recente enciclica papale, conobbi Beniamino Andreatta, professore di grande spessore scientifico e politico.

Ne ebbi lì per lì qualche parola di plauso; ma qualche giorno dopo mi fece pervenire tramite Tito Carnacini l’invito ad andare a tenere il corso di Istituzioni di diritto privato in quell’Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento, allora centro per eccellenza della furoreggiante contestazione studentesca. Il mio predecessore, un ordinario di Venezia, aveva lasciato di botto una lezione in cui gli studenti gli avevano ancora una volta ripetuto in coro gli articoli del codice civile sulle servitù, s’era asserragliato in Presidenza, aveva chiamato un taxi per la stazione… sparendo nel nulla.

Era una sorta di ripescaggio in extremis, dovuto ad un personaggio come Andreatta, cui devo molto, senza mai esser stato sollecitato a restituire alcunché: un provocatore creativo, che sapeva scommettere sulle idee e sulle persone con la capacità di anticipare il futuro propria degli spiriti grandi.

E quella di Trento fu un’esperienza indimenticabile, perché mi permise di crescere in un ambiente di grande fervore intellettuale e politico, nel clima di una rivoluzione antiautoritaria che rimetteva in discussione qualsiasi legittimazione dei docenti non dimostrata sul campo, costringendoli non a fare domande su risposte a loro fin troppo note, ma a dare risposte su domande a cui non si erano affatto preparati in anticipo. Mi fu d’aiuto allora la lezione appresa da un professore americano di grande nome in quel di Cornell, che, colto in fallo da uno studente, rispose con calma, “Vi chiedo scusa, vuol dire che cercherò di essere meglio informato la prossima volta”.

Lei si è sempre detto orgoglioso di appartenere ad una “scuola”: che cosa intende con questa parola?

Per come la vedevo allora, all’inizio del mio viaggio accademico, e la vedo ancor oggi, la scuola è origine condivisa, partecipazione ad una avventura intellettuale comune, frequentazione personale, senso di appartenenza. Poi può essere una scuola più o meno buona a seconda del livello medio della sua produzione giuridica, che dipende da coloro che ne detengono la guida, conferendole l’identità, perché è a loro misura che attuano la selezione iniziale e che gli adepti iniziano la propria attività di ricerca.

Una scuola conta per l’influenza culturale che riesce ad esercitare attraverso la sua attività data  dalla produzione di monografie, saggi, contributi; dalla cura di riviste, commentari, opere collettanee, capaci di attirare la collaborazione di studiosi di varia provenienza e l’attenzione di giudici e avvocati; dall’organizzazione di seminari e di convegni ricercati e frequentati e last but not least dalla forza attrattiva espletata sui giovani migliori, perché una scuola sterile è condannata inevitabilmente alla estinzione.

Certo una scuola è stata anche garanzia di carriera per una sua tendenza ad espandersi, avvalendosi di sistemi concorsuali che privilegiavano le presenze accademiche quantitativamente e qualitativamente più forti. Ma molto e troppo è stato detto a discredito del sistema di cooptazione, imperniato sulle scuole; e comunque la si metta, una comunità scientifica non può prescindere dalla regola aurea della cooptazione, anche nella variante dell’estrazione a sorte fra i suoi componenti.

 

 

 

Può parlarci della “mitica” scuola di Bologna?

Subito a ridosso di Federico Mancini, presto destinato a percorrere altre strade - prima il Consiglio Superiore della Magistratura, poi la Corte di Giustizia Europea - c’era Giorgio Ghezzi, finissimo civilista, poi sedotto dall’impegno politico, vissuto con un altissimo senso religioso ancor prima che civile, senza mai abbandonare quella penna che sapeva usare benissimo; e, solo poco distante, Umberto Romagnoli, portato dal suo stesso percorso iniziale - quale quello di dover conciliare lo studio con un impiego all’Intersind, che peraltro lo metteva a contatto con l’effettiva realtà del lavoro - a privilegiare una politica del diritto “progressista”, tradotta con un argomentare ricco di metafore, fino a divenire una qual sorta di guru della intellighenzia di sinistra di fin du siècle.

A far quasi da transizione fra il “vecchio” ed il “nuovo”, c’eravamo Luigi Montuschi e chi vi parla, laureatici nello stesso giorno a febbraio del 1962, in Diritto del lavoro e, rispettivamente, in Procedura civile; poi, separatici, perché Luigi rimase all’Università, mentre io vi ritornai solo qualche anno dopo. Non ho dimenticato certo il mio debito iniziale, né il lungo cammino fatto insieme, con lui, sempre meritatamente un passo avanti nella carriera, fino a quando ci trovammo appaiati ad insegnare Diritto del lavoro nella Facoltà di Giurisprudenza che ci aveva visti studenti, uniti dalla comune origine, anche se a volte in contrasto sulle politiche accademiche; ma entrambi capaci di “produrre” allievi, perché se dei miei farò cenno in seguito, dei suoi ho l’obbligo di ricordare, oltre a Marco Biagi, assassinato dalle Brigate Rosse, Carlo Zoli e Patrizia Tullini, ottimi eredi al Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Bologna.

Il “nuovo” sarebbe stato costituito dalla generazione del post ‘68: Pier Giovanni Alleva, Marcello Pedrazzoli, Luigi Mariucci, Gian Guido Balandi e Marco Biagi. Allora il Diritto del lavoro era una materia estremamente attrattiva, per la sua carica innovativa; la si guardasse con rispetto alla “tecnica”, quale data dallo Statuto dei lavoratori del 1970, e/o alla “politica”, quale offerta dalla stagione della conflittualità permanente e della supplenza sindacale. Tanto che le giovani leve reclutate da un professore dal richiamo intellettuale di Federico Mancini, potevano certo essere annoverate fra il meglio della loro generazione; e il tempo ne avrebbe costituito una conferma, perché tutti avrebbero percorso l’intero itinerario fino alla cattedra, meritandola a pieno titolo per le loro opere, condotte con un grande rigore metodologico, messo al servizio di tesi innovative.

Credo sia risultato già evidente da quanto detto, la scuola non aveva una politica del diritto del lavoro che la caratterizzasse, perché Tito Carnacini era un giurista troppo serio per coltivarla senza possedere pienamente la tecnica giuslavorista necessaria a tradurla; e, comunque, era un uomo troppo liberale per imporla. Sicché fu e rimase la scuola di diritto del lavoro più pluralista del Paese, dove l’appartenenza si conquistava in forza di una prima selezione che di regola avveniva all’indomani della stessa laurea. Per Luigi Montuschi la fece Tito Carnacini, ma per me, rientrato in ritardo, e per la covata del post ‘68 la effettuò Federico Mancini, di cui posso dire per esperienza diretta che si lasciava guidare prevalentemente dal suo intuito, peraltro rivelatosi piuttosto fine, tanto da trovar pieno conforto nel giudizio di Giorgio Ghezzi, cui toccò in sorte di portare in cattedra con un sol colpo Pedrazzoli, Mariucci, Balandi e Biagi.

 

Allora era la stagione delle grandi scuole e Lei l’ha vissuta di persona: ne può fare una sintetica panoramica?

A questa stagione si deve la rinascita rigogliosa e orgogliosa del nostro diritto del lavoro, di cui ricordo quelle che andavano per la maggiore: oltre alla scuola bolognese, la milanese di Luigi Mengoni e Tiziano Treu, la pisana di Giuseppe Pera, la romana di Francesco Santoro Passarelli, Giuseppe Suppiej, Mario Grandi e Mattia Persiani, la napoletana di Renato Scognamiglio, la barese di Gino Giugni e Edoardo Ghera. Una stagione fruttifera perché sono state le opere dei capi-scuola a porre le basi della rinascita del diritto del lavoro nella sua veste privatistica, peraltro sempre più arricchita alla luce della carta costituzionale; e sono state le scuole a formare quella seconda generazione di cui io stesso ho fatto parte, destinata a gestire il consolidamento del nuovo diritto del lavoro, di cui non pochi con cui abbiamo camminato a lungo ci hanno già lasciato.

E c’erano rapporti privilegiati fra certe scuole, per la relazione personale esistente fra i capi-scuola, come esemplarmente fra Federico Mancini e Gino Giugni, rafforzata dalla affinità ideologica e culturale derivante dalla loro passata esperienza americana e dalla comune militanza socialista. Non è però che tale affinità si trasmettesse automaticamente agli allievi, di regola posizionati assai più a sinistra di loro; né che si traducesse sempre in una alleanza concorsuale, sì da dar vita a qualche esperienza traumatica, peraltro recuperata a breve.

 

 

 

Ritorniamo alla scuola di Bologna, di cui Lei ha raccontato la prima parte della storia, ma ce n’è stata una seconda, quella che l’ha vista protagonista, sì da essere chiamato a sua volta Maestro?

Federico Mancini uscì presto di scena, andando, prima, al Consiglio superiore della magistratura, poi alla Corte di giustizia europea, dopo esser stato bocciato come candidato alla Corte costituzionale da un’alleanza parlamentare Dc/Pci, per il fatto di essersi pronunciato a favore di quella divisione fra magistrature giudicante ed inquirente che rappresenta la regola prima di uno Stato di diritto, ovunque tranne che da noi dove continua ad essere considerata una eresia. E se pur Giorgio Ghezzi e, in misura minore, Umberto Romagnoli furono di fatto in grado di esercitare una  supremazia, in forza della loro anzianità e della loro credibilità scientifica, tuttavia la cosa non durò a lungo, per l’aprirsi di una divergenza circa la conduzione della scuola, ma anche per la crescente affermazione di autonomia da parte degli altri, a cominciare dal sottoscritto, presto determinato a crescere nella scuola… crescendo fuori della scuola, con una fitta rete di relazioni personali, collaborazioni scientifiche, “adozioni”.

