Testo integrale con note e bibliografia

Introduzione. La dipendenza economica del lavoratore autonomo.
Le profonde trasformazioni degli ultimi decenni hanno avuto un impatto radicale sulla fisionomia dei lavoratori autonomi che, diversamente dal passato, non possono più essere considerati come una categoria unitaria. Alla figura del professionista altamente specializzato, in grado di imporsi nella determinazione del contratto in ragione dell’infungibilità della sua prestazione si affianca, oggi, una nutrita schiera di lavoratori autonomi che svolgono attività facilmente sostituibili tra loro. In un mercato che ha assunto una dimensione globale, nel quale ogni prestazione è divenuta fungibile rispetto ad altre attività rese a condizioni economiche più vantaggiose, il lavoratore autonomo occupa spesso una posizione di debolezza economica e contrattuale rispetto al committente, specie nel caso dei rapporti di monocommittenza, similmente a quanto accade anche nell’ambito del lavoro parasubordinato, che ha rappresentato per anni “una via di fuga” dal lavoro subordinato e il mezzo attraverso il quale eludere l’applicazione della relativa disciplina .
Il quadro brevemente descritto fa da cornice alla l. n. 81 del 2017, nota come “Statuto del lavoro autonomo”, che ha dedicato particolare attenzione a questo fenomeno, introducendo un nucleo di tutele contrattuali rivolte a chi, tra i lavoratori autonomi, versa nella condizione di dipendenza economica, trovandosi a svolgere la propria attività in modo continuativo nei confronti di un unico committente o a favore di pochi destinatari: la situazione di monocommittenza o di committenza “limitata” accentua lo squilibrio del rapporto tra le parti a sfavore del lavoratore autonomo, potendo facilmente sfociare nell’abuso da parte del committente della propria forza economica e contrattuale.
In questi casi è quindi possibile distinguere tra due momenti: quello fisiologico della condizione di debolezza economica, di per sé neutra, perché riferita ad uno squilibrio naturale del rapporto e quello successivo ed eventuale dell’approfittamento di tale situazione da parte del contraente forte . L’art. 3, l. n. 81, cit., interviene proprio su tale seconda fase, con l’obiettivo di prevenire i problemi legati al risvolto patologico della dipendenza economica, concetto definito attraverso il rimando all’art. 9, l. n. 192 del 1998, come quella situazione in cui un’impresa è in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi. Sebbene tale definizione trovi collocazione nella disciplina del contratto di subfornitura, essa consente di individuare due indici generali della dipendenza economica nei rapporti contrattuali : da un lato, la potenziale capacità del soggetto dominante di determinare «un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi»; dall’altro, la reale impossibilità del soggetto debole «di reperire sul mercato alternative soddisfacenti».
Laddove si verifichi tale abuso, l’art. 3 cit. individua una serie di rimedi contrattuali, rappresentati in particolare dall’invalidità delle clausole abusive (che la disposizione considera «prive di effetto») e dal diritto al risarcimento del danno, specie nel caso di rifiuto da parte del committente di stipulare il contratto in forma scritta.
La disciplina contenuta nella l. n. 81 del 2017, sebbene abbia il pregio di costituire un primo passo in avanti verso la tutela dei lavoratori autonomi, non presenta alcuna previsione in materia di equo compenso, che, viceversa, costituirebbe un’importante risposta allo squilibrio tra le parti, salvo non aderire alla posizione espressa dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) secondo cui l’equo compenso rischierebbe, stando ai principi antitrust nazionali e comunitari, di limitare fortemente la concorrenza impedendo ai professionisti «di adottare comportamenti economici indipendenti e, quindi, di utilizzare il più importante strumento concorrenziale, ossia il prezzo della prestazione» .
