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Una vita dedicata al diritto del lavoro, da giovane studioso, da accademico e da avvocato. Partiamo da qui, allora: perché, tra i tanti rami del diritto, il diritto del lavoro?

Da studente di giurisprudenza, allievo del Collegio Ghislieri di Pavia, seguii con particolare interesse e attiva partecipazione le lezioni di Rodolfo Sacco, notoriamente uno dei maggiori civilisti della seconda metà del novecento. Quelle di diritto privato e di diritto civile ed altresì quelle di diritto del lavoro, materia che insegnò collateralmente.
Non fu però grazie alle sue lezioni che scelsi di dedicarmi al diritto del lavoro. Sacco non lo amava e il suo corso, incentrato sulla interpretazione e collocazione sistematica dell’art. 2126 c.c., era sostanzialmente una appendice del corso di diritto privato.
La ragione della scelta fu che, come probabilmente molti liceali brillanti, ero stato tentato di iscrivermi alla facoltà di lettere moderne con il proposito di occuparmi professionalmente di letteratura italiana. Mi ero infine iscritto alla facoltà di giurisprudenza, confesso, per viltà, consapevole che da letterato avrei dovuto leggere anche quel che non mi sarebbe piaciuto leggere e soprattutto che avrebbe potuto turbarmi, essendo per temperamento portato a farmi coinvolgere troppo emotivamente da quel che leggo.
Il diritto del lavoro mi parve subito il più vicino ai miei interessi, allora assai più politico-sociali che giuridici. Poiché Sacco era solito concedere a chi lo chiedesse di sostituire l’esame orale di diritto del lavoro con una dissertazione scritta colsi l’occasione e la svolsi sul tema, allora di assoluta attualità, dell’art. 36 Cost. Agli inizi del terzo anno chiesi di laurearmi con lui e concordammo l’argomento “autonomia collettiva e limiti del diritto di sciopero”.
Nei tre anni antecedenti la laurea lessi molto, acquisendo una conoscenza ragguardevole della dottrina e della giurisprudenza giuslavoristiche, e non solo. Soprattutto potei fruire degli insegnamenti del Maestro quasi settimanalmente, giacché si tratteneva lungamente all’istituto giuridico nei tre giorni pavesi ed era molto disponibile con gli allievi.
Conseguita la laurea, a metà dicembre del 1965, decisi però di abbandonare la prospettiva della ricerca e della carriera accademica per molte ragioni, ma soprattutto perché desideravo cominciare, come si suole dire, a guadagnarmi la vita per non gravare a lungo sui miei genitori, che risiedevano a Palermo, e per sposarmi appena possibile.
Grazie al mio curriculum non ebbi difficoltà, già a metà gennaio 1966, ad essere assunto dalla Pirelli, con uno stipendio che al tempo era superiore a quello di un magistrato di prima nomina, per l’ufficio delle relazioni sindacali allora diretto da Giorgio Ardau, ordinario di diritto del lavoro a Cagliari. Lo ricordo intento spesso a dettare alla sua segretaria, affinché li inserisse in classificatori del tipo di quelli in uso nelle biblioteche, titoli di opere tratte dalle note a piè di pagina di monografie e riviste per poterli a sua volta trasferire nelle citazioni a piè di pagina delle proprie opere, conformemente del resto ad un diffuso costume tanto antico quanto attuale.
L’esperienza in Pirelli fu per me traumatica malgrado i due funzionari da cui dipendevo, di notevole caratura professionale ed umana, avessero cercato di favorire il mio ambientamento. Affaticato dal pendolarismo con Pavia ed abituato all’indipendenza, ebbi una sorta di reazione di rigetto del lavoro in azienda; reazione che giunse al culmine quando accompagnai uno dei due funzionari a rappresentare la Pirelli in una seduta del Collegio di conciliazione e arbitrato per i licenziamenti nell’industria di Milano. Fui turbato, anche tenuto conto dell’infrazione sanzionata, dall’intransigenza con cui egli pretese che nel verbale di conciliazione, a fronte di un maggior compenso, fosse inserito il riconoscimento, da parte del lavoratore, della sussistenza della giusta causa; riconoscimento che certo non lo avrebbe aiutato nel reperimento di un nuovo posto di lavoro. Fui altresì turbato dall’apprendere che quasi tutte le vertenze si concludevano con una conciliazione di quel tenore mentre i lodi erano rarissimi. Non era un atteggiamento consono al mio back-ground liberale, né lo è stato fino ad oggi, malgrado abbia assistito quasi esclusivamente datori di lavoro.
Dopo poco più di due settimane mi rassegnai a prendere atto che la carriera del manager aziendale non faceva per me, vedendo però nelle mie dimissioni l’incapacità di adattarmi, quindi una sconfitta da cui rimasi a lungo segnato, tanto più che avevo dovuto rinunciare al posto di specializzazione nel Collegio Ghislieri. E tornai a Pavia da Rodolfo Sacco.