Fu Piera Campanella, che ha percorso l’intera carriera accademica fino a ricoprire una cattedra in una università piccola, ma prestigiosa del centro Italia, ad aprire una dotta monografia, ringraziandomi come suo Maestro. Mi sono sentito a disagio, perché mi ritrovavo improvvisamente là dove avevo collocato chi in un tempo lontano si era fatto carico del sottoscritto; non potevo essere colui che allora guardavo dal basso verso l’alto con un timore rispettoso, né volevo esserlo, perché ciò avrebbe voluto dire aver compiuto un ciclo che ormai mi consegnava definitivamente e irreversibilmente al passato.

Sicché, fra il serio ed il faceto, le dissi che non si può chiamare qualcuno Maestro senza averne ricevuto un previo permesso. Mi rispose, da donna vivace fino all’impertinenza, che toccava all’allievo, e a lui solo, decidere chi appellare con questo titolo, senza che il beneficiario possa metterci parola. Rimuginai fra me e me “Maestro… perché, come, in che cosa?” Non l’avevo neanche scelta a suo tempo, perché mi sono sempre ritrovato - come Forrest Gump nell’omonimo film - qualcuno che mi veniva dietro sol perché davo l’impressione di correre con una qualche meta in testa: aveva frequentato le mie lezioni; chiesto la tesi; conseguito la laurea; rimasta parcheggiata nei dintorni fino a quando il mio braccio destro di allora, il dott. Franco Focareta - che solo l’avesse voluto sarebbe ora professore ordinario da lungo tempo, ma forse rinunciando ad un brillante futuro di avvocato - l’aveva indirizzata a partecipare ad un concorso di dottorato, in coppia con un altro giovane, Sandro Mainardi, destinato a camminare con passo robusto fino ad essere un referente d’obbligo in quel che oggi è il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Bologna, con al suo fianco altri due miei bravi e leali allievi, uno passato poi al Diritto Privato, Pietro Zanelli, l’altro, Alberto Pizzoferrato, cresciuto di molto fino a divenire un protagonista a livello europeo. Riprendendo come storia esemplare quella della Campanella, ricordo che partecipava agli esami, scribacchiava qualche nota a sentenza e qualche saggetto, si faceva vedere in studio, si dava da fare nelle iniziative collettive con funzioni di manovalanza intellettuale, fedele a quella massima che vale anche per il rapporto accademico “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Finché un giorno me la trovai davanti, dicendomi che voleva scrivere una monografia, classica e imprescindibile porta d’accesso alla carriera universitaria: più che mai una carriera scritta nell’acqua, pur se ormai era in corso la moltiplicazione dei posti a misura di una università “di massa”.

Va anche aggiunto, con un pizzico di personale malizia, che io mi stavo acquistando la fama di essere uno che sapeva “sistemare” la gente, tanto che in quegli anni sarei stato sollecitato a farmi carico oltre che dei numerosi “figli legittimi” anche di non pochi “figli adottivi”.

Così, col lento e impercettibile passare del tempo, mi ritrovai, nell’estate della mia vita, ad essere considerato maestro. Ma non dalla sola Campanella, perché la sua avventura era stata condivisa da altri, di cui posso qui fare solo un cenno, limitato ad alcuni miei “figli legittimi”, oltre a quelli già nominati, cominciando dai meno giovani ormai ascesi al soglio maggiore. Senza alcun ordine che non sia quello alfabetico: Marina Brollo, che - inviata da Michele Miscione mio allievo solo di “cattedra”, perché fu il primo da me “sistemato” come commissario, ma amico carissimo e lealissimo di una vita intera - mi disse con umiltà friulana di ritenersi adatta per insegnare nella scuola media essendosi laureata in economia, ma, poi, avrebbe rivelato la intelligenza lucida e determinata di quella gente di confine, da me ben sperimentata con mia moglie, sì da divenire una “prima donna” ben oltre la sua Università di Udine, creando a sua volta una scuola, con in primo piano Valeria Filì, ordinaria e Anna Zilli, associata; Alessandro Boscati, che avevo conosciuto nella villetta che il padre dirigente del Ministero del lavoro s’era fatto costruire in una qualche località dell’Appennino, forse lasciando a quel bimbetto un minuscolo seme destinato a maturare appieno in un futuro per lui ancora lontano, che lo ha condotto fino all’Università statale di Milano; mia nipote, Maria Teresa Carinci, che, dopo essersi laureata in diritto ecclesiastico, passò a diritto del lavoro, compiendo sotto la mia guida quella carriera cui le sue capacità ereditate dal padre, a me fratello maggiore in tutto, la destinavano, ma dimenticando, lungo la strada che l’ha portata all’Università Statale di Milano, che rinnegare la propria origine fino a contestarla apertamente non testimonia una forza interiore, né crea un’identità credibile; Gaetano Zilio Grandi, che non ricordo ora come mai ebbi a ritrovarmelo accanto, ma a fianco mi è rimasto dall’Università Ca’ Foscari di Venezia per tutti questi anni, con la sua intelligente ironia; Riccardo Salomone, chiamato da Luca Nogler all’Università di Trento, dove dirige la locale Agenzia del lavoro; Emanuele Menegatti, fautore e protagonista di un dialogo internazionale. Ci sono poi quelli che nel frattempo hanno guadagnato l’idoneità all’ordinariato, ma attendono di essere chiamati, Davide Casale a Bologna, Fabio Pantano a Parma, Giovanni Zampini ad Ancona. Il numero degli associati si è sfoltito, via via che procedevano nella carriera, a parte quelli già citati che sono in attesa di essere chiamati a ricoprire una cattedra, vorrei ricordare Susanna Palladini, associata all’Università di Parma per merito di Enrico Gragnoli, donna di poche parole e molte virtù; Luca Sgarbi, associato all’Università di Torino, un uomo intelligente ma penalizzato da un disturbo che gli ha impedito di procedere oltre; Angela Marcianò, associata all’Università di Messina, coraggiosa e volitiva in una realtà ancora poco favorevole all’altra metà del cielo.

I “nipoti legittimi” sono tanti, sicché come succede ai nonni annebbiati dagli anni, mi è a volte difficile rammentare tutti i nomi; ma comunque li terrei per me, in tempi concorsuali in cui si sussurra valere la regola di un tot prestabilito per professore, gruppo, scuola che dir si voglia. Una eccezione la faccio per Anna Montanari, ricercatrice all’Università di Bologna e per Vincenzo Cangemi, da me indicato come “l’ultimo degli ultimi”, perché al momento è proprio così, anche se poi ci sarà ancora qualcuno ad avere bisogno di una mano.

Di fatto questi, pur dispersi in vari luoghi, continuano a rimanere legati a chi ha insegnato loro a muovere i primi passi, affacciandosi di tanto in tanto alla porta del mio habitat usuale in via Santa Margherita, a ridosso della strada più chic di Bologna, via D’Azeglio. Non è mai stato solo e neppure prevalentemente uno studio professionale, ma anche e soprattutto un piccolo istituto universitario privato, dove si curavano il manuale, le riviste, i commentari, le collane… Oggi molto del carico è stato trasferito sulle spalle degli “allievi”: l’aggiornamento del manuale Carinci, De Luca Tamajo, Tosi, Treu è coordinato da Fiorella Lunardon, i due ultimi manuali (Diritto del lavoro dell’Unione europea e Il diritto del lavoro nelle pubbliche amministrazioni) sono curati dal sottoscritto, ma assieme a Alberto Pizzoferrato (il primo) e a Alessandro Boscati e Sandro Mainardi (il secondo). Altrettanto vale per le riviste tutte di fascia A, a partire da “Argomenti di diritto del lavoro”, di cui Mattia Persiani ha voluto condividessi la direzione, facendomi carico della parte giurisprudenziale, da me  affidata a Alessandro Boscati; per, poi, passare a “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, fondata insieme a Massino D’Antona, ora co-diretta da me e da Sandro Mainardi, che ne è il sostanziale gestore; e finire con “Il lavoro nella giurisprudenza”, con co-direttori scientifici, me e Michele Miscione, che ne assicura la continuità con la collaborazione di Valeria Filì. Ultima l’Italian Labour Law e-Journal, da me fondata e ora diretta da Emanuele Menegatti. 

Non faccio più nulla, no: mantengo rapporti con i colleghi “anziani”, con cui ho percorso molta della mia strada, citarli richiederebbe una lunga lista, esposta al rischio di essere incompleta, ma faccio eccezione per Mattia Persiani, il decano della materia, che mi onora della sua stima e per Paolo Tosi, studioso lucidissimo e amico dei tempi difficili; rimango sempre il referente non solo dei miei “allievi”, ma di molti colleghi più giovani, frutto, questo, di aver superato indenne l’ottantesimo compleanno; curo volumi collettanei e scrivo saggi di diritto sulle riviste, articoli di politica su Atlantico. Rivista di analisi politica, economia e geopolitica, racconti per me stesso. In tutto questo ho il supporto “tecnico” della dott.ssa Dyna Presta, senza la quale mi sarebbe impossibile procedere col mio computer, dato il mio quasi totale analfabetismo informatico.