La posizione espressa dall’AGCM non appare condivisibile né tantomeno convincente: da un lato, si circoscrive il problema al solo rispetto delle regole in materia di concorrenza, trascurando la portata espansiva degli artt. 35 e 36 Cost., grazie ai quali è possibile estendere il principio di proporzionalità del corrispettivo al lavoro autonomo ed evitare le forti diseguaglianze sociali enfatizzate dalle crisi economiche degli ultimi anni; dall’altro, si trascura la reale entità del fenomeno dell’abuso di dipendenza economica, che rivela l’esistenza di una realtà, quella dei lavoratori non subordinati, che necessita di maggiori tutele soprattutto sotto il profilo del corrispettivo, al fine di preservarne la dignità.
La lacuna normativa presente nella l. 81, cit., è stata in parte colmata dal d.l. n. 148 del 2017, (conv. con modif. dalla l. n. 172 del 2017, art. 19-quaterdecies, commi 1, 2, 3) che ha inserito nella l. n. 247 del 2012, (recante la disciplina sull’ordinamento forense) l’art. 13-bis in materia di equo compenso e clausole vessatorie con l’obiettivo di risolvere il problema dell’abuso della condizione di debolezza in cui versano spesso i professionisti rispetto al cliente . La norma, diretta in un primo momento alla categoria degli avvocati, è stata poi estesa anche a professionisti in generale, sebbene il suo campo di applicazione, come si vedrà nel prosieguo, resta ad oggi molto limitato.
Pare opportuno procedere con un’analisi parallela delle due norme citate, al fine di metterne in luce gli aspetti positivi e le criticità che emergono delle soluzioni ivi previste.

La disciplina dell’equo compenso e il suo ambito di applicazione.
L’abuso di dipendenza economica e la debolezza contrattuale del lavoratore autonomo, che si verificano soprattutto nei rapporti di monocommittenza o di committenza ridotta, si manifestano sul piano del rapporto attraverso varie modalità, quali il rifiuto del committente di stipulare il contratto in forma scritta per impedire che l’accordo diventi immodificabile e l’introduzione di clausole ad esclusivo vantaggio del committente, tra le quali rileva senz’altro l’ipotesi del corrispettivo che non tenga debitamente conto della quantità e della qualità del lavoro svolto, in danno del contraente debole.
Tale ultima fattispecie, sebbene molto comune nella prassi, non viene affrontata dalla l. n. 81 del 2017, che disciplina unicamente i rimedi avverso le clausole abusive di diverso contenuto e il rifiuto di stipulare il contratto in forma scritta (art. 3). Tuttavia, rispetto al profilo dell’equo compenso è intervenuto il d.l. n. 148 del 2017, (conv. con modif. dalla l. n. 172 del 2017, art. 19-quaterdecies, commi 1, 2, 3), che, modificando la l. n. 247 del 2012 sull’ordinamento forense, ha introdotto l’art. 13-bis sull’equo compenso e i rimedi avverso le clausole vessatorie, disciplina che è stata, poi, estesa, «in quanto compatibile» anche «alle prestazioni rese dai professionisti di cui all’articolo 1 della legge 22 maggio 2017, n. 81, anche iscritti agli ordini e collegi, i cui parametri ai fini del comma 10 del predetto art. 13-bis sono definiti dai decreti ministeriali adottati ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27» (art. 19- quaterdecies, comma 2, d.l. n. 148 del 2017, conv. con modif. dalla l. n. 172 del 2017) .
Come messo in luce dalla dottrina , il rimando all’art. 1, l. n. 81 del 2017, sebbene volto ad ampliare l’ambito di applicazione soggettivo della disciplina, ha avuto l’effetto di limitarla fortemente, posto che la citata norma è diretta soltanto ai professionisti ex art. 2229 c.c. e non agli altri lavoratori autonomi: fermandosi ad una interpretazione letterale restano escluse le prestazioni d’opera e tutte quelle attività (ampiamente diffuse) dotate di una natura “ibrida”, che si collocano a metà strada tra le prestazioni d’opera e quelle intellettuali (quali, a titolo esemplificativo, quelle del “graphic designer” o del “graphic consultant”).
