Testo integrale con note e bibliografia

1. Le relazioni e la presentazione che hanno preceduto il mio intervento consentono di sentirmi esonerato dall’arduo compito di sintetizzare, nella introduzione alla tavola rotonda che seguirà, il contenuto straordinariamente ricco dei due volumi che oggi presentiamo .

Ai tanti argomenti di riflessione che sono stati già offerti, quindi, mi limito ad aggiungere alcune osservazioni relativamente a tre temi. Temi che ho scelto, sia pure con una certa arbitrarietà, perché “sono” e “fanno” la storia stessa del diritto del lavoro (“dalle origini ai giorni nostri”) e perché, in qualche misura, mi consentono di sottolineare alcuni tratti della personalità scientifica dell’Autore, quali, voglio anticipare, la fedeltà alla legge, l’attenzione al sistema, l’apertura al pensiero problematico, la fermezza dei valori.

I. La dicotomia subordinazione-autonomia.

2. Il primo tema, ça va sans dire, attiene alla individuazione della fattispecie fondamentale del diritto del lavoro, la subordinazione, ed alla distinzione dalla fattispecie contigua della autonomia. Tema che, per quanto antico, mantiene sempre intatta la sua centralità, poiché il lavoro subordinato continua, ancora oggi, a costituire il centro di imputazione di uno speciale statuto protettivo, nonostante le riforme “regressive” degli ultimi anni e nonostante l’avvio di un processo di (parziale) estensione delle tutele anche a favore di lavoratori che subordinati non sono.

La posizione di Santoro, al riguardo, è sviluppata, con grande coerenza, nei tanti contributi prodotti nel tempo, addirittura intensificatisi negli ultimi anni, durante i quali è stato certamente tra i più presenti nell’amplissimo dibattito suscitato sia dalle modifiche del quadro normativo (in particolare, quelle che hanno introdotto la problematica figura delle collaborazioni eterorganizzate e una specifica disciplina per il lavoro dei cd. riders), sia dalle trasformazioni delle organizzazioni produttive (con l’avvento della globalizzazione, dell’“era digitale” e delle nuove tecnologie).

 

La sintesi di tale posizione può, in qualche modo, essere individuata nel saggio di apertura del volume su Realtà e forma nel diritto del lavoro , nel quale, dopo una ricostruzione storica densa di suggestivi richiami alle origini dottrinali della nozione di subordinazione, l’Autore delinea, prima, la ricostruzione di tale nozione sulla base della sistematica codicistica e, poi, sottopone i risultati cui perviene ad una sorta di “prova di resistenza” volta a verificarne la persistente adeguatezza in relazione ai mutamenti del quadro normativo e della realtà sociale di cui poc’anzi si è fatto cenno .

3. Quanto al primo aspetto, i tratti che distinguono il contratto di lavoro subordinato da quello d’opera sono individuati nel profilo della durata e nel profilo relativo alla natura dei poteri riconosciuti al creditore della prestazione.