A beneficio dei lettori e delle lettrici più giovani della Rivista, ci vuole descrivere il tipo di interazione che vi era allora con i Maestri, anche rispetto alle ricerche condotte dagli Allievi? A questo proposito, come fu la Sua prima esperienza di lavoro scientifico?

Se guardo alla mia esperienza di allora, posso affermare che non era usuale che il maestro si facesse carico di seguirci scegliendo i temi, impostando i lavori, correggendo gli scritti. Per quanto ricordo si era lasciati largamente a se stessi con unica bussola metodologica le opere dei più anziani a cominciare proprio da Federico Mancini, Giorgio Ghezzi, Umberto Romagnoli. Al massimo c’era un riscontro finale che, con riguardo al mio primo lavoro, fu addirittura fallimentare: Mancini me lo restituì, dicendomi seccamente che avrei dovuto imparare innanzitutto a scrivere in italiano. Il mio era uno stile “avverbiale”, dove l’insicurezza del ragionamento era compensata da una straordinaria spendita di avverbi all’inizio e nel corso delle frasi, sì da rendere la lettura quasi singhiozzante. Rimasi impietrito, ma fu un trauma salutare: avrei imparato con gli anni a far scaturire, con almeno un tocco di naturalezza, da un periodo quello successivo, seguendo il filo del mio pensiero senza perder tempo e spazio a farmi continuamente carico delle obiezioni avanzate in dottrina o maturate nell’incertezza della mia mente.

Si cresceva da soli, ma non in solitudine, come se si camminasse in una fila distaccata ma continua, accomunata dalla stessa direzione di marcia. C’era un luogo fisso di riunione, lo studio di Tito Carnacini, sede della Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, dove ci si trovava quasi ogni sera, con il rito finale dell’accompagnamento del professore per un tratto di un centinaio di metri fra via Guerrazzi e via Guido Reni, secondo una collocazione gerarchica che vedeva camminare fianco a fianco i professori più vecchi e più avanti nel cursus honorum, anche se era del tutto naturale che se qualcuno dei più giovani avesse avuto bisogno di conferire con il professore gli veniva fatto posto, creandogli intorno uno spazio riservato. Almeno per quanto mi testimonia la mia esperienza, Carnacini voleva gli si presentasse un problema semplice e netto, che potesse cogliere nell’essenziale. Non rispondeva subito e non amava essere sollecitato: se un allievo lo faceva, cambiava discorso; ma non dimenticava mai, sicché arrivava il giorno in cui quasi all’improvviso, ti chiamava per suggerirti o addirittura farti trovare davanti la soluzione.

Quali tappe prevedeva al tempo il percorso accademico? E come fu il Suo?

La carriera scientifica conosceva come sue tappe l’assistentato volontario, l’incarico, la libera docenza, lo straordinariato e, da ultimo, l’ordinariato Si doveva tenere un incarico annuale fuori, in giro per l’Italia, dove poi, con tutta probabilità, si sarebbe chiamato un concorso e si sarebbe sperimentato un lungo periodo di insegnamento fuori sede, con un ritorno tardivo e mai certo alla sede madre.

Il che aveva un costo famigliare, economico e fisico tutt’altro che indifferente; ma comportava un duplice vantaggio: per il singolo che cresceva lontano dalla “ingombrante” coabitazione col maestro, la quale col tempo poteva divenire asfissiante, sì da far attendere con ansia la sua uscita di scena; e per la scuola, che si moltiplicava col disseminare le sue sedi di influenza. Mancata l’ultima sessione di libera docenza, questa fu la mia storia di docente responsabile di un corso: professore incaricato di Istituzioni di diritto privato e poi anche di Diritto del lavoro all’Istituto superiore di Scienze sociali di Trento; professore incaricato di Relazioni industriali alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna; professore incaricato di Diritto di lavoro alla Facoltà di Economia dell’Università di Urbino, con sede ad Ancona; professore straordinario di Diritto del lavoro alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari; infine il ritorno, professore straordinario, poi ordinario, di Istituzioni di diritto privato e quindi di Diritto del lavoro alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna.

Un bel girovagare, che un tempo era d’obbligo, con un pendolarismo che mi ha enormemente arricchito, perché non ho mai fatto tanta vita di gruppo coi colleghi, se non allora quando eravamo costretti a vivere fianco a fianco, sia pur per due/tre giorni alla settimana o per settimane alterne; e perché ne ho conosciuti tanti ancora concentrati sulla didattica e sulla ricerca, come non capita agli stanziali, per i quali la sede universitaria è solo uno dei luoghi che frequentano quotidianamente, a volte neppure il più importante.

Ci parli, Professore, del Suo primo rapporto con l’aula. È mutato nel tempo?

Fu proprio all’Istituto Superiore di Sociologia di Trento che ebbi occasione di fare la mia prima lezione. Meglio non fu esattamente così, perché entrato nel vecchio e tetro palazzo asburgico, una volta sede della dieta imperiale, mi sentii venire incontro da una aula affacciata su un interminabile corridoio, un autentico schiamazzo, che, poi, seppi essere il modus operandi del professore Spaltro, illustre psicologo del lavoro, basato su un coinvolgimento attivo del suo auditorio. La porta successiva era la mia, totalmente silenziosa, con un paio di centinaia di studenti che mi guardava con ansiosa diffidenza, cercando di capire che cosa mai c’era da aspettarsi dal nuovo giovane docente, mandato a sostituire il vecchio più anziano e rodato che avevano costretto a scappare. L’esame di Istituzioni di diritto privato doveva essere sostenuto e superato prima di altri, ma il vuoto creatosi nella copertura dell’insegnamento li aveva bloccati. Che fare per uno assolutamente alle prime armi? Capii allora un paio di cose che mi sarebbero servite nel prosieguo, anzitutto di superare il primo confronto senza dar prova di alcun timore, facendo percepire chiaramente che io ero l’insegnante e loro gli studenti, senza dar l’impressione di considerare il rapporto paritario, tanto meno amicale. Poi, che c’è un momento in cui devi accettare un compromesso, senza irrigidirti nel rispetto assoluto del regolamento - era escluso che potessi esaminarli uno per volta, come unico commissario - quindi me la cavai dando loro una serie di domande cui rispondere per iscritto, rientrando a Bologna con due borsoni pieni di fogli protocollo.

Le mie lezioni dovettero allora scontare l’estrema caratura ideologica sottesa al diritto borghese per antonomasia, costruito sulla proprietà e sulla libertà contrattuale, costringendomi a approfondire quelli che erano i loro test sacri, a cominciare da Marx e a proseguire con Marcuse, cercando sempre, però, di convincerli che qualsiasi critica doveva essere commisurata alla normativa vigente, da studiare e conoscere al meglio.

Come ha vissuto il passaggio da una prolusione “per pochi” e su una specifica questione alla mirata analisi di uno degli istituti rientranti in un dettagliato programma d’esame comunicato, in largo anticipo, agli studenti di un’Università sempre più aperta o “di massa”? Come vede poi le nuove metodologie didattiche, tese a stimolare la partecipazione degli studenti e la loro interazione con il docente (esercitazioni, lavori di gruppo; paper, ecc.), oltre all’uso degli strumenti come le diapositive (slide)?

Solo a termine del mio pellegrinaggio da fuori sede - ritornato a Bologna per coprire, prima, la cattedra di Istituzioni di diritto privato, poi quella di Diritto del lavoro - consolidai il mio metodo di insegnamento. Al riguardo, occorre distinguere fra un corso istituzionale e monografico, dovendo quello istituzionale fornire le parole e le coordinate tipiche della materia, sì da poter contare sulla lingua e sulla panoramica indispensabili per orientarsi.

A questo serve il manuale, che, peraltro, richiede di essere accompagnato dall’insegnamento di un metodo di lettura funzionale allo stesso esame, perché non si deve mai dimenticare che questo costituisce l’obbiettivo essenziale anche dello studente migliore. Ma non è detto che il corso delle lezioni debba seguirlo pedissequamente, esaurendo tutto il materiale d’esame, può ben limitarsi a approfondire le nozioni base, affrontare gli istituti più importanti nel loro percorso evolutivo, a insegnare la ricerca e l’interpretazione sistematica delle fonti, a individuare nella natura congiunturale tipica della nostra materia la presenza di linee di tendenza che si accavallano e alternano a seconda della situazione politica, economica, sociale.

La lezione frontale era solo l’architrave portante della didattica. C’erano le esercitazioni, alcune curate da me quando si ricorreva alla c.d. clinica giudiziaria, con un caso rimesso a due studenti, nei ruoli di attore e di convenuto, poi deciso proprio da un giudice prestatosi cortesemente alla bisogna; altre gestite dai miei collaboratori a seguito della costituzione di gruppi di studio su temi particolarmente complessi. Non frequente è stato l’utilizzo di paper, più adatto ad un corso avanzato, ristretto a qualche decina di studenti; ma certo questo del rilievo assoluto concesso all’orale, ha accentuato la già scarsa capacità di esprimersi in un italiano corretto, ereditata dalla formazione pre-universitaria.