 Il prof. Sacco immagino abbia ben accolto il tuo “ritorno”. Come descriveresti il tuo rapporto, accademico ed umano, con il prof. Sacco?

 Sacco mi accolse con il suo connaturato riserbo “sabaudo” nella manifestazione dei sentimenti ma, senza spendere parole di consolazione, mi fece capire che era lieto di riavermi con lui e firmò la mia nomina ad assistente volontario da consegnare alla segreteria dell’Università.
Fin quando, nel settembre del 1967, mi sposai, andando a vivere a Milano, ebbi con il Maestro una consuetudine che potrei definire di vita. Non tanto per le frequenti conversazioni nel suo studio, nel corso delle quali discorrevamo delle opere (beninteso non di diritto del lavoro) la cui lettura man mano andava “prescrivendomi” bensì perché, essendo entrambi soli a Pavia, mi chiedeva spesso di fargli compagnia a cena e in successive passeggiate nella città e lungo il fiume. A cena talora erano con noi suoi colleghi, volta a volta pavesi o di altre università. In tali occasioni assistevo con acuto interesse ai discorsi che riguardavano il merito delle opere di autori giovani e meno giovani nonché le relazioni tra docenti e scuole all’interno dell’universo accademico.
Sacco alla fine del 1967 abbandonò l’incarico di diritto del lavoro per assumere quello di diritto privato comparato, a lui assai più congeniale. Consapevole di essere essenzialmente un civilista mi disse che i nostri rapporti non sarebbero mutati ma non si sentiva di seguirmi oltre nel percorso scientifico e preferiva quindi farmi seguire dall’amico Luigi Mengoni.
La traditio, per così dire, avvenne in occasione di un Congresso dei giuristi cattolici a Milano agli inizi del 1967. Ne seguì anche il mio ingresso nell’Istituto giuridico dell’Università Cattolica e la frequentazione di molti giovani studiosi a partire da Tiziano Treu, allievo lavorista di Mengoni, di qualche anno più anziano di me.

Luigi Mengoni può quindi ritenersi il tuo maestro “lavorista”? Qual è l’insegnamento di Mengoni che ancora ritieni decisivo ed attuale? 