Solo il lavoro subordinato, infatti, è un contratto ad esecuzione continuativa e soddisfa un interesse durevole del creditore, mentre il lavoro autonomo è un contratto ad esecuzione istantanea, o al più reiterata (come nel caso dell’agenzia e del mandato, e dello stesso contratto d’opera intellettuale) .
A ciò si collega, nella ricostruzione di Santoro, l’altro elemento discretivo tra subordinazione ed autonomia, individuato nei poteri del creditore: nella prima, il potere di impartire direttive, dal quale discende che il prestatore è “a disposizione” del datore di lavoro; nella seconda, il potere di impartire istruzioni, il quale, invece, non implica l’obbligo del prestatore di essere a disposizione del committente .
La posizione del Nostro, quindi, si colloca, autorevolmente accreditandola, nella prospettiva dottrinale che individua nel potere direttivo la nota caratterizzante del contratto di lavoro subordinato, implicitamente disconoscendo valore dirimente ad altri indici che, come riconosce anche parte della giurisprudenza, hanno carattere anfibologico e possono assumere solo un rilievo sintomatico.
4. Quanto alla “prova di resistenza”, rappresentata dal confronto con l’evoluzione post-codicistica del quadro normativo e della realtà sociale, le mosse vanno prese dalla conosciutissima monografia del 1979 , nella quale, sulla base dei primi “germogli” normativi (in particolare, l’art. 409, n. 3, Cod. proc. civ., introdotto dall’art. 5 della legge n. 533 del 1973), Santoro teorizzò la categoria della parasubordinazione allo scopo di individuare compiutamente la specifica disciplina applicabile a rapporti caratterizzati da debolezza socio-economica. Nella sua ricostruzione, veniva colto come il legislatore avesse colmato una lacuna ravvisabile nella sistematica del Codice, poiché questa non aveva affatto preso in considerazione, né regolato, il lavoro autonomo continuativo. Nel contempo, però, Egli manteneva ferma la dicotomia codicistica in quanto la nuova fattispecie veniva pur sempre ricondotta nel più ampio genus del lavoro autonomo.
Come l’agenzia e il mandato, infatti, anche le collaborazioni coordinate e continuative possono configurare un contratto di durata, nel senso soltanto che possono avere ad oggetto la ripetizione di più opera (ciascuna delle quali resta ad esecuzione istantanea) e si distinguono dal tipo ex art. 2094 Cod. civ. per l’assenza del vincolo di subordinazione derivante dall’assoggettamento al potere direttivo .
Coerentemente, negli scritti che oggi presentiamo, il nostro Autore ha ripetutamente manifestato una posizione critica nei riguardi di quelle tesi, avanzate sia de iure condendo che de iure condito, con le quali, invece, nel corso degli anni, è stata variamente propugnata l’individuazione di un tertium genus di forma di lavoro, caratterizzata da un potere di coordinamento del committente diverso e distinto tanto dal potere direttivo del datore di lavoro quanto dai poteri di (limitata) ingerenza riconosciuti al creditore della prestazione di lavoro autonomo .
La ragione della critica rivolta da Santoro a tali tesi risiede, fondamentalmente, nella difficoltà di distinguere un siffatto potere di coordinamento dal potere direttivo, come, in effetti, è dimostrato dalle preoccupanti dimensioni sociali assunte dal fenomeno dell’uso fraudolento delle collaborazioni coordinate e continuative, che sono divenute nei fatti un agevole strumento per mascherare rapporti di lavoro aventi in realtà natura subordinata.

5. Per ragioni analoghe, il Nostro dissente altresì dalle tesi che hanno ricondotto le collaborazioni eterorganizzate nel genus del lavoro autonomo, in quanto ritiene che il potere organizzativo coincida sostanzialmente con il potere direttivo. Perviene, così, alla conclusione che l’art. 2 del d. lgs. n. 81/2015, nella sua formulazione originaria, avesse esclusivamente finalità antifraudolenti in quanto volto soltanto ad agevolare l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato a rapporti di finto lavoro autonomo .

Diversamente, a seguito delle modifiche apportate nel 2019 (con il d.l. n. 101/2019), la disposizione dell’art. 2 muta indubbiamente le sue finalità estendendo la sua applicazione ai lavoratori autonomi “deboli” poiché le modifiche introdotte hanno eliminato dalla fattispecie delle collaborazioni eterorganizzate proprio quegli elementi che, nel testo originario, consentivano di ricondurla, per intero, nel genus del lavoro subordinato .

La nuova formulazione dell’art. 2, però, si espone alla condivisibile critica che l’attuale disciplina delle collaborazioni eterorganizzate, pur essendo basata sulla intenzione di collegare la estensione delle tutele alla “debolezza” socio-economica dei lavoratori cui si rivolge, risulta del tutto incongrua rispetto allo scopo, in quanto i criteri adottati per individuare la fattispecie fanno riferimento a caratteri della prestazione e non alle condizioni soggettive del collaboratore .