Per facilitare un esame divenuto col tempo sempre più corposo, permisi di sostenerlo in due tappe, la prima sul diritto sindacale, la seconda sul diritto del rapporto individuale di lavoro. Di norma lo studente passava prima da un collaboratore, poi veniva da me, che facevo la valutazione finale, tenendo conto fin quando è stato possibile del famoso libretto, non per abbassare il voto, ma per alzarlo quando era troppo discosto dalla media, facendo sospettare una momentanea defaillance.

A mia sorpresa scopersi che venivo considerato un professore severo, ma a mio giudizio lo erano più i miei collaboratori che il sottoscritto, forse ciò dipendeva dal fatto che cercavo di far ragionare lo studente, avvertendolo che la risposta era già orientata dalla stessa domanda, ma proprio ragionare risultava una prova non di rado impegnativa.

 

I mutamenti della didattica e dei contenuti del programma d’esame hanno influito, secondo Lei, sulle modalità dell’esame di profitto? Hanno forse reso il superamento dell’esame meno o, addirittura, troppo poco impegnativo, trovandosi gli studenti – mi si passi l’espressione – “la pappa pronta”, oppure si può ritenere che agevolare l’apprendimento consenta agli studenti di concentrarsi sugli aspetti chiave della materia ed ottimizzare il tempo di studio? Non intendo sottrarmi poi ad una domanda politicamente scomoda: avuto riguardo agli studi umanistici e a giurisprudenza in particolare, sarebbe opportuna una maggiore “selezione” interna (se non addirittura alla fonte, tramite il numero chiuso), oppure è meglio continuare ad affidarsi ai meccanismi di auto-regolazione del mercato, salvaguardando così anche il diritto allo studio?  

Di regola i frequentanti erano già di per sé i più motivati, poi traevano vantaggio dalla partecipazione alle lezioni, alle esercitazioni, agli esami in due fasi, sì da risultare nettamente migliori. I non frequentanti erano di gran lunga i più, ma scontavano frequentemente la non partecipazione alla didattica, rivelando una preparazione mnemonica; e qui si innesta la risposta alla sua domanda indiscreta.  

Il numero degli iscritti era esorbitante, pur con la moltiplicazione dei corsi, sì che l’eventuale ritorno all’obbligo di frequenza, non rispettato neppure ai miei tempi, avrebbe richiesto di incrementare di molto la risposta didattica. La riforma della doppia laurea, triennale e quinquennale, per decantare la pressione numerica, è fallita, perché quella triennale non dava sbocco né sulle tipiche professioni forensi, né sulle carriere pubbliche, costituiva pur sempre un titolo minore e sottovalutava la funzione, se pur anomala, di parcheggio di studenti estremamente incerti sul loro futuro.

Il numero chiuso era ed è politicamente impraticabile con riguardo ad una laurea che viene scelta per la sua plurivalenza potenziale sul mercato del lavoro, se pur destinata ad essere largamente delusa. Funzionava una qual sorta di correzione in itinere dell’eccessiva affluenza, quale costituita da una elevata percentuale, prima, di abbandoni dopo il primo anno, poi, di fuori corso, pratica non certo fisiologica, eccessivamente dispendiosa per l’Università e per chi la faceva propria.

Non esiste una risposta facile ed univoca. Fondamentale è l’anticipazione della scelta nella ultima tappa dell’istruzione superiore di una corsia coerente con quella laurea che si intende scegliere, cercando di incentivare, tramite una massiccia campagna di orientamento, la propensione verso una laurea scientifica, specie da parte della popolazione femminile. Aggiungerei, per personale esperienza, l’opportunità di una gestione più selettiva anche della laurea in legge, con sbarramenti alla fine del primo anno di frequenza, da superare in un tempo predeterminato; non che di una ragionevole durata massima di permanenza nella posizione di fuori corso.

Da ultimo, veniamo al presente (che tutti noi auspichiamo diventi presto passato) della didattica. Come avrebbe vissuto la stagione della didattica universitaria a distanza? E cosa resterà dell’esperienza dei Webinar?

Come ho già detto l’architrave della didattica è sempre stata per me la lezione frontale, fatta in presenza, perché permetteva una relazione personale con la platea, nella continua fatica di ottenere la sua attenzione, senza darla mai per scontata. Non era una pratica acquisita una volta per sempre, perché nel trascorrere da una generazione all’altra, ci si poteva trovare di fronte ad una qual sorta di rivoluzione, dalla contestazione, più o meno esplicita, alla acquiescenza totale. Non bastava essere bravi nella ricerca, la didattica era ormai diventata tutta una altra cosa, che richiedeva una sua tecnica nel parlare, ma soprattutto permetteva una grande libertà rispetto alla mera esposizione manualistica, con richiami a quella storia della nostra repubblica, che non avevano né conosciuto personalmente né studiato, esempi tratti dall’attualità, concetti resi per immagini, aforismi, anche scherzi per allentare lo sforzo richiesto dall’ascolto. Tutto questo lasciando trasparire il preciso ricordo di essere stato giovane come loro, con quel misto di ansia e di curiosità per il futuro che contraddistingue il passaggio dall’essere alunno etero-organizzato dal docente a essere studente auto-organizzato.

La cosa più difficile, ma certo indispensabile per un professore di diritto, era di abituarli a far convivere la certezza di alcuni valori cardine, suggeriti ma non imposti con tono moraleggiante, e la relatività dei regimi giuridici, tanto più in un settore come il nostro, dove l’elemento centrale, quale dato da rispetto della persona in un rapporto del tutto asimmetrico in termini di potere, si confronta continuamente con l’evoluzione economica e tecnologica.

Per quanto abbia capito, seguendo un corso di diritto del lavoro offerto da una università telematica, pur tenuto da un ottimo collega, tutto questo mancava, il discorso veniva fuori tecnicamente perfetto ma umanamente povero, tanto più che sembrava rivolto ad un signor nessuno, che non riusciva a restituire neppure un silenzio percepibile. Mi avessero lasciato la lezione frontale, tenuta in presenza, avrei potuto accettare di integrarla con esercitazioni in Webinar, scontando, però, la tendenziale difficolta degli studenti ad interloquire, sì da doverla superare con sollecitazioni fatta ai singoli studenti, chiamandoli direttamente in causa.

Veniamo al Maestro Franco Carinci: quando si è sentito tale per la prima volta? E quando ha avuto contezza di fatto di essere divenuto un Caposcuola? E ora? Con riguardo alle scuole più in generale, Le pare che in questo momento prevalga il modello dell’accentramento o – ricorrendo ad una terminologia in voga qualche tempo fa – la “devolution”?

La c.d. scuola bolognese ha continuato a svilupparsi su tre rami, facenti capo oltre che al sottoscritto, a Luigi Montuschi a Bologna e a Gian Guido Balandi a Ferrara: sono stato solo il più prolifico, forse perché passando per il più intraprendente, potevo contare su un più ampio reclutamento. Quanto al modello, se per accentramento, si intende un controllo prevalente delle scuole, così come consolidatesi nel secolo scorso, questo si è certamente attenuato, senza, peraltro, scomparire. Volendo cercare le ragioni, si può cominciare a sottolineare l’estrema difficolta di successione rispetto ai fondatori, la moltiplicazione della gente in carriera, con l’emergere di posizioni culturali o personali difficilmente mediabili, la stessa disciplina della selezione concorsuale, su cui ho già avuto occasione di soffermarmi, ma che vale la pena di riprendere. Oggi la commissione per l’idoneità all’ordinariato e all’associazione viene estratta fra gli ordinari in regola con le richieste mediane scientifiche, sì da affidare alla fortuna quella che vorrebbe essere una scelta meritocratica, assai meglio garantita, nonostante tutto, dalla precedente elezione della stessa commissione. Una volta conseguita l’idoneità, destinata a valere per una certa durata pluriennale, non si è neppure a metà strada, perché occorre essere chiamati dalla singola Università in base ad un ulteriore concorso del tutto addomesticabile. Ogni università finirà per privilegiare come associato il ricercatore e come ordinario l’associato già presente nei suoi ruoli, per consuetudine e per economia.

Col che quella mobilità che permetteva l’espansione delle scuole - col mandare i propri figli a fare esperienza in sedi minori, togliendole queste dall’isolamento scientifico, per poi ritornare nella sede madre - è venuta meno. Di regola si fa carriera solo nell’Università in cui si è entrati come ricercatori, contando poi sulla notevole generosità con cui la commissione concorsuale pro-tempore concede le idoneità di associato e di ordinario.

Parliamo del rapporto del Maestro con le allieve e con gli allievi: quanto può o deve essere oggi intenso il “controllo” (se vogliamo, la supervisione) sulla produzione scientifica e, più in generale, sulle scelte strategiche? Mutuando un lessico a noi ben noto, meglio la etero-direzione/etero-organizzazione o l’autonomia/auto-organizzazione, oppure, in questo caso, si può ricorrere ad un tertium genus?