Luigi Mengoni è stato, per me, e resta, il modello di giurista, in particolare, di giuslavorista: concreto, lucido, alieno da sterili esercitazioni teoriche e attento al diritto vivente, conscio dell’importanza, per l’interprete, dei valori ma altresì del primato della legge (testo, ratio, sistema dell’ordinamento).
Un modello ineguagliabile, evidentemente, ma che ho sempre avuto come riferimento e come stimolo nel percorso della mia ricerca e dei miei scritti. Percorso che, volendo semplificare al massimo, si è svolto lungo due filoni tematici fondamentali.
Il primo filone attiene alla questione delle questioni, la subordinazione, di cui mi sono occupato a partire dallo studio del rapporto di lavoro del dirigente d’azienda poi nel Manuale e, successivamente, in continuità, fino ad oggi.
Presi le mosse dall’impietosa critica rivolta da Luciano Spagnuolo Vigorita ai tentativi dottrinali di ricostruzione, sulla base dell’art. 2094 c.c., di una fattispecie normativa suscettibile di offrire al giudice il referente per la diretta riconduzione ad essa delle fattispecie concrete nel contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro.
Scelsi allora di astenermi dall’aggiungere la mia alle sterili teorizzazioni correnti e di analizzare, per così dire, dall’interno l’evoluzione della giurisprudenza in materia. Registrai così che i giudici solevano proiettare sul caso specifico una serie di indici tratti dall’archetipo del lavoratore subordinato e dalla disciplina del relativo rapporto e poi ricondurre all’art. 2094 il rapporto da qualificare qualora, seppur carente, nelle zone grige di confine, di alcuni di quegli indici, ne presentasse tuttavia a sufficienza, tenendo conto del suo particolare contenuto, per consentire la sua riconduzione all’archetipo. Quindi, in via di approssimazione.
 Continuo a ritenere che compito del giuslavorista sia seguire criticamente lo sviluppo nel tempo di tale giurisprudenza; sviluppo che non è mai stato rettilineo (quanto, ad es., all’attribuzione o al diniego di valenza presuntiva, nel dubbio, alla qualificazione operata dalle parti).
Orbene, sulla mia scelta metodologica si consumò il dissenso del Maestro, malgrado la sua attenzione, come ho sottolineato prima, al diritto vivente. Mi ripeteva che il giurista positivo non può rinunciare alla qualificazione per il tramite della sussunzione mediante identificazione con gli elementi costitutivi della fattispecie normativa. Ed espose le sue obiezioni nella sua nota recensione del Manuale.
 Io continuavo a replicare che il giurista (pur) positivo, dovendo constatare l’inidoneità degli elementi offerti dall’art. 2094 a consentire la sussunzione per identificazione, era costretto a prendere atto della sussunzione per approssimazione operata dalla giurisprudenza. E confermai il mio convincimento, alla Sua presenza, nella relazione ad un convegno in Università Cattolica, poi pubblicata, nel 1987, in Jus.

Scusa, ma a questo punto mi sento quasi costretta a chiederti se il tuo convincimento resti fermo dopo l’impatto nella giurisprudenza dell’art. 2, comma 1, del d. lgs. n. 81/2015 e le numerose critiche subite dalla tua prospettazione della norma come “apparente”

 Il mio convincimento resta fermo, anzi rafforzato, pur se la mia prospettazione ha innegabilmente subito le critiche, talora anche irridenti, della dottrina quasi unanime. Forse solo Franco Carinci mi ha capito.
Facendola breve, posso dirti che il mio convincimento esce rafforzato da questa vicenda perché la Suprema Corte, per conseguire il risultato, voluto, dell’applicazione dell’art. 2, comma 1, ai riders ha dovuto creare l’inedita categoria delle norme i cui effetti si autoproducono (è possibile solo immaginare, purtroppo, cosa ne avrebbe pensato il Maestro). E perché, per questa via, si è andata a cacciare in un ginepraio, costretta ad affermare che il rapporto in questione è destinatario di tutta la disciplina tipica del lavoro subordinato, salvi però i tratti di essa incompatibili con lo specifico contenuto del rapporto stesso. Che è poi il ginepraio che la giurisprudenza di merito dovrà cercare di dipanare.        

Hai accennato prima ad un secondo filone tematico del tuo percorso di ricerca. Puoi parlarmene? 