In relazione, infine, alla disciplina del Capo V-bis del d. lgs. n. 81 del 2015 (introdotto dallo stesso d.l. 101/2019), che intende regolare i rapporti dei riders “lavoratori autonomi”, sono note le perplessità che essa ha sollevato, a causa dell’ambiguità della formulazione e delle contraddizioni intrinseche con la fattispecie dell’art. 2 del d. lgs. n. 81 del 2015 . Santoro, tuttavia, ci ha offerto l’unica interpretazione a mio avviso plausibile per superare un’aporia sistematica altrimenti irrisolvibile, osservando come si debba ritenere che le collaborazioni dell’art. 2 hanno ad oggetto le prestazioni del rider rese di fatto in via continuativa, mentre la disciplina del Capo V-bis trova applicazione soltanto quando la prestazione sia occasionale .

5. Non è questa la sede per dare conto, neppure in larghe linee, del dibattito scientifico sul tema, “mai veramente concluso, né forse concludibile” , né per sottolineare le tante ragioni di personale condivisione della ricostruzione offerta dal Nostro .
Preme, invece, rilevare la preziosa lezione di metodo “praticato” (e non solo declamato o teorizzato) che dai suoi contributi deve essere colta.
Una lezione che ricorda allo studioso di diritto il vincolo fondamentale della fedeltà alla legge, da combinare, anche in epoca di “nichilismo” giuridico, con la ricerca della coerenza al sistema, tenendo conto, al riguardo, che il “sistema” non è un dato pre-fissato ma è proprio il risultato dell’opera del giurista, il quale può, e deve, pervenirvi tenendo conto costantemente non solo dei mutamenti normativi, ma anche di quelli della realtà sociale.
Dalla fedeltà alla legge, e dalla ricerca della coerenza con il sistema, peraltro, deriva direttamente un’ulteriore indicazione, e cioè che, quando l’opera ricostruttiva non consenta di pervenire ad esiti razionalmente accettabili, la soluzione “non compete all’interprete, ma al legislatore” , al quale il primo può, semmai, segnalare incoerenze e disfunzionalità del sistema stesso, così come offrire ipotesi di possibili soluzioni.
Santoro, così, conclude lo sviluppo del suo pensiero avvertendo che la dicotomia codicistica non appare più idonea a regolare la variegata realtà del lavoro e che la fattispecie della subordinazione è, oramai, entrata in crisi . E ciò sia a causa della ampia diffusione di modelli normativi differenziati da quello un tempo standard, tanto da potersi oggi parlare di “subordinazioni” e non di “subordinazione” , sia, allo stesso tempo, in conseguenza dell’avvento delle nuove tecnologie che hanno comportato una multiforme diversificazione delle modalità spazio-temporali di collegamento tra l’impresa e l’attività umana .

Una siffatta diversificazione, allora, rende il lavoro non più riducibile e comprimibile entro i caratteri che, storicamente, avevano contrassegnato la nascita e l’affermazione del contratto di lavoro subordinato, lasciando privi di adeguata protezione ampie fasce di persone, le quali pure vivono del proprio lavoro, sol perché nei rapporti di cui esse sono parte non ricorre il vincolo della subordinazione tecnico-funzionale.

Dal che la proposta che Egli suggerisce ai conditores legum è di abbandonare tanto la tecnica basata sulla costruzione di una fattispecie unica cui affidare l’improbo ruolo di regolare tutte le pluriformi realtà lavorative, quanto la tecnica che pretende di introdurre nuove fattispecie fondate su criteri meramente formali, come quelli del coordinamento e dell’eterorganizzazione. Ed invece, la direzione suggerita è quella di introdurre una fattispecie individuata sulla base di criteri effettivamente idonei ad esprimere le condizioni di debolezza contrattuale o di dipendenza economica del lavoratore ponendo in evidenza che una tale fattispecie, proprio perché non riconducibile alla nozione di subordinazione, consentirebbe anche di procedere ad una estensione selettiva, e non meccanicamente integrale, delle tutele del lavoro subordinato .