Ne ho già parlato a proposito di Piera Campanella, anche se non esisteva un modello unico, variando con riguardo ad ogni allievo, in funzione del suo carattere. In genere, dopo la predisposizione di una tesi apprezzabile, a conclusione di una buona se non ottima votazione in sede di laurea, c’era una partecipazione alle esercitazioni ed una presenza attiva agli esami in compagnia di una persona già di ruolo, accompagnata da una produzione scientifica iniziale, commenti a sentenza e saggi. Il titolo della prima (associazione) e della seconda (ordinariato) monografia mi veniva di regola sottoposto, con uno schema di massima, poi c’era chi procedeva fino in fondo da solo e chi aveva piacere di affidare alla mia lettura almeno le prime parti. Naturalmente questa attività è stata in seguito svolta anche da quelli più anziani già arrivati, a favore dei più giovani ancora in itinere, proprio per la comune identità conferita dall’appartenere alla stessa scuola.

Quelle che lei considera le scelte strategiche erano riservate al sottoscritto, come esclusivo titolare della politica estera, con riguardo ai tempi e ai modi della carriera di ciascuno. Avevo imparato sulla mia pelle che uno può ben difficilmente auto-promuoversi da solo; certo il merito contava, ma ci deve essere qualcuno già stagionato che fosse abbastanza autorevole da farsene garante. Sostanzialmente questo “modello organizzativo” non è cambiato col tempo, se pur scontando inevitabilmente il deperimento del sistema delle scuole delle cui ragioni ho fatto già cenno.

Il diritto del lavoro è una disciplina in cui i valori e le concezioni ideologiche del Maestro influenzano l’allievo in modo più pregnante rispetto ad altre? E più in generale, le proprie concezioni ideologiche rischiano di influenzare lo studioso in modo diverso e più radicato rispetto ad altre? È una disciplina in cui davvero, forse inconsapevolmente, si rischia di dover scegliere – come talvolta si dice a livello di opinione pubblica – “da che parte stare”, propendendo per un approccio più vicino alle istanze, alternativamente, dei lavoratori o dei datori di lavoro?

In che maniera si atteggia il rapporto da maestro e allievo in una materia così pregnante come il diritto del lavoro? Risponderò con una battuta che non è una regola: in una scuola in cui i maestri sono schierati più o meno apertamente su una precisa linea politica, si ritrovano spesso allievi della stessa tendenza; in una scuola in cui maestri non lo sono, si trovano allievi di varia tendenza. Ora io non ho mai cercato di seguire una precisa politica del diritto, né ho preteso che lo facessero i miei allievi, ma non ho privilegiato fughe in avanti che non fossero sostenute dalla coerenza e dalla capacità persuasiva della argomentazione.

Detto questo, non c’è dubbio alcuno che il diritto del lavoro sia un diritto strabico per origine, storia, consacrazione costituzionale. Ma se questo è stato fino all’altro ieri un dogma assoluto, cui rendere omaggio a prescindere dal proprio credo politico, almeno da ieri qualcosa è andato cambiando. Appare ormai parziale quell’approccio che parte dallo squilibrio fra datore e lavoratore sul mercato e nel luogo di lavoro, e che tende a correggerlo attraverso l’uso dello strumento giuridico: alla fin fine tutto finiva per convergere sulla difesa del singolo lavoratore, ma, secondo un distinguo collaudato, dell’insider a scapito dell’outsider.

Al di là dell’aspetto “micro” del diritto del lavoro, di conservazione del patrimonio garantista e del posto del lavoratore occupato, c’è un aspetto “macro” che alla fin fine condiziona pesantemente il primo, cioè, di strumento di governo del mercato del lavoro da usare in modo coerente rispetto ad un progetto complessivo che guardi meno al singolo posto di lavoro è più al livello quantitativo e qualitativo occupazionale. 

Solo che, col tramonto quel diritto del lavoro “classico” tutto impregnato dello spirito dello Statuto dei lavoratori, si è affermato un diritto congiunturale, febbrile e confuso, fatto e disfatto col cambio a Palazzo Chigi, fino a divenire del tutto emergenziale con l’arrivo del Covid. Ma questo non esclude il tentativo di individuare, sotto lo spumeggiare delle superfici, il flusso di grandi correnti, di cui rintracciare l’inizio e seguire il corso.

 

Lei è stato accusato in passato di essere una sorta di regista del sistema dei concorsi: pensa di dover fare auto-critica sotto tale aspetto?

No, non credo proprio. Fosse vero che sono stato una sorta di regista dei concorsi, molti di quelli andati in cattedra in forza di quel sistema, dovrebbero non criticarmi, ma ringraziarmi. Se qualcosa mi è addebitabile è stata la preoccupazione di evitare conflitti che avrebbero potuto penalizzare proprio alcuni meritevoli considerati figli di nessuno; bastava una leale programmazione, che fosse in grado di soddisfare nel tempo le aspettative dei candidati non solo “di scuola”, ma anche di “opinione”. Chi parla di inosservanza della meritocrazia, dimentica volutamente che una commissione concorsuale alla fin fine delibera a maggioranza secondo una soluzione compromissoria destinata a rimanere, se ben motivata, del tutto insindacabile. Non tenerne conto avrebbe significato violare una regola da me tenuta sempre presente, cercare di promuovere quelli che a mente fredda appaiono i migliori, se pur a costo di far entrare anche i mediocri. Se questa regola è stata applicata ai miei allievi lo può rivelare pienamente quello che sono diventati nel panorama scientifico nazionale ed internazionale.

Tanto per restare sul tema della Sua influenza, sembra che Lei l’abbia esercitata con successo all’interno dell’associazione di categoria, l’Aidlass.

Bene, per quanto possa suonare strano visto il mio caratteraccio, sono sempre stato un uomo abile nel creare intese, per una virtù riconosciutami largamente, cioè di avere una sola parola e di darla solo quando assai certo di poterla mantenere. Dopo che, su mia proposta, il sistema di votazione del Consiglio direttivo è stato cambiato, con un voto per ogni singolo associato non più esteso a tutti gli undici componenti, ma ristretto solo a sei, sì da garantire la presenza di una minoranza di cinque, divenne pratica costante confrontarsi con due liste opposte, ciascuna guidata da un candidato presidente. A suo tempo rivestii anch’io quel ruolo, poi divenni il referente della componente “moderata” vis-à-vis di quella “radicale”, riuscendo da ultimo a contribuire alla vittoria ripetuta della prima componente, con attuale presidente una studiosa, Marina Brollo.

Era un lusso che ci si poteva permettere in un tempo più stabile del presente, perché in fondo la posta era più che altro d’immagine, data la scarsa incidenza dell’Aidlass, principalmente competente nel disegnare sedi, temi e relatori dei convegni annuali, che, peraltro, venivano spesso concordati dall’intero Consiglio. Sono convinto che questo lusso oggi non ce lo si può più permettere, ma è difficile promuovere una intesa preventiva sul nome del candidato Presidente, che verrebbe votato come sesto di entrambe le liste, per resistenze anche personali ereditate dal passato e non superate.

 

L’Università di oggi, secondo alcune voci critiche, si sarebbe eccessivamente “burocratizzata”, tanto da costringere i docenti a farsi carico di un’ampia mole di attività ed adempimenti di carattere amministrativo che distolgono parzialmente dall’attività di ricerca. Al contempo, la produzione scientifica risulta sempre più rilevante, pure sul piano quantitativo, ai fini del percorso accademico, ed anche qui non manca chi censura una certa tendenza a “scrivere troppo”. Non è sufficiente il filtro operato dalle Riviste, anche attraverso il sistema, ormai collaudato, del referaggio anonimo?

Qualcosa in direzione di una crescente “burocratizzazione” era già avvenuto prima della mia andata in pensione. Che la cosa sia peggiorata me lo confermano quelli che la vivono oggi, con una spersonalizzazione delle relazioni fra colleghi, una volta frequenti e vivaci nei Consigli di Facoltà, sede di ogni decisione.

Posso dire che la produzione giuridica è divenuta imponente, sia per il moltiplicarsi sia delle riviste classificate in fascia A, sia delle monografie, a tutt’oggi richieste per la carriera accademica. Se, da un lato, la massa degli articoli e dei volumi è divenuta tale da escludere la possibilità di seguirla anche solo in massima parte; dall’altro, è percepibile una grande vivacità e una notevole competenza, con una forte presenza femminile.

Uno come il sottoscritto, poco portato alle monografie, potrebbe ritenere che non debbano essere conditio sine qua non per il conseguimento dell’ordinariato o della associazione, proprio perché ormai i saggi pubblicati nelle riviste di fascia A sono sottoposti ad un previo referaggio, che si deve presumere neutro, non essendo in gioco altro che una pubblicazione.  

Il fatto è che le monografie costituiscono ormai un criterio di selezione già di per sé, come testimonianza di una concentrazione costante sulla tesi prescelta per almeno un paio d’anni, con una ricognizione sistematica della normativa italiana e comunitaria, della dottrina e della giurisprudenza. Naturalmente poi rileva la loro “originalità”, come si continua a richiedere, ma la parola è molto ambigua, passibile di essere declinata in maniera molto diversa dai commissari.

 

Rimanendo sul tema delle Riviste: preconizza il futuro passaggio integrale all’online? Prevarrà, così si usa dire oggi, la “modalità mista” (cartacea e online) o, addirittura, immagina un ritorno al cartaceo integrale?