Si tratta della questione nevralgica del rapporto tra le fonti del rapporto di lavoro subordinato. Me ne sono occupato a partire già dalla tesi di laurea, poi dal saggio a quattro mani con l’amico Salvatore Mazzamuto (”Il costo del lavoro tra legge e contratto” in RGL 1977), che a mio avviso aprì in materia inedite prospettive, successivamente con particolare attenzione ai profili della rappresentanza e rappresentatività, a partire dalla relazione anconetana (“Contrattazione collettiva e rappresentatività” in Pol. Dir. 1985) e da quella AIDLASS di Fiuggi (Contrattazione collettiva e controllo del conflitto in GDLRI 1988) che mi paiono ancora largamente attuali.Ti ho tediato anche troppo con il discorso sulla subordinazione per entrare nel dettaglio. Desidero però almeno sottolineare il fil rouge dei miei scritti in materia: l’ostilità nei confronti della dottrina, oggi quasi unanime, favorevole ad un intervento legislativo sul contratto collettivo. Ciò non solo e non tanto per il mio rispetto dell’autonomia sindacale quanto perché convinto che un tale intervento non sia possibile a Costituzione invariata. Ciò in ragione del collegamento indissolubile tra primo e quarto comma dell’art. 39 Cost.; collegamento che cerco di sintetizzare.
Volendo, il legislatore costituente, prevedere l’efficacia erga omnes dei contatti collettivi di categoria e dovendo a tal fine imporre un sacrificio alla libertà sindacale dei singoli e delle loro organizzazioni, ha ritenuto di collocare tale efficacia in un contesto che replica, nella sostanza, quello dell’ordinamento istituzionale.
Se alla libertà del cittadino comune può essere imposto (entro i limiti della cornice costituzionale) di soggiacere alle determinazioni di un Organo che concorre a costituire con il suo voto e che opererà in base al criterio di maggioranza, al cittadino lavoratore può essere imposto di soggiacere ai contratti stipulati da un organismo, destinato ad operare in base al medesimo criterio, la cui composizione egli concorre a determinare attraverso la sua scelta associativa.
Questo collegamento non può essere sciolto dal legislatore ordinario. Il quale peraltro non può considerarsi svincolato dal rispetto dell’art. 39 neppure con riguardo al contratto aziendale, sebbene questo sia estraneo al suo quarto comma di esso, non essendo possibile manipolare il testo normativo, specie trattandosi di norma della Carta fondamentale, per farvelo rientrare. Il limite all’intervento eteronomo può però ritenersi direttamente derivante dal primo comma, che preclude ingerenze legislative nell’autonomia sindacale anche in sede aziendale se non alla stregua di un qualche modello inserito in un nuovo testo dell’art. 39.
Come ben sai, è ora aperta, e pende dinnanzi alla Corte costituzionale, la questione, che possiamo definire dell’equipollenza, cioè della compatibilità con l’art. 39, comma 1, dell’art. 8, L. n. 148/2011, grazie al supporto dell’accordo interconfederale (TU) del 2014. 

Veniamo alla didattica. I manuali di diritto del lavoro e di diritto sindacale redatti con i colleghi Carinci, Treu e De Luca Tamajo sono ben noti ed apprezzati dall’accademia italiana. Di chi è stata l’idea di un manuale a quattro? E, considerando le diverse personalità e “sensibilità”, come sono stati i rapporti tra di voi?

 L’idea fu, manco a dirlo, d Franco, che, notoriamente, è sempre stato una fucina di importanti iniziative. Ci convinse che fosse venuto il tempo perché studiosi della nostra generazione (Tiziano era un po’ a cavallo) si assumessero la responsabilità di un contributo innovativo e territorialmente trasversale sul terreno della didattica. E che questo contributo, squisitamente culturale, sarebbe stato più autorevole e complessivamente più equilibrato se prodotto dall’impegno comune (e tale fu) di amici con diverso back-ground ideologico ma accomunati dalla fedeltà all’ammonimento di Luigi Mengoni secondo cui, come ho prima rammentato, il giurista, nella sua attività ermeneutica, deve sforzarsi di controllare il più possibile la propria c.d. pre-comprensione. Noi avremmo potuto controllarci a vicenda!
Pertanto, sul piano della impostazione dell’opera, della ripartizione fra noi dei rispettivi compiti e infine dell’armonizzazione del risultato da ciascuno prodotto non ci sono stati problemi.
 Credo di poter affermare, senza timore di apparire vanaglorioso, che l’idea si è rivelata vincente se il Manuale ha saputo rinnovarsi nel tempo fino ai giorni presenti, anche grazie al prezioso apporto degli allievi, guidati da te, che hai la pazienza di intervistarmi, e da Fiorella Lunardon, ed ancora oggi è una voce autorevole e diffusa, forse la più diffusa, nel panorama didattico della nostra materia.
Volendo però, in coda, fare un tantino di gossip, posso confessare che le relazioni interpersonali tra gli Autori non sono state sempre idilliache, ovviamente solo per motivi di competizione nell’accademia, interna e internazionale. Né può sorprendere, data la personalità, forte e in qualche caso impetuosa, dei miei tre sodali.
Mi sono adoperato costantemente per temperare le asperità e credo di esserci riuscito se il legame tra di noi, nella sostanza, ha resistito alle insidie.

Nel tuo percorso non è poi mancato il confronto con le parti sociali. Come è nato e cosa ha fatto il cd. Gruppo di Torino?