II. Il contratto collettivo.

1. Il secondo tema, anch’esso di rilievo centrale nella raccolta di scritti e, in particolare, nel richiamato saggio di apertura, ruota attorno al contratto collettivo, le cui molteplici problematiche sono esaminate attraverso le lenti dell’elaborazione dottrinale , la quale, com’è noto, in questo ambito più che in altri, ha avuto l’autorevolezza per influenzare l’evoluzione dell’ordinamento giuridico e, in particolare, della giurisprudenza.

2. Per quanto riguarda l’assetto della costituzione materiale derivante dall’inattuazione della seconda parte dell’art. 39, il Nostro sottolinea come le uniche due dottrine “che hanno proposto una teoria completa del contratto collettivo” di diritto comune siano state quelle di Francesco Santoro Passarelli e di Gino Giugni .

Il primo “inventa la categoria dell’autonomia collettiva come specie dell’autonomia privata”, e lo fa “non in forza di un ragionamento astratto ma desumendola dall’osservazione della realtà”. Fu quella dottrina, ci ricorda, che segnò, nel Convegno di Messina del 1954, la “rotta” dei sostenitori della tesi pubblicistica dell’autonomia collettiva .
Gino Giugni, invece, muovendo dalla lezione di Perlman e dall’esperienza dell’istituzionalismo della Scuola del Wisconsin, elabora la teoria dell’ordinamento intersindacale quale diritto originato dall’autonomia dei gruppi professionali .
Delle due teorie, viene puntualmente evidenziata la reciproca non contraddizione e anzi la complementarietà, essendo state, per vie diverse, entrambe solidali con la stagione privatistica del diritto sindacale e con il contrasto ad ogni tentazione di ripubblicizzazione .
Mantenendo ben ferme queste ineccepibili osservazioni, mi piace qui richiamare un profilo di diversità del modo in cui le due teorie hanno inciso sull’evoluzione del diritto positivo e degli studi sul contratto collettivo. A me sembra possa ritenersi che l’elaborazione santoriana abbia influenzato in modo decisivo il formante giurisprudenziale, fornendo ai giudici l’armamentario concettuale da essi utilizzato. E, quindi, ha direttamente inciso nel “diritto vivente”, posto che, anche assumendo la prospettiva della teoria di Giugni, la giurisprudenza costituisce il canale di collegamento tra l’ordinamento sindacale e l’ordinamento statale.

La teoria di Giugni, dal canto suo, ha avuto un’indubbia capacità descrittiva con riferimento alla fase storica in cui fu elaborata, ed ha dato, altresì, avvio ad un nuovo corso e metodo di studi, perché, come lo stesso Giugni puntualizza nel suo Manuale, consentiva di individuare e spiegare le “costanti di comportamento tipiche di ciascun sistema di relazioni industriali”.

Tuttavia, alla luce dell’evoluzione successiva, i pregi della teoria dell’ordinamento intersindacale sembrano segnare anche il suo limite, poiché la rilevazione dei dati esperienziali ha evidenziato la fragilità delle “costanti” di comportamento su cui l’ordinamento dovrebbe fondarsi o, quantomeno, essere ricostruibile. In particolare, negli ultimi decenni, la frammentazione delle organizzazioni sindacali (anche, oggi, quelle di parte datoriale) e le ricorrenti crisi nei rapporti unitari tra i sindacati dei lavoratori hanno posto in luce la scarsa tenuta, e talvolta la totale ineffettività, delle regole prodotte, così come viene denunziato anche dalla infruttuosità dei ripetuti tentativi di autoriforma della rappresentanza e del sistema della contrattazione collettiva .