Se potessi indovinare il futuro mi piacerebbe piuttosto sapere come sarà il mondo alla fatidica data del 2050, quando la battaglia per il clima dovrebbe essere vinta. Il problema è come uno si è abituato a leggere fin dall’infanzia; e io avevo solo il libro, che amavo per se stesso, sfogliandolo lentamente, non senza sottolineare a matita qualche passaggio, quasi ad imprimerlo nella memoria. Non è che col cartaceo sparisca anche la voglia della lettura? Faccio fatica ad immaginare i “classici” letti on line; comunque, anche se co-dirigo riviste secondo la “modalità mista” e scrivo su riviste e quotidiani solo on line, preferisco stampare quello che intendo leggere, perché solo così riesco a concentrarmi sul testo.

Il fatto di essere stati entrambi impegnati in un periodo di ricerca presso l’Università di Cornell, mi offre lo spunto per discutere con Lei del contributo della comparazione rispetto alla formazione degli studiosi e delle studiose, specie più giovani. È a Suo giudizio utile, a prescindere dalla valenza a fini concorsuali, affrontare studi di taglio comparatistico e, magari, pubblicare in lingua straniera (specie in inglese, che è giocoforza divenuta la nuova koinè degli ambienti internazionali)?

Lei mi restituisce un ricordo nostalgico di quel campus tipicamente americano, dove si viveva a tempo pieno nei primi cinque giorni, per poi aver libero il weekend, che, però, richiedeva l’aereo per passarlo nella mitica New York. Mi servì molto per capire come funziona una università della Ivy League e approfondire il modello di relazioni industriali statunitense, ma non fu occasione di uno contributo comparato. Bisogna intendersi, un conto è lo studio di un sistema estero, un conto ben diverso è uno studio comparato che intende mettere in luce le somiglianze e le diversità fra quel sistema e il nostro. Entrambi sono utili, ma vero studio comparato è solo il secondo, non per nulla più impegnativo e più rilevante a livello internazionale.

Ormai le riviste hanno un abstract in inglese, e alcune sono tutte in inglese, come l’Italian Labour Law e-Journal già citato. E l’inglese è richiesto negli scambi epistolari con colleghi di altri paesi, nei corsi tenuti come visiting professor, nei convegni internazionali, nei contributi pubblicati su riviste estere. Ci sono già corsi di diritto del lavoro in inglese nelle nostre Università; io ed Emanuele Menegatti pubblicammo a suo tempo un manualetto di diritto del lavoro italiano nella lingua di Albione.

Per non parlare degli anglismi ripresi di peso anche quando non strettamente necessario, senza rendersi conto del diverso rilievo giuridico nel trasloco da un ordinamento ad un altro.

 

Sempre a proposito dei percorsi di carriera e del confronto con l’estero. Non è frequente, fuori dai nostri confini, che studiose e studiosi concentrino, per tutta la vita professionale, la propria produzione scientifica su una singola tematica, magari estranea all’ambito della didattica. Da noi, invece, si dà valore, ovviamente al netto dei lavori di carattere monografico, all’ampiezza degli interessi di ricerca, che non inficia certo il livello di approfondimento né l’impatto degli studi condotti con metodo (anzi). Quale di questi due trend prevarrà in futuro?

La continua dilatazione della materia in un sistema ormai multilivello porta inevitabilmente ad una forte specializzazione, che emerge nella produzione scientifica più recente, ma questo non esclude che possa e debba essere conciliata con una conoscenza se pur panoramica della sua estensione. In questa prospettiva richiedere attenzione ad una qualche tematica ulteriore mi sembra una buona cosa, perché, pur dando per scontato l’emersione di sottosistemi, questi vanno sempre collocati nel sistema complessivo, che, fra l’altro, rimane oggetto dell’approccio didattico.

 

In effetti la Sua ampia produzione scientifica rivela una notevole varietà, se pur con alcune tematiche coltivate in anticipo, poi riprese nel corso di tutta la sua vita di studioso.

Vorrei fare una premessa, trasformando in un titolo di merito quello che un collega anonimo scrisse di me in senso liquidatorio, di essere solo un “organizzatore di cultura”. Confesso con orgoglio di esserlo stato, lanciando l’idea di quel manuale a otto mani che è stato il più venduto nell’ultimo trentennio, curando volumi collettanei, fondando riviste, così aprendo ai giovani studiosi ulteriori opportunità di farsi conoscere, continuando una scuola prestigiosa come quella di Bologna, col portare all’ordinariato circa una quindicina di “allievi”, a loro volta estremamente attivi sulla scena. Ma, con buona pace di quel mio collega, posso vantare una produzione assai corposa e varia, che ha avuto a suoi temi preferiti il lavoro pubblico privatizzato e il diritto sindacale, ma non ha mancato di spaziare altrove, da ultimo sulla manipolazione legislativa della nozione di subordinazione, con riguardo al lavoro agile e tramite piattaforme digitali.

Non mi tocca, né mi interessa darmi un voto, essendomi bastato a iosa il giudizio estremamente lusinghiero di Federico Mancini, in una intervista curata da Pietro Ichino; lascio tale compito ai commenti post-mortem, che penso saranno più generosi di quelli che potrei formulare io stesso, se non altro per effetto della massima sempre valida De mortuis nihil nisi bonum.

 

Restando, in un certo senso, in tema di articolazione del tempo di lavoro dello studioso, Le chiederei qualche lume sul rapporto con la professione di avvocato, che Lei stesso ha svolto e tuttora svolge. Nella Sua prolusione bergamasca, ricordata in apertura, Lei affermò – mi corregga naturalmente se sbaglio – che la professione può essere addirittura utile, ma che bisogna prestare notevole attenzione a non farsi assorbire e che comunque bisogna arrivarci dopo la cattedra. Oggi la professione è profondamente cambiata e contempla forme di collaborazione assai diverse, dal “consulente” (c.d. of counsel) dei grandi Studi internazionali all’Avvocato impegnato quotidianamente in uno studio specializzato, di cui è spesso il fondatore o il socio di riferimento. Da quel che so, nel resto d’Europa e, soprattutto, negli Stati Uniti, gli Accademici sono quasi sempre a tempo pieno. Credo però, se mi è concessa una battuta, che in molti accetterebbero di buon grado un tale tipo di impegno a fronte degli oltre 200 mila dollari che, a quanto si legge, un Professore di Ivy League percepisce annualmente (al netto degli incarichi consulenziali). Cosa si sentirebbe in proposito di consigliare alle giovani e ai giovani di oggi?

Secondo la regola del capo-scuola, Tito Carnacini, si poteva esercitare la professione solo dopo aver conseguito la cattedra, cosa che richiedeva una certa autosufficienza famigliare, poi integrata se non sostituita dalla conquista di un posto di assistente, ma più spesso dalla attribuzione di un incarico di insegnamento retribuito presso qualche altra università. Attenendomi a tale regola ho incominciato tardi la professione, svolgendola in una maniera intensa nella prima fase, ma poi trascurandola via via a favore dell’attività accademica e scientifica. Non sono stato in grado di imporre la stessa regola ai miei “allievi”, data la maggior lunghezza ed incertezza della carriera, dovuta anche al venir meno di quella mobilità territoriale, che permetteva di trovare un incarico retribuito fuori della sede madre.

A costo di essere tacciato di moralismo, devo aggiungere che una volta l’economia di coppia, con la coda di due o tre figli, era notevolmente più contenuta, essendo una generazione che aveva conosciuto la ristrettezza del dopo-guerra, sì da essere scarsamente consumistica, beni e servizi oggi considerati indispensabili non erano conosciuti o non erano appetiti.

Tuttavia la maggior parte dei miei “allievi” ha fatto e fa la professione, aiutata dalla mia capacita di trovar loro abbastanza tempestivamente qualche forma di auto-sufficienza. Per quelli che hanno scelto di farla, ho riservato solo un consiglio, di tener presente che fare l’avvocato può servire a dare un riscontro pratico a quanto oggetto di studio; ma fra il mestiere dell’avvocato e quello del professore corre il classico rapporto da vaso di ferro a vaso di coccio, se non si sta attenti il primo è destinato ad infrangere il secondo.

Sarebbe bene imporre un divieto di esercitare la professione, una volta entrati nell’organico universitario? So che l’attuale distinzione fra tempo pieno e tempo parziale, con un diverso monte ore e corrispettivo, è estremamente porosa ed ipocrita, ma non sono in grado di proporre una soluzione alternativa, anche se mi sembra che escludere il divieto in ragione del minor reddito che ne deriverebbe mi appare un tantino umiliante, tenuto conto del fatto che sono pochi i professori ad avere clienti ricchi e potenti, ricavandone moneta e influenza.

So perfettamente che i grandi studi stanno soppiantando gli studi artigianali di una volta, non di rado sotto la guida di professoroni; ma, una volta entrati da giovani se ne diventa veri e propri impiegati a tempo pieno, se pur anche, ma non sempre, retribuiti generosamente. Si cresce col tempo all’interno, ma se volessero uscire, il più delle volte si troverebbero senza poter contare su un proprio avviamento.

Nel dibattito internazionale si assiste ad un trend, peraltro non del tutto inedito, verso la contaminazione del diritto del lavoro con altri saperi tra cui l’economia, la sociologia del lavoro, la teorica dei diritti umani e, da ultimo, pure l’ecologismo. È forse l’interdisciplinarietà la via per superare (o, meglio, affrontare) la “crisi”, oppure è opportuno restare saldamente ancorati al metodo giuridico, senza con ciò guardare al diritto come ad una scienza esatta in grado di condurre ad immutabili acquisizioni?