Sul finire degli anni ottanta dello scorso secolo Cesare Annibaldi, responsabile delle relazioni sindacali della Fiat, manager colto e intellettualmente vivace, influente nel mondo industriale torinese ed anche in Confindustria, mi propose, quale cattedratico dell’Università di Torino, di dar vita, con la collaborazione di qualche giuslavorista di vario orientamento, ad un Gruppo di lavoro cui partecipassero altrettanto influenti esponenti delle parti sociali, a livello confederale e a livello metalmeccanico.
L’obiettivo era di collocarli attorno ad un tavolo tecnico per esplorare, senza i condizionamenti del tavolo negoziale, le praticabili prospettive di una coesa autoregolamentazione del sistema contrattuale, magari pervenendo alla stesura di qualche documento preparatorio da parte dei giuristi del tavolo, come poi avvenne.
Ovviamente mi rivolsi ai sodali del Manuale e fu possibile raccogliere attorno a quel tavolo, con cadenze abbastanza regolari, esponenti di rilievo delle parti sociali. Tra i molti, Bruno Trentin nella prima fase e poi Sergio Cofferati, Mario Colombo, Luigi Angeletti, Cesare Damiano, Felice Mortillaro, Giuseppe Gherzi.
Penso che l’esperienza del Gruppo di Torino abbia contribuito a creare un “clima” favorevole ed anche i presupposti tecnici per la stipulazione del Protocollo del luglio 1993.
A valle di quel Protocollo Cesare Annibaldi, sempre lungimirante, propose che il Gruppo proseguisse l’attività passando ad occuparsi della partecipazione sindacale. Ma dopo qualche seduta fu giocoforza registrare che il tema non appassionava le parti sociali e quindi il Gruppo si sciolse.     

L’esperienza nel Gruppo di Torino è stata il prodromo, se non ricordo male, di un tuo coinvolgimento sul piano istituzionale. Com’è stata la tua collaborazione con il “ministro” Treu?

  Treu entrò, a gennaio 1995, nel Governo tecnico Dini come ministro del lavoro. Era allora in discussione alla Commissione Lavoro del Senato un TU di DDL contenente “norme in materia di rappresentanza e rappresentatività”. Treu costituì una commissione ristretta composta, oltre a me, da Angelo Pandolfo e Massimo D’Antona con il compito di elaborare eventuali emendamenti governativi. Lavorammo intensamente, talora dialogando con Rinaldo Fadda, responsabile del Servizio sindacale di Confindustria, e riuscimmo a costruire un testo nuovo ed equilibrato di DDL mediante la trama degli emendamenti (l’unica via consentita ad un Governo tecnico); emendamenti che io, come consulente del Ministro, recavo in Commissione. Lavoro inutile perché il DDL, passato in Commissione Lavoro della Camera sul finire della legislatura, decadde con la conclusione della stessa e non fu ripresentato nella successiva.
 A gennaio 1996 Treu, eletto deputato, fu confermato Ministro del Lavoro nel Governo Prodi I e mi volle ancora come consulente per affiancare Francesco Tomasone, Capo del suo Ufficio Legislativo. In tale veste collaborai, in particolare, alla stesura definitiva dell’art. 59 legge n. 449/1997 contenente importanti disposizioni riguardanti le forme pensionistiche ex-sostitutive, esclusive ed esonerative e quelle eroganti prestazioni definite.
Nello stesso torno di tempo feci parte della Commissione per la verifica del Protocollo del luglio 1993 nominata dal Presidente del Consiglio e presieduta da Gino Giugni.
Nell’autunno del 1998 al Governo Prodi I subentrò il Governo D’Alema I; Treu si trasferì al Ministero dei Trasporti ed io conclusi la mia esperienza “istituzionale”.

Sempre in ambito sindacale, presso il tuo ateneo hai avuto modo di cimentarti nelle relazioni sindacali del pubblico impiego. Cosa puoi raccontarci del tuo ruolo di consulente nella delegazione di parte pubblica per le relazioni sindacali? Quali differenze hai colto tra ambito pubblico e privato?