La sfera d’applicazione dell’art. 13-bis conosce, poi, un’ulteriore limitazione nella previsione secondo cui il principio dell’equo compenso è applicabile soltanto alle convenzioni predisposte da “soggetti forti” e, cioè, dalle imprese bancarie e assicurative, dalle imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, come definite nella raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003 (art. 13-bis, comma 1) e, infine, dalla pubblica amministrazione (art. 19-quaterdecies del d.l. n. 148 del 2017), rispetto alla quale, tuttavia, la giurisprudenza più recente ritiene che il principio debba essere comunque mitigato, da un lato, in considerazione delle esigenze di flessibilità e di contenimento della spesa pubblica e, dall’altro, della natura e della complessità delle attività da svolgere in concreto .
Nonostante i ripetuti interventi del legislatore, il dibattito sull’equo compenso resta ad oggi aperto, segnalandosi diverse proposte di legge dirette ad estendere l’ambito di applicazione ai professionisti non organizzati in ordini e collegi e a rafforzare l’apparato delle tutele.
Tra le proposte di riforma della materia si segnala in particolare il d.d.l. n. 3179 del 2021 che prevede, oltre alla possibilità di ricorrere alle vie giudiziarie a tutela dell’equo compenso (art. 4), il diritto di richiedere un parere di congruità sul compenso all’ordine o al collegio di appartenenza (art. 5). Inoltre, per poter garantire un’alternativa alle procedure di ingiunzione di pagamento e a quelle previste dall’articolo 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, tale parere può acquistare l’efficacia di titolo esecutivo qualora sia rilasciato nel rispetto della procedura di cui alla legge n. 241 del 1990, e il debitore non abbia proposto opposizione ai sensi dell’art. 702-bis del c.p.c.
A ciò si aggiunge, infine, la possibilità di avviare un’apposita azione di classe per la tutela di diritti individuali omogenei dei professionisti, che può essere proposta dal Consiglio nazionale dell’ordine al quale sono iscritti i professionisti interessati o dalle associazioni maggiormente rappresentative (art. 7), soluzione che consentirebbe di rafforzare significativamente la tutela del professionista.

Le clausole vessatorie.
Con riferimento alle clausole vessatorie o abusive, gli artt. 13-bis, l. n. 247 del 2012 e 3, l. n. 81 del 2017 adottano soluzioni simili, differenziandosi tuttavia sotto alcuni profili.
Rispetto all’art. 3 cit., l’art. 13-bis cit. ha una portata più ampia, che si esplica nella disciplina generale delle clausole negoziali vessatorie, tra le quali sono contemplate anche quelle che determinano un corrispettivo iniquo. Si tratta di una norma strutturalmente aperta, suscettibile di interpretazione estensiva, dal momento che non prospetta un “numerus clausus” di clausole vessatorie e consente in linea generale di compiere una valutazione sulla vessatorietà alla luce del principio dell’equo compenso, che deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità della prestazione resa. A ciò si aggiunge, in un’ottica di maggior tutela del professionista, la previsione di una serie di ipotesi in presenza delle quali le clausole sono da considerarsi sempre vessatorie (commi 5 e 6), come nel caso di quelle che riservano al cliente la facoltà di pretendere prestazioni aggiuntive che il professionista deve eseguire a titolo gratuito o quelle che gli impongono l’anticipazione delle spese o addirittura la rinuncia al rimborso delle spese. A queste se ne affiancano altre, contemplate anche dall’art. 3, l. 81, cit.: le clausole che consentono al cliente di modificare unilateralmente le condizioni del contratto, di rifiutare la stipulazione in forma scritta degli elementi essenziali del contratto o di prevedere termini di pagamento superiori a sessanta giorni dalla data di ricevimento da parte del cliente della fattura o di una richiesta di pagamento.
Diversamente, l’art. 3 non affronta il profilo dell’equo compenso e della possibile presenza di clausole che violino tale principio, limitandosi a contrastare l’abuso di dipendenza economica del committente nei casi ivi richiamati. La struttura dell’art. 3 – che, oltre alle ipotesi sopra citate, contempla anche quella del recesso ad nutum del committente dal contratto di durata – porta a considerare l’elencazione come tassativa e non meramente esemplificativa, non potendosi conseguentemente includere fattispecie diverse da quelle individuate dal legislatore.