E’ invece su un diverso piano che il pensiero di Giugni ha influenzato in profondità l’evoluzione dell’intero diritto del lavoro, e non solo sindacale. Come ampiamente noto, è al “padre” dello Statuto dei lavoratori che va riconosciuta l’intuizione di interrompere la prolungata fase post-codicistica della abstention of law e di introdurre una speciale disciplina volta alla promozione dell’azione di sindacati qualificati dalla rappresentatività a livello extraziendale (art. 19), conferendo loro funzioni di rappresentanza di tutti i lavoratori appartenenti alla comunità aziendale (cfr. artt. 4 e 6) .

Ciò che va notato è che tale modello, ripreso e progressivamente esteso dalla legislazione successiva, anche in ambiti e con formule diverse , ha determinato la creazione di un nuovo canale di collegamento tra legge e azione sindacale, che non può essere di per sé ricondotto ai principi del diritto privato, se non altro perché i poteri, i diritti e le funzioni riconosciuti al sindacato, cui la legge di volta in volta rinvia, prescindono da qualsiasi meccanismo di verifica della volontà di conferimento della rappresentanza da parte dei lavoratori appartenenti alla comunità interessata.

A ben vedere, dunque, il diritto sindacale, che un tempo era “senza norme” ma anche “senza lacune” grazie all’apporto della ricostruzione privatistica dell’autonomia collettiva, si trova oggi di fronte ad un nuovo elemento di complessità sul piano sistemico, che è rappresentato dalla difficoltà di far convivere i principi del diritto comune con quelli desumibili dalla sempre più ampia serie di norme che, pur senza dettare una disciplina organica (da più parti, peraltro, invocata), incide sui rapporti tra legge e azione sindacale.

4. E’ su questa difficoltà che si innesta, in termini profondamente diversi dal passato, la “antica” questione della eventuale riconducibilità del contratto collettivo tra le fonti del diritto.

Nel suo Manuale, Santoro affronta questo tema spinoso, muovendo dalla condivisibile preoccupazione che il riconoscimento di funzioni normative al sindacato ne possa implicare la trasformazione in soggetti pubblici e, conseguentemente, esclude che il contratto collettivo sia stato attratto nel sistema dalle fonti, osservando che gli interessi da esso regolati, anche nelle ipotesi di rinvio legale, sono e rimangono interessi privati di gruppi e non già interessi generali .
Tuttavia, pur nella fermezza di tale conclusione, Santoro mostra, anche a questo riguardo, la sua apertura al pensiero problematico e l’attenzione ai segnali che provengono dalla realtà sociale. Egli, infatti, muove dal convincimento che il diritto del lavoro è un “laboratorio” privilegiato per verificare l’evoluzione dei rapporti tra diritto formale e diritto materiale . E ricorda, tra l’altro, che, anche secondo l’insegnamento paterno, lo studioso di diritto è chiamato ad estendere la propria indagine alle “regole e istituzioni spontanee espresse direttamente dalla collettività”, poiché “la massima ubi societas ibi ius non significa soltanto che la società non può fare a meno del diritto, ma significa che la società civile produce diritto e che il fatto sorretto dal consenso fa legge anche indipendentemente dalla consuetudine” .
Ai suoi studenti, quindi, il Nostro propone anche una diversa prospettiva, evidenziando, da un lato, il significato sistematico che si potrebbe desumere dai rinvii della legge al contratto collettivo, e ricordando, dall’altro, come, all’interno dell’ordinamento intersindacale, quel contratto assolve alla stessa funzione di normazione generale e astratta propria della legge. Dal che conclude rilevando che il contratto collettivo potrebbe eventualmente essere considerato fonte extra ordinem, “se sorretto dal consenso unanime o largamente prevalente dei sindacati comparativamente più rappresentativi .
5. A tali osservazioni vorrei aggiungere qualche ulteriore spunto per chi si volesse cimentare ancora sul tema, alla ricerca di un inquadramento del contratto collettivo più appagante rispetto allo stato attuale dei rapporti tra ordinamento statuale e autonomia sindacale .
Il punto è che, allorquando la teorica dell’autonomia collettiva fu sviluppata, i modelli dei rapporti tra Stato e sindacati erano due: da un lato, quello prefigurato dalla Costituzione, che, attraverso un compromesso tra autorità e libertà, affida al sindacato il potere di contrattare per tutta la categoria; dall’altro, quello di fatto che iniziava ad affermarsi, nel quale il contratto collettivo opera nell’“indifferenza” della legge, tanto da dare linfa, come detto anche alla ricostruzione giugniana dell’ordinamento intersindacale.