Nel 2013 mi sono ritrovato Decano non solo del mio Dipartimento ma anche dell’Ateneo. Ho dovuto così “governare” la prima attuazione dei nuovi Statuti e dei nuovi Regolamenti, in particolare quello per l’elezione del Rettore. Per renderlo applicabile ho assunto, in collaborazione con gli Uffici, provvedimenti di adattamento di norme spesso carenti e confuse.
Grazie anche a questa esperienza il nuovo Rettore mi ha voluto come consulente, insieme a lui, poi al suo Delegato, e al Direttore nella Delegazione di parte pubblica per le relazioni sindacali.
Questo ruolo, che ricopro tuttora con il Rettore che gli è subentrato, mi ha consentito di conoscere dall’interno la complessa gestione del personale non docente di una Università (quella torinese, con più di tremila dipendenti tra amministrativi e tecnici) e la faticosa dialettica con una rsu e con le oo.ss. di riferimento dei suoi delegati. Una dialettica diversa da quella cui avevo assistito, dall’osservatorio esterno delle aziende private mie clienti; forse meno conflittuale, data la soggezione del contratto integrativo al contratto di comparto e al controllo dei Revisori dei conti, ma più dispersa lungo rivoli disparati.

Sempre sul terreno delle relazioni sindacali, so che di recente hai cominciato ad esercitare il ruolo di Presidente del Consiglio di disciplina di ATM, a Milano. Cosa mi dici di questa singolare esperienza?

          Si tratta di un organismo “terzo”, investito, in virtù di un antico Regio Decreto, del compito/potere, su ricorso del dipendente, di avallare o ridurre le sanzioni disciplinari prima che siano adottate dall’Azienda, ferma restando poi la facoltà di loro impugnazione giudiziale da parte del dipendente seventualmente,sanzionato.
Nominato dal Sindaco di Milano, sono così chiamato a svolgere una sorta di funzione mediatrice tra i tre componenti di estrazione aziendale e i tre di estrazione sindacale e, in caso di dissensi, inopinatamente di giudice, quale “ago della bilancia” sul quale riposa l’esito del giudizio ed altresì incombe poi la stesura del verbale.
Per me è ovviamente una prospettiva inedita. Confesso che cerco di ricondurla “all’abituale” immaginando come deciderebbe il giudice del lavoro ove investito dell’impugnazione e comportandomi di conseguenza.         

Ora parliamo della comunità scientifica e, inevitabilmente, dalla nostra Aidlass. Nel corso degli anni sei sempre stato attivo e “combattivo”, quale associato e quale membro del direttivo. Come valuti la tua esperienza in seno al direttivo?

Parlare di comunità è forse un po’ osé. Ma ho sempre creduto nell’importanza dell’Associazione; raramente ho disertato le giornate di studio e i congressi, convinto che favoriscono il confronto tra generazioni con arricchimento culturale di tutti. E consentono a ciascuno di mantenere vive le relazioni interpersonali che per lui contano, rarefatte dagli impegni e dalla lontananza territoriale.
Ho sempre accettato di svolgere le attività che mi sono state di volta in volta richieste e ho fatto parte di tre sessioni triennali del Direttivo, peraltro sempre in tua compagnia. La prima, con la Presidenza De Luca Tamajo, essendo io stato eletto nella lista di minoranza e, dopo un intervallo, come ben sai, le altre due, con Presidenza Ricci prima e Brollo poi, eletto nelle liste di maggioranza.
L’esperienza è stata complessivamente positiva. Può sembrare strano che io confessi di essermi trovato a mio agio più nel primo Direttivo che negli altri due, specie nell’ultimo. Ma ciò è evidentemente dipeso dalla diversa “atmosfera” di dialogo e collaborazione instauratasi in quello rispetto agli altri due, specie all’ultimo. Per carità, sicuramente anche a cagione mia. Non mi pare però il caso di entrare nel dettaglio delle relative esperienze visto che le abbiamo vissute insieme!

Dai tuoi ricordi emerge che l’Accademia ti ha dato molto. Possiamo dire che ti ha dato tutto o, come spesso accade, c’è qualche rimpianto?