Guardando ai profili comuni tra le due disposizioni in esame, in entrambi i casi è possibile riscontrare una forte influenza della disciplina dei contratti con asimmetria di potere contrattuale , sia per quanto riguarda la formulazione normativa, sia per le tecniche rimediali. I modelli di riferimento sono rappresentati dagli artt. 33 (ribricato “clausole vessatorie”) e ss. d.lgs. n. 206 del 2005, c.d.“Codice del consumo”, nei quali è contenuta un’elencazione analoga a quella delle disposizioni in commento e, più in generale, dalla disciplina dei “contratti asimmetrici” e del “terzo contratto” (cui fa riferimento proprio l’art. 3, l. 81 del 2017 laddove rimanda all’applicazione della disciplina del contratto di subfornitura, specie per la definizione del concetto di “dipendenza economica”) , caratterizzati proprio dalla condizione di debolezza di uno dei due contraenti.
Il dialogo tra materie diverse ha fatto nascere un’area dell’ordinamento a metà strada tra il diritto civile e il diritto del lavoro, che in presenza di un rapporto asimmetrico e di uno squilibrio patologico del rapporto perseguono il comune obiettivo di garantire un’adeguata tutela alla parte debole, attraverso un apparato rimediale operante nella fase più delicata del rapporto contrattuale, quella della nascita, per correggere la condizione di squilibrio esistente tra le parti, in primis con l’invalidità delle clausole vessatorie o abusive, in secundis imponendo la forma scritta al contratto, e infine attraverso l’attribuzione del diritto al risarcimento del danno, soluzione, però, accolta unicamente dall’art. 3.

L’invalidità delle clausole vessatorie e abusive
Il principale rimedio individuato dai due articoli in esame a favore del contraente debole è l’invalidità delle clausole vessatorie e abusive; anche in questo caso è possibile segnalare alcune differenze tra le disposizioni citate.
Nello specifico, l’art. 13-bis prevede che le clausole vessatorie siano nulle e attribuisce al professionista il diritto di esperire in qualsiasi momento l’azione di nullità, che è divenuta imprescrittibile a seguito dell’intervento correttivo del legislatore volto ad eliminare il termine decadenziale cui era originariamente sottoposta. Si tratta di una nullità di protezione, eccepibile unicamente dal professionista, come specificato dal comma 8 dell’art. 13-bis (“opera soltanto a vantaggio dell’avvocato”) e che riguarda soltanto le clausole affette dal vizio, mentre il contratto resta valido per il resto in forza del principio generale di conservazione del contratto (art. 1367 c.c.).
È stato osservato che occorre distinguere tra due diverse ipotesi di vessatorietà: la prima relativa alle clausole sul compenso, rispetto alle quali l’art. 13-bis prevede che il giudice possa intervenire solo rispetto a tale profilo, permettendo al contratto di sopravvivere “per il resto” (art. 1419, comma 2); la seconda, riguardante gli altri profili negoziali, rispetto ai quali la dichiarazione di nullità del contratto ex art. 1339 c.c. interviene senza alcuna sostituzione automatica delle clausole. In quest’ultimo caso, il contratto potrebbe risultare nullo per difetto dei requisiti di cui all’art. 1336 c.c. relativi all’oggetto.
Alla chiara previsione della nullità ai sensi dell’art. 13-bis fa eco l’art. 3, l. n. 81 del 2017 con un’espressione poco chiara secondo cui «le clausole che attribuiscono al committente la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto o, nel caso di contratto avente ad oggetto una prestazione continuativa, di recedere da esso senza congruo preavviso nonché le clausole mediante le quali le parti concordano termini di pagamento superiori a sessanta giorni dalla data del ricevimento da parte del committente della fattura o della richiesta di pagamento» sono «prive di effetto», inciso che può suscitare dubbi nell’interprete, soprattutto in considerazione della chiara previsione della nullità presente, oltre che nel citato art. 13-bis, negli agli artt. 6, l. n. 192 del 1998 e 36, d.lgs. n. 206 del 2005, rispettivamente sull’invalidità delle clausole abusive e vessatorie del contratto di subfornitura e di quello tra professionista e consumatore.