Ma oggi, come ho accennato, non è più così. Il modello che si è affermato è un modello “terzo”, nel quale il contratto collettivo non vive soltanto nella collettività o nell’ordinamento che lo ha espresso, nell’indifferenza del legislatore. Al contrario, il legislatore ha allacciato una fitta rete di relazioni con la contrattazione collettiva, sostenendola e facendo ad essa sistematicamente riferimento ai fini della regolazione di tutti gli aspetti essenziali del rapporto di lavoro, cercando in vario modo di dilatarne l’applicazione ultra partes, riconoscendole un potere di vincolo ed un’efficacia analoga a quella della legge, assegnandole la funzione di parametro per la determinazione delle condizioni economiche e normative nell’intero ambito di riferimento, creando intrecci e collegamenti a volte inestricabili.

Come in altre occasioni mi è parso di poter dire , questa “rete” di rinvii, pur non determinando l’attribuzione di poteri normativi ai soggetti del contratto collettivo, comporta l’attribuzione di un particolare rilievo ai prodotti dell’autonomia collettiva. Il contratto collettivo è, infatti, considerato alla stregua di una “fonte fatto”, che prescindendo dai processi relativi alla sua formazione (lasciata ai naturali equilibri ed agli spontanei esiti delle libere dinamiche sindacali), è utilizzata per regolare una materia (quella della disciplina dei rapporti di lavoro) che il legislatore stesso non intende, e non può, completamente regolare a livello di fonti primarie, stante la competenza riconosciuta all’autonomia collettiva dall’art. 39 Cost..

Una siffatta ricostruzione, da un lato, trova il conforto di quella autorevole dottrina costituzionalista, secondo la quale il sistema delle fonti di cui all’art. 1 delle preleggi al Codice civile è un sistema chiuso solo a livello di fonti primarie, in quanto il legislatore può riconoscere altre fonti ad essa gerarchicamente subordinate . Onde, le disposizioni di legge che fanno rinvio al contratto collettivo possono essere considerate norme di “riconoscimento” della fonte fatto sub-primaria .

D’altro lato, si sottrae al timore della pubblicizzazione delle funzioni del sindacato, in quanto i rinvii della legge sono operati solo ai contenuti della azione contrattuale, senza incidere sulla libertà di quest’ultima . E, allo stesso modo, si sottrae all’obiezione fondata sulla impossibilità di attribuire efficacia generale al contratto collettivo di diritto comune (stante il vincolo della parte inattuata dall’art. 39 Cost.), in quanto le fonti subprimarie non necessariamente devono essere caratterizzate dalla generalità dell’efficacia soggettiva propria della legge .

III. La funzione del diritto del lavoro

Il terzo ed ultimo tema, al quale è possibile fare solo un cenno, riguarda l’evoluzione complessiva della nostra materia, della quale gli scritti del Nostro mettono in luce le diverse fasi, i momenti di rottura e gli elementi di continuità. Da questo punto di vista, non può non risaltare, anche per il lettore distratto, l’attenzione di Santoro a cogliere gli aspetti salienti idonei a caratterizzare una tale complessa evoluzione .