Effettivamente sarei ingeneroso se adducessi molti rimpianti. Uno comunque lo confesso, anche se non ne ho mai fatto un dramma: il mancato approdo alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università milanese di Festa del perdono.
A metà degli anni ottanta fu bandito il concorso per la copertura della cattedra di diritto del lavoro, forse troppo presto per me. Comunque presentai domanda e la presentò anche Luciano Spagnuolo Vigorita, cui mi legava un rapporto di stima per la sua personalità scientifica e di riconoscenza, giacché aveva contribuito al formarsi di un clima a me favorevole per la vittoria al concorso del 1975 con una recensione di apprezzamento della mia monografia in RTDPC. Mi chiamò per dirmi che gli doleva mettersi in concorrenza con me e mi spiegò i motivi che lo spingevano a trasferirsi a Milano.
Nella seduta del Consiglio, allorché il Preside comunicò che c’erano tre domande, Ugo Carnevali, titolare di una delle cattedre di Diritto civile, mio maggior sponsor, come avevamo concordato, presentò la mia rinuncia. La domanda di Luciano, giurista robusto di altra generazione, non era obiettivamente contrastabile. Tuttavia il Consiglio volle verbalizzare che oltre alla domanda che si faceva preferire c’era stata quella di un giovane studioso che la Facoltà contava di poter acquisire in seguito.
Ma questa occasione non mi è stata offerta. Ho preferito allora non prendere in considerazione le altre che mi si sono presentate nell’area milanese e restare per trentacinque anni nella Facoltà di Torino.
Volendo aggiungere un altro piccolo rimpianto, è quello di non avere “generato” un numero più ampio di allievi e di allieve. Ma alcuni li ho perduti lungo il cammino, per loro scelte di vita e professionali inconciliabili con le asperità della carriera accademica. Quelli rimasti, o che si sono aggiunti quali loro propaggini, e che hanno completato o stanno completando il loro cursus honorum accademico, sono per me molto importanti ma non intendo parlarne. Gli allievi sono persone di famiglia e quindi di essi sarebbe poco simpatico discorrere in pubblico!

Notoriamente hai anche attivamente fatto, come suole dirsi in gergo, l’avvocato. Come valuti la tua esperienza professionale, che mi risulta non essere ancora cessata?

Iniziai ad esercitare la professione nell’autunno del 1976, dopo la chiamata all’Università di Palermo. In verità si trattò al principio di un esercizio “di fatto”, in simbiosi con il fraterno amico Franco Realmonte, allievo civilista di Luigi Mengoni. Non ero iscritto all’albo perché non avevo superato l’esame; mi ero deciso a sostenerlo senza prepararlo, per non sottrarre tempo alla ricerca, e troppo a distanza dagli studi universitari.
Franco era iscritto all’albo ma neppure lui aveva fatto la gavetta di un praticantato effettivo. Preparavamo gli atti insieme e li scrivevamo a quattro mani. Quando avevamo dubbi processuali consultavamo un comune amico, Aldo Tino, che era una garanzia. Accompagnavo Franco in udienza come suo praticante! Il lavoro in simbiosi prosegui tuttavia anche dopo la mia iscrizione all’albo fin quando il carico di lavoro ce lo consentì.
Quanto alla carriera professionale riconosco che non avrei potuto augurarmi di meglio perché ho potuto occuparmi “sul campo” di questioni nevralgiche della nostra materia assistendo, per lo più, imprese di medie e grandi dimensioni.
Mi sono occupato di trasferimenti di aziende e di rami, a partire da una vicenda che si svolse nel contesto legge n. 675/1977 sulla riconversione industriale e che beneficiò della c.d. sterilizzazione dell’art. 2112 c.c. operata da un decreto legge del marzo 1978. Con esso notoriamente prese avvio l’infinita stagione della disciplina speciale dei trasferimenti di imprese in crisi e, in correlazione, degli interventi della Cassa integrazione speciale.
Ho seguito fin dalla prima fase la privatizzazione dei rapporti di lavoro di aziende in mano pubblica. Mi sono occupato di fondi pensione ex-esonerativi e di fondi di previdenza complementare.
Ho assistito enti pubblici territoriali, aziende radiotelevisive, di trasporto aereo, di telecomunicazione, di credito, di autotrasporto (anche con riguardo alla questione nodale della qualificazione del rapporto dei c.d. padroncini), di logistica, per arrivare ad occuparmi della questione dei riders su cui abbiamo prima fermato l’attenzione.
Insomma, una attività professionale ad ampio raggio, anche territoriale, nei Fori di tutta Italia. Non credo di sbagliare se penso che questa lunga e intensa esperienza mi abbia giovato anche sul piano della ricerca scientifica e dei suoi prodotti.