Come già ricordato, ho fatto lo zingaro, girando per istituzioni universitarie diverse, di Scienze politiche a Bologna, di Sociologia a Trento, di Economia ad Ancona, di Giurisprudenza, prima a Sassari, poi a Bologna. I sociologi e gli economisti a quel tempo guardavano noi giuristi con una sufficienza apparente, perché celava una qual sorta di complesso di inferiorità, dato da un duplice fatto. Battezzerei come “genetico” il primo, perché alcuni illustri economisti avevano studiato legge o comunque insegnavano in qualche Facoltà di Giurisprudenza e, per di più, i sociologi più stagionati erano diventati professori con commissioni partecipate da giuristi. E nominerei come “strutturale” il secondo, perché in fondo il tanto vilipeso diritto era in grado di contare su un patrimonio millenario di parole, nozioni, concetti, modelli, ecc.

Un approccio interdisciplinare può essere realizzato o curato da un solo personaggio che abbia una perfetta conoscenza di tutte le scienze chiamate in gioco, come poteva essere nel Rinascimento un mix fra Pico della Mirandola ed il Conte di Cagliostro, il tutto aggiornato al tempo nostro; o da una compagnia, una troupe di studiosi, ciascuno specializzato nel suo campo, che affrontano con linguaggi disciplinari diversi lo stesso tema o problema.

Quest’ultimo tipo di approccio può essere positivo. Quello che non trovo positivo, invece, è che un giurista che abbia soltanto un’infarinatura dell’altra scienza poi la usi a supporto delle sue tesi attraverso una selezione completamente arbitraria della letteratura in proposito che, quando va bene, ha solo orecchiato.

Dato atto di questo, c’è sempre da tenere presente che il giurista è cultore di una scienza che non osserva la realtà umana, quale è o potrebbe essere secondo la sua effettiva dinamica, in una prospettiva descrittiva o previsionale, ma la studia in una prospettiva prescrittiva, quale dovrebbe essere secondo la normativa vigente.

Il giurista è un collaboratore ecologico, è un addetto alla pulizia, che deve prendere il testo di legge e renderlo comprensibile per gli operatori del diritto, senza forzarlo oltre misura, perché in un ordinamento democratico in cui dovrebbe valere il tanto invocato ed enfatizzato principio della divisione dei poteri, è il Parlamento a dover legiferare,  mentre il giudice dovrebbe limitarsi a interpretare ratio e lettera della legge, se pur con una discrezionalità “costituzionalmente tollerabile”; e così, anche lo studioso, cui competerebbe il compito sempre più improbo di ricomporre a sistema un flusso legislativo alluvionale.

Che ci sia una discrezionalità ermeneutica è fuor di dubbio, tanto da costringerne a prendere atto lo stesso Hans Kelsen, per cui una norma è passibile di più di una lettura; che debba essere limitata per non espropriare il legislatore, lo è altrettanto. Ma quale e quanta possa essere, resta una questione sempre aperta e riaperta nella teoria e nella pratica, con una distinzione qui assai rilevante fra il giudice e lo studioso, perché se entrambi alla fin fine si lasciano orientare dalla propria scala di valori nell’area lasciata alla loro discrezionalità, il primo dovrebbe almeno lasciar credere che nel suo decisum non c’è niente di personale, essendo tutto e solo secundum ius, sottoposto al controllo dell’appello e del ricorso in Cassazione; mentre il secondo dovrebbe far capire che nel suo dictum c’è pur sempre qualcosa di personale, cioè il valore o i valori cui ritiene ispirarsi.

Né l’uno, né tantomeno l’altro debbono cercare supporti troppo facili in principi costituzionali polivalenti, perché c’è un limite alla interpretatio secundum constitutionem, superato il quale sarebbe d’obbligo limitarsi ad argomentare l’incostituzionalità della norma, in vista di un’eccezione di costituzionalità che il giudice può sollevare e lo studioso può sollecitare.

Dopo di che mi tocca riprendere quanto già detto sopra. Utilizzare tutta la strumentazione economica, statistica, sociologica per conoscere in anticipo la potenziale ricaduta di una proposta di legge o per monitorare l’effettività di una legge già approvata è cosa non solo utile, ma necessaria; ed è cosa che si fa, ma con una concorrenza discordante di fonti, tale da poter essere disattese od usate a piacere da un Parlamento poco disposto a farsi condizionare nelle sue scelte largamente dettate da pregiudiziali ideologiche, se non addirittura partitiche.

Ma un conto è utilizzare detta strumentazione per verificare la resa di una legge, un conto tutto diverso farlo per effettuarne l’interpretazione, perché, in forza e ragione della natura dell’attività ermeneutica, tenuta a rintracciare la ratio partendo dalla lettera stessa, non sembra affatto legittimo non dico adattare quella ratio per renderla coerente all’evoluzione della congiuntura tenuta presente al tempo dell’emanazione della legge stessa, ma addirittura manipolarla secondo una valutazione della sua persistente validità, fra l’altro supportata da qualche fonte in contrasto con qualche altra.

Nel campo delle relazioni sindacali, quali novità ci riserva il futuro? Forse l’agognata attuazione dell’art. 39 Cost. e/o la svolta verso la partecipazione dei lavoratori, della quale Lei stesso si occupò negli anni di maggiore appeal del tema?

Tutto sta nell’intendersi circa il “futuro”. Se lo pensiamo in ragione della durata di questa legislatura non credo proprio che verrà sdoganato né l’art. 39, ultimo comma, né l’art. 46 della nostra Costituzione. Che in più di un settantennio nessuna delle due abbia visto la luce, nonostante la ripresentazione di proposte di legge in tal senso, vuol dire che esistano insuperabili difficolta politiche e sindacali, ancor prima che giuridiche. Non è il caso di ricordarle qui, ma credo che almeno nei termini in cui sono state poste risultino oggi un po' datate. La prima, sull’efficacia erga omnes del contratto categoriale, per lo spostamento dell’equilibrio a favore di quello territoriale e aziendale; la seconda, sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, per una qualche diffidenza soprattutto da parte della Cgil, ancora intrisa di una logica di classe non che per la dematerializzazione della stessa impresa, come realtà fisicamente concentrata e localizzata.

 

Veniamo al lavoro pubblico. Come a tutti noto, Lei fu tra i protagonisti della stagione della privatizzazione e del suo successivo consolidamento. Che ricordi ha di quella esperienza e, soprattutto, si tratta, a Suo modo di vedere, di un processo ormai irreversibile, al pari dell’euro (come si è da ultimo osservato), oppure il ritorno sulla scena del protagonista, nel recente passato, di alcune discusse “variazioni sul tema” potrebbe riservarci qualche sorpresa?

È stata per me una grande stagione, durata circa un decennio, dalla predisposizione di una bozza da parte di una commissione partecipata da alti funzionari ministeriali e da studiosi scelti dai sindacati confederali, fino alla compilazione di un testo unico, il d.lgs. n. 165/2001. Credo che non ci sia piacere più forte per uno studioso che influire sulla formazione del diritto, con il massimo costituito dall’essere un membro parlamentare o addirittura un componente della Corte costituzionale. Ma, a prescindere da questo, riservato a pochi eletti, vale molto l’avere un qualche riscontro delle tesi sostenute da parte della giurisprudenza della stessa Corte costituzionale o della Corte di Cassazione; o essere chiamato a far parte di una Commissione governativa, per predisporre e accompagnare nel suo percorso parlamentare una proposta destinata a trasformarsi in legge.

Come ben sa chi ha notizia di quella vicenda, la privatizzazione si svolse secondo una duplice fase, scandita dalla decretazione delegata facente capo alle due leggi delega, del 1992 e del 1997. Ho parlato e parlo di privatizzazione invece che di contrattualizzazione, perché vi è sottesa una diversità sostanziale: la parola privatizzazione rispondeva alla tesi per cui non tutta la materia privatizzata poteva dirsi al tempo stesso contrattualizzata, cioè rimessa alla contrattazione collettiva; mentre la parola contrattualizzazione rispondeva alla tesi che tutta la materia privatizzata doveva considerarsi al tempo stesso contrattualizzata. Naturalmente questa diversità di impostazione aveva una sua precisa ricaduta sulla normativa, che di fatto si evolse nel senso della prima tesi, riservando alla piena responsabilità della dirigenza l’esercizio dei c.d. managerial rights, comparabili a quelli del privato datore di lavoro, ma non assoggettabili a trattativa vincolante con la controparte sindacale.

La mia stagione non si esaurì in quel decennio di fine secolo, con uno sconfinamento nell’inizio del successivo, ma si prolungò con un tenace inseguimento delle molte riforme successive, dalla Brunetta alla Madia, con tutta una pioggia alluvionale di correzioni in corsa, coinvolgendo alcuni dei miei allievi. Ma niente fu come prima, per i colleghi con cui collaborai, gli stessi destinati a essermi interlocutori negli anni a seguire; ma soprattutto per aver lavorato sotto la regia di Massimo D’Antona, con riguardo alla decretazione delegata attivata dalla legge delega del 1997. Insieme curammo un primo commento collettaneo della riforma; insieme fondammo la rivista, “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, seguendone la redazione nel suo studio romano, dove era attorniato da giovani altamente motivati. Oggi tutti possono riconoscerne il talento scientifico, quale emerge da scritti ancora ampiamente citati da colleghi che non hanno avuto la fortuna di conoscerlo; ma solo chi ha avuto questa fortuna, frequentandolo e collaborando, ha avuto modo di apprezzarne lo spessore umano, uomo lucidissimo e estremamente affabile. Alla domanda se la privatizzazione sia irreversibile mi verrebbe da rispondere alla Salvini, “solo la morte è irreversibile”. Ora è possibile far parlare la ormai trentennale esperienza trascorsa, che non ha mai rimesso in discussione la base stessa della privatizzazione, cioè l’attribuzione a favore della giurisdizione ordinaria; mentre c’è stata una continua oscillazione rispetto alla materia privatizzata, fra quella riservata alla legge e quella assegnata alla contrattazione collettiva, peraltro con una chiara tendenza ad ampliare la prima a scapito della seconda.