Basterebbe citare il suo manuale di studi, al quale, sin dalla prima edizione del 2002, ha dato il titolo, assolutamente innovativo nella manualistica dell’epoca, di “Diritto dei lavori”, in modo da rendere subito chiaro ai suoi studenti il significativo mutamento d’asse che stava emergendo dai più recenti sviluppi della legislazione, dei quali si è già detto (nel primo paragrafo). Vale a dire, si ribadisce, il venir meno della assoluta centralità del modello standard rappresentato, per buona parte del novecento, dal contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, e, dall’altro lato, l’espansione degli obiettivi di tutela, costituzionalmente sancita, anche al lavoro svolto senza vincolo di subordinazione, nelle diverse forme, tipiche e atipiche, che compongono la galassia del lavoro autonomo.

Allo stesso modo, è significativo che il titolo del suo Manuale sia stato poi, aggiornato, a partire dall’edizione dalla quinta edizione (2015), aggiungendo il riferimento all’“occupazione”, al fine di dare la giusta enfasi all’importanza assunta, anche sulla base dell’impulso delle strategie europee, dalla regolazione del mercato del lavoro, inteso come quel complesso insieme di misure che mirano a regolare la fase dell’incontro tra domanda ed offerta (il «collocamento», secondo la terminologia tradizionale), a stimolare e agevolare tale incontro (i «servizi per il lavoro», secondo la terminologia di oggi), ed a sostenere l’occupabilità dei soggetti in cerca della prima o di una nuova occupazione (le cd. «politiche attive», quali sono quelle relative all’orientamento ed alla formazione professionale).

Ed allora, seguendo la linea che è tracciata nei suoi scritti più recenti raccolti nel volume su “Realtà e forma del diritto del lavoro”, si deve convenire, con il Nostro, che l’ultima “frontiera” che si può oggi intravedere è senz’altro quella dell’impatto sul mondo del lavoro derivante dalle nuove innovazioni tecnologiche, da “industria 4.0” alla digitalizzazione, dagli strumenti dell’intelligenza artificiale agli inafferrabili “algoritmi” in grado di modificare i tradizionali rapporti tra impresa e lavoro umano .

Non v’è bisogno, qui, di ricordare che quella che stiamo vivendo è effettivamente una nuova “era”, nella quale si manifestano questioni sociali e interrogativi inediti per il futuro stesso del lavoro. Questioni ed interrogativi che riguardano non solo il tema della qualificazione dei rapporti, al quale si è già fatto cenno, ma anche quello della tutela della persona di fronte alle nuove insidie che si presentano. E ciò, anzitutto, per quel che riguarda le condizioni materiali di vita, vista la gravissima diffusione del “lavoro povero” (o, per meglio dire, della “povertà nonostante il lavoro”), ma anche sotto il profilo dei diritti fondamentali della dignità e della sicurezza, stanti i rischi che l’avvento dell’intelligenza artificiale può, ad esempio, comportare in termini di discriminazioni, di invasività dei controlli sul lavoro, di lesioni della privacy e dei dati personali.

Di fronte ad una evoluzione così complessa ed articolata, che, in relazione agli scenari più attuali, apre la strada alla necessità di nuove risposte (non solo da parte degli Stati ma dell’intera comunità internazionale), il monito di Santoro, fondato sulla fermezza dei valori essenziali e, quindi, sul valore del “lavoro” riconosciuto dalla Costituzione , si eleva forte e chiaro:

“Comunque il diritto del lavoro avrà ragione di esistere fino a quando assolverà alla sua funzione tipica che è quella di proteggere la parte debole del rapporto e, conseguentemente, la persona del lavoratore”. E, “se, viceversa, le nuove normative terranno conto solo delle ragioni dell’economia globalizzata dimenticando la disparità di forza contrattuale che esiste tra le parti del rapporto di lavoro, il diritto del lavoro non avrà più ragione di esistere e il contratto di lavoro tornerà ad esse uno dei tanti contratti regolati dal diritto civile” .

Parole, queste, che non hanno bisogno di essere chiosate o commentate, ma solo di essere attentamente ricordate.

 

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