Dunque, come è del resto notorio, hai assistito quasi esclusivamente datori di lavoro e quindi puoi essere considerato un avvocato “datoriale”. Come hai vissuto la difesa delle aziende, anche grandi, rispetto alla sensibilità di cui ci hai riferito parlando del tuo approdo alla Pirelli?

Forse perché sono stato, per la maggior parte dei miei clienti, anche, in via preventiva, consulente, assai di rado ho provato, come difensore, sensazioni amare come in occasione della mia esperienza alla Pirelli. Ma forse pure perché, negli anni sessanta, i “costumi” in certe grandi aziende erano assai diversi da quelli, per così dire, “post-statuto dei lavoratori”.
In verità, negli anni settanta e ottanta chi difendeva grandi aziende nel triangolo industriale provava piuttosto la sensazione di trovarsi, detto cum grano salis, in trincea.
Posso aggiungere, soddisfacendo in anticipo una tua probabile curiosità, che, nel trattare questioni di diritto, altrettanto raramente mi sono trovato a dover sostenere tesi in antitesi con il Manuale.

Permettimi un’altra domanda forse “impertinente”. Pensi che il mestiere di avvocato padronale abbia influenzato il mestiere di giuslavorista?

Giocando sugli aggettivi, mi sento di dire che la domanda è invece del tutto “pertinente” perché sottende l’opinione, diffusa se non generalizzata, che io sia un giurista “schierato”.
Certo, potrei ribaltare l’accusa sui giuslavoristi che difendono sul fronte opposto o che, senza esercitare la professione forense, hanno militanze sindacali o partitiche o comunque in gruppi ideologicamente schierati. Ma nei confronti di molti di loro sarebbe ingiusto.
Per cominciare, mi piacerebbe che si chiedesse alla moltitudine di studenti che hanno seguito le mie lezioni torinesi, tra cui attuali giudici, se mi hanno percepito come giurista e docente fazioso o equilibrato e trasparente
Permettimi di tornare a ripetere che, da giurista, ho sempre cercato di controllare, nell’interpretazione delle norme, l’incidenza del mio back-ground ideologico e culturale e soprattutto di restare fedele ai canoni della corretta ermeneutica e al valore della coerenza logica delle argomentazioni. Può certo darsi che talora non ci sia riuscito, ma non a causa della mia attività professionale a favore dei datori di lavoro: non ho mai subito condizionamenti e non ho mai appartenuto a schieramenti.
Al contrario sono convinto che l’attività professionale ad ampio raggio, anche territoriale, nei Fori di tutta Italia, lo ripeto, mi abbia completato anche sul piano della ricerca scientifica e dei suoi prodotti.
La verità è che la maggior parte di quanti (colleghi ma anche giudici) mi vivono come studioso di parte concepisce (ed esercita) il mestiere di interprete delle norme come ha avuto almeno il coraggio di confessare uno di loro, cioè “specificamente connotato da una esplicita, anzi apertamente rivendicata, opzione interpretativa e, in definitiva, di politica del diritto”.

Concedimi, infine, una domanda personale. Amici e colleghi sanno che da qualche anno “eserciti” con cura e gioia il ruolo di nonno. Come ti trovi in questa veste?

Anche i nipoti sono persone di famiglia, ma a differenza dei figli, di essi è consentito, ed anzi è un piacere discorrere, ohimè, anche in pubblico!
Ho due nipotine, una, Viola, di sei anni e mezzo e l’altra, Sofia, di nove anni e mezzo. La fortuna, mia e di mia moglie, è che i loro genitori non sono possessivi e ce le affidano volentieri anche al di là della routine scuola/casa (che impegna soprattutto mia moglie).
Sofia ha cominciato a viaggiare per il mondo con noi fin dai tre anni di età e Viola, che ha potuto aggiungersi solo quando li ha compiuti, è retrospettivamente gelosa della sorella per quel che a sé è stato precluso di condividere.
Dire che sono vivaci è dir poco. Si adorano ma anche si azzuffano, e in quel caso diventano incontenibili. Il mio affetto è grande ma non mancano le frizioni con loro, specie con la più piccola. Non so se perché femmine, mancandomi l’esperienza comparativa!
Certo è che riempiono la mia vita nei fine settimana e nei periodi delle vacanze, che in verità ora tendo ad allungare. Per il resto, fin quando mi è consentito, non intendo rinunciare al lavoro scientifico e professionale.

 

 

 

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