 

Sulla scia della domanda precedente, Le chiederei cosa si aspetta dal nuovo Governo: una manutenzione o una profonda incisione sul diritto del lavoro e delle relazioni industriali in Italia? Visto l’eterogeneo background e le diverse sensibilità dei vertici dei Ministeri del Lavoro e della Pubblica Amministrazione, è preconizzabile che si accentui il solco tra il lavoro privato ed il pubblico, oppure prevarrà una linea di continuità, alla luce della necessità di non mettere a rischio, in questa fase, i delicati equilibri interni di un Governo “di unità nazionale”?

Alla mia età si diventa straordinariamente realisti, lasciando, a chi ha meno stagioni e delusioni alle spalle, il coltivare aspettative a tutto campo. Certo riconosco a Mario Draghi una grande autorevolezza, una straordinaria risorsa spendibile sulla scena nazionale ed europea. Ma non nutro nessuna fiducia nell’“uomo solo al comando”, sì da trovare poco rassicurante la squadra di governo segnata da una forte continuità rispetto all’immediato passato; e, ancor di più l’intero apparato servente, dato che il nostro difetto nazionale è non nel progettare, bensì nel realizzare secondo precise scansioni temporali i piani e i programmi.

Credo che, dato il tempo ristretto a disposizione, non solo il governo e il complesso burocratico, ma l’intero sistema paese, dovrebbe concentrarsi sul contesto emergenziale, Covid, Next Generation UE, blocco dei licenziamenti, perché, senza attenuarlo se non risolverlo, verrebbe meno quel credito di fiducia concesso largamente a Mario Draghi. Occorre, però, tenere presente, che il tempo che così si guadagnasse, dovrebbe servire alla maturazione delle forze politiche in campo, destinate a confrontarsi vis-a-vis alle scadenze costituite dalla elezione del prossimo Presidente della Repubblica e, comunque, dalla chiamata alle urne del 2023, che spero fermamente si svolgerà all’insegna di una legge elettorale maggioritaria, la sola a permettere una dinamica fisiologica della democrazia, almeno nel nostro Paese.

Non penso che ci sarà tempo e modo per grandi riforme, che, comunque, dovrebbero essere rimesse a leggi delega, per garantirne la completezza e la sistematicità, affidandone la implementazione alla successiva decretazione di urgenza. Il che non esclude interventi parziali anticipatori con riguardo a quanto richiestoci dalla Ue, come condizioni per l’accesso al Next Generation Plan, in tema di giustizia civile, pubblica amministrazione, fisco, garanzia del reddito. Il che, per quanto riguarda il diritto del lavoro, con rispetto al corpo sostanziale, oltre ad un prolungamento totale o parziale del regime emergenziale, dovrebbe affrontare il tema degli ammortizzatori sociali in senso lato, Cig, assicurazione contro la disoccupazione, reddito di cittadinanza, contestualmente ad un ennesimo tentativo di rilanciare il sistema formativo, ivi compreso un deciso potenziamento degli istituti tecnici. Mentre si può dare per scontato un massiccio ricorso a facilitazioni e incentivazioni per aree territoriali, sud e isole, e categorie, donne e giovani, che risultano essere state le più penalizzate dalla pandemia.

Non è escluso qualche provvedimento relativo al lavoro a termine, onde facilitarne l’uso, nonché al lavoro etero-organizzato e al lavoro agile, onde renderne meno confuso l’ambito applicativo e il regime; mentre nutro dubbi con riguardo al varo di un salario minimo, poco o niente apprezzato dal movimento sindacale.

Si continuerà a dibattere su una legge sindacale, più o meno ricettiva della disciplina elaborata dalla trimurti confederale, ma solo con una eventuale ulteriore ricaduta progettuale; mentre si farà calda con l’avvicinarsi della scadenza di quota cento, la questione previdenziale.

Dell’impiego pubblico privatizzato ho già avuto occasione di parlare, aggiungendo qui che il problema è assai meno giuridico che culturale, sì da essere condizionato da un ricambio generazionale, che non potrà essere lasciato a se stesso, ma dovrà essere preparato con un grande sforzo propedeutico, destinato a correggere il persistente squilibrio fra preparazione umanistica e tecnica. Se poi si dovesse trarre una qualche previsione circa il rapporto fra impiego pubblico privatizzato e lavoro privato, sembrerebbe che il richiamo alle armi di Brunetta apra la via ad una sorta di riallineamento; ma, esclusa una ennesima riforma a tutto campo, ci potrà essere qualche attività di manutenzione e di implementazione.

Quanto, poi, al corpo processuale, si cercherà di incidere sul rito del lavoro, dove, peraltro, il problema è prevalentemente organizzativo, come testimonia il ben diverso rendimento dei diversi Fori.   

 

Da ultimo, ci dica, a beneficio dei più giovani…ne vale sempre la pena?

 

Premetto che per uno di una qualche intelligenza e determinazione capitava e credo capiti ancora che, una volta che la scelta fatta si fosse consolidata, aprendogli una strada con una meta precisa, poi, per tutta la lunghezza temporale richiesta, non vi ci tornava sopra, camminare a testa china, con tanto di paraocchi, tappa per tappa senza fiatare. Certo ho goduto di una certezza anche allora rara, di appartenere ad una scuola “forte”, che usufruiva della rendita di posizione di studiosi che stavano letteralmente costruendo il diritto del lavoro post-corporativo, su cui poi si è operato di cesello; appartenenza che conferiva una specie di origine doc, che contava moltissimo in una selezione gestita dai capi-scuola.

La mia valutazione a posteriori è quindi viziata dalla fortuna che mi ha accompagnato, tanto più con quella partenza ritardata, che sembrava dovermi tagliare fuori una volta per tutte. La risposta positiva, che ne valga la pena, è quindi largamente influenzata da una esperienza personale non facilmente riproducibile, tanto meno oggi, quando per restaurare la meritocrazia sì è fatto ricorso, alla più antimeritocratica misura, quella della estrazione a sorte dei commissari, con l’esplicita finalità di emarginare le scuole, le sedi naturali della formazione e della crescita scientifica.

Fatta questa premessa, posso aggiungere un paio di cose, per chi può permettersi il lusso di continuare a studiare a tempo pieno per qualche anno, non facendo o facendo solo marginalmente la professione di avvocato. Senza strappare un sorriso cinico a qualcuno, posso ripetere che insegnare a gente sempre giovane che si rinnova ogni anno rappresenta una straordinaria occasione per restare in sintonia con l’accelerata mutazione della realtà, sempre che la si consideri una priorità, tale da far parlare quasi di una vocazione; e, per di più, insegnare con quella libertà, né asettica né preconcetta, capace di guadagnare la fiducia di una gioventù sempre più stordita e confusa da una informazione ormai alluvionale e ingestibile.

Certo ne valeva la pena, niente mi riesce ancora oggi più gradito che essere fermato da persone di una certa età che mi riconoscono, ricordano con calore il corso, menzionano con orgoglio il voto di esame. Ma che dire della scelta del diritto del lavoro, che non era neppure continua con rispetto a quella della tesi, fra l’altro seguita e apprezzata dallo stesso Tito Carnacini? Quando al termine della mia vicissitudine post-laurea, tornai dagli Stati Uniti, dove avevo studiato industrial relations, mi fu naturale relazionarmi con Federico Mancini, che aveva patrocinato la mia vincita della borsa Fulbright. Non fu amore a prima vista, lo sarebbe diventato poco dopo, nel turbinio di quella stagione immortalata dallo Statuto dei lavoratori, che vissi con l’incarico a Trento, uno dei centri nevralgici della grande rivolta antiautoritaria del 1969/70. Già, non mi è più capitato di dire “io c’ero” con un moto di nostalgico orgoglio, ma certo i giovani d’oggi potranno dirlo con riguardo alla rivoluzione tecnologica in atto, che richiederà un diritto del lavoro declinato diversamente, se pur sempre intorno al suo postulato fondativo, la libertà e dignità di ogni lavoro umano prestato a comando, di una persona o di una macchina che sia.

C’è dell’altro nella vita, altrettanto se non più essenziale, che riguarda quello che, con un termine omnicomprensivo, si usa etichettare come “il privato”. Per far tornare i conti, bisogna dedicargli tempo e riguardo ad ogni momento, senza un continuo rinvio, solo così, collocando il nostro impegno professionale nell’ambito di un intero vissuto, potremo ripeterci un giorno, più prossimo di quanto si creda, quella frase scelta come congedo da Pablo Neruda, “Confesso che ho vissuto”.

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