Al di là della scelta terminologica e della conseguente interpretazione che si voglia accogliere, non va trascurata la ratio perseguita dall’art. 3 di garantire al lavoratore autonomo idonei strumenti di tutela, tra i quali la nullità di protezione svolge senz’altro un ruolo essenziale.
Considerata la natura asimmetrica dei rapporti disciplinati dalle norme richiamate, si ritiene, pertanto, che l’espressione «prive di effetti» debba essere considerata sinonimo di nullità nella sua veste protettiva.

Il requisito della forma “di protezione”
Anche la forma scritta del contratto rappresenta in entrambe le fattispecie analizzate uno strumento a tutela del contraente debole, dal momento che consente di preservare il contenuto negoziale; in questo senso, l’elemento formale persegue una finalità protettiva , diretta, cioè, a evitare che si apportino modifiche unilaterali al contratto ad esclusivo vantaggio della parte forte.
Si tratta del c.d. “neoformalismo di protezione” , largamente diffuso nei contratti asimmetrici, contraddistinti da un significativo squilibrio di poteri contrattuali ed economici . Alla luce di tale fenomeno, la forma scritta, tradizionalmente considerata un ostacolo agli scambi giuridici, diviene un requisito di primaria importanza, perché garantisce un’adeguata informazione rispetto al contenuto del contratto e risponde alle esigenze di trasparenza e di autenticità della manifestazione di volontà , consentendo di evitare la situazione di abuso da parte del committente nella fase genetica del contratto e nel corso del rapporto.
Tuttavia, mentre l’art. 13-bis fa riferimento alla clausola che attribuisce al cliente la facoltà di rifiutare la stipula in forma scritta (clausola considerata vessatoria e, quindi, nulla), l’art. 3 si riferisce al rifiuto di sottoscrivere il contratto da parte del committente e, quindi, al comportamento abusivo, dal quale sorge automaticamente il diritto al risarcimento del danno del lavoratore autonomo.

Il diritto al risarcimento del danno nel caso di abuso di dipendenza economica.
L’art. 3 prevede, infine, il diritto al risarcimento del danno, che costituisce un rimedio secondario rispetto a quello dell’invalidità delle clausole abusive, ma rappresenta l’unica soluzione contro il rifiuto del committente di stipulare il contratto in forma scritta.
Dalla formulazione letterale della norma si desume che il diritto al risarcimento sorge automaticamente per la presenza della condotta vietata, a prescindere dal danno subito dal lavoratore autonomo. In questo senso, non è diretto a porre rimedio ad un pregiudizio, ma a prevenire la condotta dell’autore e, conseguentemente, a punirlo laddove l’abuso sia poi posto in atto.
L’art. 3, comma 3 consente, quindi, di riflettere sull’esistenza di una natura polifunzionale del risarcimento, profilo che apre, tuttavia, ad ampi problemi applicativi, a partire da quello della quantificazione del danno , specie nel caso in cui il rapporto abbia avuto un normale decorso, nonostante il rifiuto opposto dal committente alla stipula in forma scritta e l’esistenza di un abuso della dipendenza economica del lavoratore autonomo.
Nel caso in esame, la scelta di ricorrere allo strumento risarcitorio risponde all’esigenza di riequilibrare il rapporto tra le parti, che, come si è detto, si contraddistingue per uno squilibrio fisiologico. Una simile funzione riequilibratrice si rinviene anche nel contesto della disciplina antitrust , ma in quest’ultima ipotesi la dipendenza economica interessa l’equilibrio del mercato e non del singolo rapporto contrattuale, diversamente da quanto accade nell’art. 9, l. n. 192 del 1998, e nell’art. 3, l. 81 del 2017, il cui interesse comune è quello di tutelare la parte debole del rapporto dalla situazione di approfittamento creatasi a causa dello squilibrio contrattuale.

 

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